sabato 7 gennaio 2017

Rolling Stones - Blue & Lonesome

Il 2016 ha visto il ritorno dei leggendari Rolling Stones, band dall'incredibile longevità che di certo non ha bisogno di presentazioni. Il nuovo album del gruppo di Mick Jagger si intitola Blue & Lonesome ed è il primo disco interamente di cover del quartetto inglese. I Rolling Stones fanno una scelta coraggiosa decidendo di reincidere dodici classici del blues di Chicago, spaziando da Little Walter a Magic Sam fino ad Howlin' Wolf. Prima di Blue & Lonesome l'album dei Rolling Stones che conteneva più cover era il loro eponimo disco di esordio del 1964 che ne conteneva nove più tre inediti.

Se da un lato la scelta di attingere dal blues di Chicago può sorprendere, perché il gusto degli ascoltatori moderni è molto lontano da quel genere musicale, dall'altro non va dimenticato che la carriera dei Rolling Stones prese le mosse proprio da quel repertorio come confermato dal suono dei loro dischi della origini ma soprattutto dal fatto che il nome stesso della band è tratto dal 45giri Rollin' Stone di Muddy Waters.

Il gruppo interpreta i classici mantenendo le melodie fedeli a quelle degli interpreti storici facendo anche grande uso dell'armonica, suonata da Mick Jagger che in questo disco non suona la chitarra, e delle chitarre in stile blues grazie anche alla presenza di Eric Clapton, ospite d'eccezione in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor e I Can't Quit You Baby di Willie Dixon. La fedeltà agli originali è tale da regalare a questo disco un pregio di grande valore: l'album suona vecchio. I pezzi suonati dagli Stones non sembrano cover nuove di brani classici, ma pezzi presi di peso dalla Chicago degli anni 50 e trapiantati ai nostri giorni. Trattandosi di classici della musica è davvero arduo individuare pezzi migliori di altri perché ci troviamo davanti a dodici tracce da ascoltare e che trasportano in luoghi e tempi lontani interpretate con grande maestria da quattro leggende della musica.

Se proprio dovessimo scegliere i brani migliori di questo disco la scelta cadrebbe su Just a Fool di Buddy Johnson, qui interpretata nella versione di Little Walter, e I Gotta Go ancora di Little Walter per via del suono dell'armonica che non può mancare nei pezzi di Walter. Di grande impatto è anche la già citata Everybody Knows About My Good Thing grazie alla tecnica della slide guitar eseguita magistralmente da Clapton.

Il disco è stato registrato il soli tre giorni nel dicembre del 2015 e rende un bellissimo omaggio a un genere musicale da cui è nata ogni forma di musica moderna. La nostra speranza è che Blue & Lonesome possa far conoscere questi classici e i loro autori alle nuove generazioni, perché a chi non conosce il blues di Chicago manca una bella fetta delle basi per capire tutto ciò che è venuto dopo e che esiste oggi.

martedì 20 dicembre 2016

AA. VV. - We Wish You a Metal Xmas and a Headbanging New Year

L'accostamento tra heavy metal e canti di Natale può sembrare forzato, ma una bellissima e divertente compilation uscita nel dicembre del 2008 dimostra che quando i grandi maestri del metal si cimentano con i canti della tradizione il risultato può essere soprendentemente divertente. Il disco in questione si intitolta We Wish You a Metal Xmas and a Headbanging New Year e come suggerisce lo stesso titolo contiene i migliori classici canti natalizi reinterpretati in versione heavy metal dai più grandi musicisti e cantanti di questo genere.

Il disco è composto da 14 tracce (16 nella ristampa con copertina verde del 2011) che spaziano dai canti più antichi come Silent Night, Little Drummer Boy, God Rest Ye Merry Gentlemen e Deck The Halls, fino ai più recenti come Silver Bells, Santa Claus is Back in Town, Rocking Around The Christmas Tree e Happy Xmas (War Is Over). Ciascuno dei brani è interpretato da un supergruppo formato da musicisti e cantanti di band diverse e riunitisi apposta per l'occasione; le melodie dei pezzi restano piuttosto fedeli alle originali ma ovviamente notevolmente accelerate e ricche si suoni in stile hard & heavy. L'atmosfera del disco è molto allegra e festaiola e gli interpreti non si prendono troppo sul serio, basti pensare che la versione di Santa Claus is Coming to Town interpretata da Alice Cooper con John 5, Billy Sheehan e Vinny Appice è intitolata Santa Claws is Coming to Town.

