martedì 15 maggio 2018

Francess - Submerge

Il 2018 vede il ritorno dell'italo-giamaicana Francess, la voce più calda dell'R&B nostrano, con un nuovo album di inediti che esce a un solo anno di distanza dal precedente A Bit of Italiano del 2017 e a tre dal precedente disco di pezzi nuovi intitolato Apnea del 2015. Il nuovo album si intitola Submerge ed è composto da dieci tracce ispirate alla black music degli anni 90, ma anche ricche di contaminazioni di altri stili, generi e decenni.

L'album si apre con la title track, pubblicata in digitale il mese prima del resto dell'album, che offre un tuffo nel passato con sonorità che richiamano gli anni d'oro dell'R&B con un midtempo patinato e d'atmosfera in cui la cantante mette in mostra da subito le straordinarie doti della sua voce. Ma basta passare al pezzo successivo per capire come questo album sia ricco di sperimentazioni in ogni angolo della musica nera e non solo. In Follow Me troviamo infatti un'ottima mescolanza di suoni e ritmi tipici della canzone italiana degli anni 50 misti al groove dell'hip hop newyorkese di fine millennio.

Submerge offre anche molte derive nella musica dance con l'energica Ready Set Go e con la successiva Evolution che mischia soul, funk e disco nello stile dei maestri del genere del Regno Unito dei primi anni 80. Sonorità ottantiane da eurodisco si trovano anche nella bellissima e ritmata Moon.

Il disco è ricco anche di momenti più raccolti e intimistici con le ballad Memory Lane e Until Dawn che sarebbero splendide già in sé stesse dal punto di vista autorale e che la suadente voce della cantante rende semplicemente mozzafiato.

Completano il disco il midtempo Ivory e The Show Must Go Wrong con delle venature pop più marcate. Menzione a parte merita il pezzo di chiusura: conclude l'album la cover di The Man I Love di George Gershwin che regala un altro stupendo viaggio nel tempo direttamente nei primi anni del dopoguerra e basta chiudere gli occhi ascoltandolo per ritrovarsi a immaginare Francess che la canta a fianco delle altre dive dell'epoca che l'hanno interpretata come Billie Holiday, Ella Fitzgerald o Sarah Vaughan.

Giunti al termine di questo ascolto l'unica considerazione che si può fare è che questa giovane cantante sforna album con una frequenza impressionante e che la qualità di tutte le sue incisioni non ha nulla da invidiare a quello delle regine del genere più blasonate. E se oltre oceano i fan e la critica si dividono su chi sia la migliore interprete dell'R&B, dalle nostre parti non serve alcuna discussione in merito: perché Francess non ha eguali, né nessuno che le si possa avvicinare.

venerdì 11 maggio 2018

The Dead Daisies Burn It Down Tour - Trezzo sull'Adda, 9/5/2018

Non ero mai stato al Live Club di Trezzo sull'Adda, nonostante sia uno dei locali più famosi del milanese tra quelli in cui passano le leggende del rock nei loro tour europei. Il 9 maggio del 2018 il programma prevedeva il live dei Dead Daisies, uno dei gruppi più interessanti del panorama hard rock mondiale e l'occasione era ghiotta per vedere questo leggendario posto e per vedere dal vivo questo quintetto straordinario.

Credit: Tino
In una giornata passata da un caldo africano alla pioggia battente nel giro di poche ore, lo show è stato introdotto da un gruppo di apertura di altissimo livello, con i tedeschi New Roses che hanno regalato alla folla un'ora di ottimo rock dal buon equilibrio tra sonorità dure, melodia e qualche sfumatura di southern.

Poco dopo le 21 è salito sul palco il gruppo guidato da John Corabi che ha aperto con Resurrected, dal nuovo album Burn It Down, per iniziare due ore di rock folle e forsennato, fatto da una sana combinazione di energia e allegria senza sosta. Il gruppo ha scelto sapientemente la scaletta attingendo dagli ultimi tre album (quelli che vedono Corabi alla voce) e prendendo solo i pezzi più energici, quelli che infiammano la folla come Make Some Noise, Can't Take It With You e Song and a Prayer. Mexico, proposta come sesta, è il pezzo che accende di più la folla e l'energia non si spegne mai, fino al finale introdotto da Long Way To Go.

Il gruppo sul palco si muove con una maestria che pochi hanno, la macchina musicale si muove alla perfezione e l'esecuzione è impeccabile in ogni momento dell'esibizione. Del resto questo quintetto è composto da musicisti di grandissima esperienza e successo, e se la definizione di supergruppo inizia ad andare stretta a un combo di musicisti che sforna (tra registrazioni in studio e live) un album all'anno possiamo dire con sicurezza che i Dead Daisies sono un vero dream team dell'hard rock.