Tra i brani migliori troviamo una bellissima versione di God Rest Ye Merry Gentlemen che si distingue per la limpida e potente voce di Ronnie James Dio accompagnato da Tony Iommi, Rudy Sarzo e Simon Wright; spiccano anche Deck The Halls cantata da Oni Logan con Craig Goldy, Tony Franklin e John Tempesta, e Run Rudolph Run contraddistinta dall'aspra voce del compianto Lemmy Klimster coadiuvato da Billy Gibbons e Dave Grohl. Nel disco sono presenti solo due voci femminili: quella di Doro Pesch che canta O Christmas Tree con il supporto di Frankie Banali, Michael Schenker e Tony Franklin, e quella di Kim McAuliffe delle Girlschool (unica band presente al completo nell'intera compilation) che si cimentano in Auld Lang Syne (noto in Italia come Valzer delle Candele).

In realtà è difficile distinguere brani migliori di altri perché questa compilation è realizzata con rara bravura è maestria. Purtroppo possiamo invece individuare un pezzo di qualità nettamente inferiore: Silent Night è infatti cantata da Chuck Billy in growl ed è inutile precisare che il risultato è brutto come tutto ciò che viene fatto in growl in qualunque band. Ma le restanti quindici tracce sono davvero ottime e divertenti e possono dare un tocco inaspettato di colore al pranzo di Natale di chiunque ami i canti della tradizione natalizia o ami il metal.

martedì 13 dicembre 2016

Medina Azahara - En Navidad

Nel 1995, pochi mesi dopo aver pubblicato l'album Árabe, i Medina Azahara hanno dato alle stampe un EP intitolato En Navidad che, come dice il nome stesso, è una breve raccolta di canti natalizi. Il disco è composto da tre brani, due inediti scritti dalla stessa band più il celebre classico natalizio El Tamborilero, versione spagnola di The Little Drummer Boy.

Per quanto breve il disco è un vero capolavoro della musica natalizia che mostra come i classici del passato come El Tamborilero possano essere reinterpretati con gusto moderno, con ricchi riff di chitarra e con la batteria sostenuta nel tipico stile hard rock che caratterizza da sempre il suono della band, inoltre il cantato orientaleggiate di Manuel Martinez aggiunge un bel tocco di novità a un tipico canto natalizio. Anche i due pezzi inediti sono di grande impatto e mostrano che i nuovi classici natalizi possono anche essere scritti da dei gruppi rock; entrambi i pezzi, intitolati Cantad Todos e Y Naciò Jesùs, coniugano in modo efficace le sonorità energiche del gruppo alle atmosfere e alle melodie di Natale. Anche in queste non manca un tocco di musica orientale che aggiunge colore impreziosendo i brani.

Questo breve album dimostra anche l'incredibile ecletticità del gruppo andaluso che anche grazie a questi piccoli gioielli di musica natalizia dà l'ennesima prova di essere una delle band più sottovalutate al mondo.

lunedì 5 dicembre 2016

Giacomo Voli - Milano, 3/12/2016

Non avevo mai visto Giacomo Voli dal vivo, non avevo mai assistito a un concerto in acustico, non ero mai stato al The Boss di Milano. E quindi non sapevo proprio cosa aspettarmi da questa serata di rock italiano unplugged.

Il locale nel cuore di Milano è molto raccolto e l'esibizione si è svolta nella sala sotterranea, al termine della cena al piano di sopra dove Giacomo girava tra i tavoli dimostrando molta vicinanza ai suoi fan e anche una bella dose di simpatia che rende il tutto più divertente. E quando si sono accese le luci rosse sul piccolo palco del The Boss, Giacomo ha creato un'atmosfera magica appena ha appoggiato le dita sulla tastiera per iniziare la propria esibizione con Gethsemane tratto da Jesus Christ Superstar per poi proseguire con oltre due ore di musica attingendo da un repertorio vastissimo che spazia dai Deep Purple, ai Queen, passando per Bob Dylan e i Pink Floyd e tra questi non sono mancati alcuni omaggi alla migliore musica italiana con brani della PFM, di Mia Martini e dei Litfiba. Il tutto rigorosamente unplugged. Giacomo si accompagna alla tastiera o alla chitarra e per gran parte dello spettacolo è affiancato alla chitarra e alle seconde voci da Riccardo Bacchi, chitarrista della GV Band. In due pezzi Giacomo ha duettato anche con le voci femminili di Chiara Tricarico dei Temperance in Lost Words of Forgiveness dei TeodasiA e di Francesca Mercury in Somebody to Love dei Queen. Oltre ai pezzi delle grandi leggende della musica Giacomo ha proposto anche quelli del suo EP Ancora nell'Ombra e alcuni inediti scritti da lui stesso e da Riccardo Bacchi.

Tutto il concerto si è svolto in un'atmosfera molto amichevole e casalinga, quasi come in una serata tra amici che si ritrovano a condividere un po' di buona musica, con Giacomo che coinvolge il pubblico sui brani più noti e corali, come Hush dei Deep Purple o la già citata Somebody to Love. Ma oltre a creare un ambiente intimo, Voli dà in ogni pezzo una prova della sua voce potente e dall'estensione incredibile capace di raggiungere vette altissime e anche tonalità basse con grande efficacia. Giacomo chiude il concerto con Life on Mars di David Bowie, eseguita anche a The Voice, prima che il pubblico gli chieda un inevitabile bis perché il concerto è stato troppo bello e nessuno ha voglia di andare a casa. La richiesta viene esaudita con due pezzi: il Nessun Dorma di Puccini e Child in Time dei Deep Purple nel quale Giacomo si esibisce in un vocalizzo incredibile nel quale si lancia in un fantastico sovracuto.

Prima di entrare al The Boss non sapevo cosa aspettarmi e forse è stato meglio così, perché le emozioni della buona musica non si possono prevedere. La musica è fatta di spontaneità e delle emozioni che i grandi interpreti sanno creare, e Giacomo Voli è sicuramente uno dei migliori nel panorama rock nostrano.

lunedì 28 novembre 2016

Medina Azahara - Paraiso Prohibido

Il 2016 ha visto il ritorno degli andalusi Medina Azahara a due anni di distanza dal precedente LP Las Puertas del Cielo. Il nuovo album è intitolato Paraiso Prohibido e ripropone senza variazioni sostanziali la formula storica della musica della band che sicuramente non ha bisogno di grandi modifiche visto che è caratterizzata da un suono unico al mondo e davvero molto interessante e di grande impatto. Il gruppo capitanato da Manuel Martinez torna infatti con un hard rock energico e ricco di influenze arabe e mediorientali sia nel cantato sia nella musica.

L'album è stato anticipato dalla pubblicazione online di due singoli. Il primo di essi è Ven Junto a Mi, che apre l'album dopo l'introduzione, e la scelta è incomprensibile perché nonostante sia molto ricco di atmosfere arabe è il pezzo più debole dell'album per via delle strofe che suonano molto forzate, ma per fortuna, come vedremo, è l'unico momento dell'album di livello più basso. Il secondo singolo pubblicato in anticipo è El Cielo a Tus Pies, una ballad che prosegue sulla strada delle precedenti dei Medina Azahara, che nei loro quasi quarant'anni di carriera hanno fatto dei lenti uno dei loro marchi di fabbrica.

In totale il disco è composto di 14 tracce che, tolta la poco convincente Ven Junto a Mi, sono di altissimo livello e consentono alla band di creare l'ennesimo ottimo disco. Le atmosfere arabeggianti dominano soprattutto in Ella Es e Y Asi Nacio el Amor, due pezzi affascinanti e trascinanti dal ritmo sostenuto. Nel disco sono presenti anche ben cinque ballad: Busca Tu Fe, Cuando Estoy a Solas, El Dolor de Mi Alma, Mira Las Estrellas e la già citata El Cielo a Tus Pies.

I brani veloci dell'album sono spesso dominati dal suono delle tastiere accostato a quello delle chitarre a creare una buona commistione di energia e melodia. Tra questi troviamo la potente e gioiosa Recordando Esa Noche, Vive la Vida Cantando e Ponte en Pie. Tra i brani più sostenuti meritano una menzione particolare anche le due trascinanti tracce che chiudono il disco: Puñaladas en la Oscuridad e Sonrie.

Con Paraiso Prohibido i Medina Azahara sfornano uno dei migliori dischi della loro carriera e nonostante il passare degli anni la band non rallenta la frequenza e la qualità delle proprie produzioni. E' veramente un peccato che un gruppo di questo livello sia praticamente ignoto al di fuori della Spagna perché il loro stile non ha eguali al mondo e come confermato da questo nuovo album, il loro diciannovesimo in studio, meriterebbero a pieno titolo di essere annoverati tra i migliori esponenti dell'hard rock del pianeta.

lunedì 21 novembre 2016

Europe The Final Countdown Tour - Milano, 20/11/2016

The Final Countdown è il primo album che ho comprato nella mia vita, avevo otto anni. Da allora è indiscutibilmente il disco più famoso e iconico che gli Europe abbiano mai realizzato, e probabilmente è anche l'unico che gran parte della folla stipata all'Alcatraz conosceva. La scelta del gruppo di intitolare The Final Countdown Tour la loro attuale tournée suggerisce proprio questo e se da un lato questo celeberrimo LP ha consentito al quintetto di Stoccolma di raggiungere la fama mondiale di cui gode, è anche vero che lo stesso disco mette troppo spesso in ombra gli altri capolavori degli Europe che, beninteso, nella loro lunga carriera hanno inanellato una bella serie di successi discografici e Out of This World, Prisoners in Paradise, Bag of Bones e il più recente War of Kings sono capolavori del rock dello stesso valore di The Final Countdown. Forse solo Secret Society del 2006 è stato leggermente inferiore alle aspettative, ma per il resto gli Europe non hanno mai sbagliato un disco.

In questo tour il gruppo ha operato una scelta atipica e coraggiosa: eseguire solo due album e per intero. Lo spettacolo è infatti nettamente diviso in due: nella prima metà la band esegue tutto War of Kings e nella seconda metà esegue proprio The Final Countdown suonando i pezzi nello stesso ordine in cui compaiono nel disco. Fa sorridere che, avendo subito contestazioni dal pubblico che non conosceva War of Kings nella date precedenti, il gruppo è costretto sia spiegare questa scelta prima ancora di iniziare a suonare. Ma a parte le contestazioni di chi non conosce molto la carriera degli Europe, fortunatamente e senza troppi giri di parole, è stato un concerto semplicemente perfetto, la band convince sotto tutti i punti di vista, con l'energia travolgente del loro hard rock che scorre a fiumi invadendo la folla sia sui brani lenti sia su quelli energici.

Joey Tempest affronta il caldo infernale dell'Alcatraz con una giacca di pelle borchiata chiaramente ispirata, se non risalente, agli anni 80. La prima ora del concerto è contraddistinto dalle sonorità hard & heavy ricche di venature blues come nella tradizione dei mostri sacri degni anni 70 come i Rainbow o Whitesnake a cui si ispira War of Kings. La seconda è invece caratterizzata dall'AOR più melodico, ricco di tastiere e delle emozioni di trent'anni fa. Joey coinvolge a più riprese il pubblico, facendogli cantare ponti e ritornelli, e si avvicina a toccare le mani dei fans più vicini al palco ritardando in un occasione la ripresa del canto dopo uno stacco musicale. Il cantante prova anche a dire qualche parola in italiano e gli riesce piuttosto bene con l'esperimento che viene accolto con calore e affetto dalla folla. Dal punto di vista dell'energia, della precisione dei musicisti e della voce di Tempest, gli ultimi trent'anni sembrano non essere passati. In particolare la potenza vocale di Joey non è minimamente intaccata dagli anni che passano.

Resta forse un solo rimpianto in quella magica serata dell'Alcatraz: quello di notare come la folla conosca solo i testi dei pezzi di The Final Countdown e faccia fatica a seguire quelli di War of Kings. Viene da chiedersi se conoscano gli altri dischi degli Europe e forse è meglio continuare a non saperlo. E' un po' sconsolante vedere che gran parte degli sforzi musicali del gruppo vengano ignorati dal grande pubblico, non ci resta che la speranza che il bellissimo concerto milanese abbia lasciato la curiosità al pubblico di andare a scoprire che la band di Joey Tempest ha composto molti dischi di grande valore oltre al celeberrimo The Final Countdown.

giovedì 17 novembre 2016

Da dove nasce il termine grunge?

Nei primi anni 90 il grunge era uno dei generi musicali più popolari e di successo; con il loro suono ruvido e aspro gruppi come i Nirvana, i Collective Soul, gli Alice in Chains e i Soundgarden dominavano le classifiche e la rotazione dei video su MTV.

Ciò che però è poco noto è come il termine grunge abbia avuto origine. Come sostantivo grunge deriva dall'aggettivo grungy che significa sporco o poco curato e che nella lingua inglese esisteva già prima del conio del sostantivo

Il primo uso documentato e verificabile dell'aggettivo grungy in campo musicale risale a un articolo di Lester Bangs intitolato Psychotic Reactions and Carburetor Dung pubblicato nel 1971 sulla rivista Cream ed incluso nel libro dallo stesso titolo pubblicato nel 1988 che raccoglie gli scritti più famosi dell'autore. Nell'articolo, descrivendo l'album Psychotic Reaction dei Count Five, Bangs scrisse Count Five [...] ripped their whole routine off with such grungy spunk. Lo stesso Bangs poi trasformò l'aggettivo nel sostantivo grunge nell'ottobre del 1972, sempre sulle pagine di Cream per descivere il primo ed eponimo album dei White Witch a proposito del quale scrisse Grunge noise and mystikal studio abstractions.

Secondo quanto riportato dal libro Nirvana: The Biography di Everett True, Bangs uso lo stesso termine nell'aprile dello stesso anno per descrivere i Groundhogs su Rolling Stone scrivendo good of-the-racks heavy grunge. In realtà tale articolo sembra non esistere del tutto. Nessuna ricerca in rete ne indica l'esistenza, non compare nel già citato libro di Bangs e nemmeno nel sito Rock's Backpages. Inoltre Everett True non chiarisce in quale numero dell'aprile del 72 comprarirebbe questo articolo, perché in quel mese uscirono due numeri di Rolling Stone: il 13 e il 27.

Nel 1978 Paul Rambali usò il termine grunge per descrivere il suono del rock mainstream in un articolo pubblicato su NME intitolato The American Midwest: Akron and Cleveland

Tuttavia il primo ad usare questo termine per una band di seattle che afferiva al genere che oggi conosciamo come grunge fu il cantante dei Green River e in seguto dei Mudhoney Mike Arm che nel 1981 scrisse una lettera alla rivista locale di Seattle Desperate Times per denigrare la musica della propria band di allora, i Mr. Epp & the Calculations. Come riportato dal libro Everybody Loves Our Town: A History of Grunge di Mark Yarm, Arm scrisse, firmando la lettera con proprio vero nome Mark McLaughlin, I hate Mr. Epp & the Calculations! Pure grunge! Pure noise! Pure shit! Il testo della lettera di Arm è citato anche nel volume Desperate Times: The Summer of 1981 che racchiude tutte le pubblicazioni della rivista.

Arm aggiunse comunque di non aver inventato il termine di sana pianta, ma di averlo letto sul retro di copertina di una ristampa degli anni 70 dell'album Rock 'N Roll Trio del gruppo rockabilly Johnny Burnette and the Rock 'N Roll Trio uscito nel 57. La copia del disco da cui Arm avrebbe preso spunto era stata acquistata dal chitarrista dei Green River e dei Mudhoney Steve Turner. Il testo avrebbe descritto la chitarra di Burlison come grungy guitar sound. Tuttavia sulla copertina di nessuna delle edizioni del disco elencate su Discogs compare quel testo e comunque si tratterebbe dell'uso dell'aggettivo grungy, non del sostantivo grunge. Secondo quanto riportato dal libro di True, lo stesso Steve Turner aggiunse anche di aver sentito il termine anche accostato a Link Wray, ma la menzione è troppo vaga per essere verificata.

Che Mark Arm sia l'inventore del termine per descrivere il suono delle band di Seattle di quel periodo è confermato anche da Clark Humphrey, uno degli autori di Desperate Times, nel suo libro Loser: The Real Seattle Music Story. Un ulteriore importante contributo alla diffusione del termine fu dato da Bruce Pavitt che, come riportato dal libro The Rough Guide to Nirvana di Gillian Gaar e nel già citato volume di Mark Yarm, in un catalogo della Sub Pop pubblicato verso la fine degli anni 80 descrisse l'EP Dry As a Bone dei Green River come ultra-loose GRUNGE that destroyed the morals of a generation. Nello stesso catalogo Pavitt descrisse la musica dei Mudhoney come ultra sludge, grungy glacial, heavy special, dirty punk. Curiosamente in entrambe le band militavano sia Mike Arm sia Steven Turner.

Lester Bangs fu quindi l'inventore del termine, Mike Arm lo attribuì al suono ruvido e graffiante delle band di Seattle e Bruce Pavitt lo rese popolare. Per la creazione del termine grunge dobbiamo quindi ringraziare tutti e tre.