Corabi domina la scena e caratterizza ogni pezzo con la sua potenza vocale e con gli stessi acuti dei tempi in cui militava nei Mötley Crüe. Marco Mendoza interpreta appieno il ruolo di vice frontman ed è consapevole di essere quello che raccoglie più attenzione insieme al cantante. Il bassista lancia decine di plettri tra la folla che fa a gara per raccoglierli, scende dal palco e passeggia in mezzo al pubblico mentre suona (tanto che io stesso gli ho toccato una spalla e una ragazza poco distante gli ha stampato un bacio su una guancia) e soprattutto ricopre il ruolo principale nelle seconde voci in cui di solito esegue la voce alta lasciando a Corabi quella bassa.

I Dead Daisies chiudono la serata con la cover di Highway Star dei Deep Purple che non hanno mai inciso in studio ma che eseguono spesso dal vivo a coronare una serata memorabile, con tanto rock di altissimo livello, fresco e divertente, eseguito come meglio non si potrebbe.

Nel frattempo fuori ha smesso di piovere, ma il caldo del pomeriggio ha lasciato il posto a una notte piuttosto fredda per la stagione, e mentre lasciamo il Live Club verso l'autostrada resta il ricordo di un concerto superlativo e la consapevolezza di avere appena visto in azione cinque tra i migliori musicisti di ogni epoca.

Grazie Live Club, grazie New Roses e soprattutto grazie Dead Daisies. Alla prossima!

lunedì 7 maggio 2018

La morte di Chester Bennington

Dopo soli due mesi dal suicidio di Chris Cornell, un'altra grande voce dell'alternative rock ha trovato la morte in circostanze molto simili a quelle del cantante dei Soundgarden. La mattina del 20 luglio del 2017, proprio nel giorno di quello che sarebbe stato il cinquantatreesimo compleanno di Cornell, Chester Bennington, voce dei Linkin Park, fu trovato morto nella sua villa al numero 2842 di Via Victoria (le strade di quell'area si chiamano proprio via anche in originale) di Palos Verdes Estates, nella contea di Los Angeles, che aveva comprato meno di due mesi prima.

La scelta della data non sembra essere stata casuale, visto che Bennington e Cornell erano legati da una profonda amicizia. Bennington era anche il padrino del figlio di Cornell e aveva cantato Hallelujah di Leonard Cohen al funerale dell'amico e collega.

Nel dicembre del 2017 il sito di informazione sul mondo dello spettacolo TMZ ha ottenuto e pubblicato numerosi documenti, tra cui il rapporto dell'autopsia e quello del medico legale intervenuto sulla scena, e l'audio della chiamata al 911 dai quali emerge piuttosto chiaramente la dinamica degli eventi. Dal materiale rilasciato si apprende che l'ultima persona a vedere Bennington in vita fu la sua governante, che lavorava per lui già da due anni. Fino al giorno precedente Bennington era in vacanza in Arizona con la famiglia, ma tornò in anticipo per via di un impegno di lavoro il giorno seguente. Arrivò a casa intorno alle 22:30 mentre la governante, che si stava apprestando ad andare via, era in bagno; la donna non lo sentì entrare e lo vide solo dopo che era salito al piano superiore e aveva messo via i bagagli con cui era tornato. Bennington disse alla governante, di cui non viene rivelato il nome, che la mattina dopo sarebbe andato via alle 4:30 e che lei avrebbe potuto svolgere il suo lavoro anche in sua assenza. La donna riferì comunque che Bennington era sereno e che non c'era nulla di strano nel suo comportamento.

La mattina dopo la governante arrivò alle 8:30 ed entrò in casa con la propria copia delle chiavi, pensando di essere sola nell'edificio. Alle 8:45 vide un autista di Uber arrivare sul vialetto di ingresso, salì quindi al piano di sopra per vedere se Bennington era in casa e lo trovò morto impiccato, appeso alla porta dello sgabuzzino. Bennington scelse un metodo di impiccagione molto simile a quello adottato da Chris Cornell, facendosi passare una cintura di Hugo Boss (mentre Cornell aveva scelto una banda elastica per esercizi ginnici) attorno al collo e bloccando la stessa tra il traverso della porta e il battente. Il rapporto dell'autopsia spiega chiaramente che il cantante aveva entrambi i piedi che poggiavano a terra; sulle prime può sembrare strano che questo sia possibile, ma abbiamo già spiegato nella trattazione della morte di Cornell come invece non è necessario che l'intero corpo sia sospeso affinché sopraggiunga la morte per impiccagione.

Alla vista del cadavere la governante scappò fuori, dove l'auto di Uber, che era stata inviata dal management della band, aspettava ancora. Fu proprio l'autista dell'auto a chiamare il 911 perché la donna era in stato di shock e non riusciva a parlare. L'audio della chiamata è pubblicamente disponibile, e mentre l'autista parla con l'operatore si sente chiaramente la donna che piange e urla in sottofondo. I pompieri della contea di Los Angeles arrivarono sulla scena in pochi minuti, ma il capitano non poté fare altro che riscontrare che Bennington era morto.

Molte immagini interne della casa di Palos Verdes Estates sono disponibili su diversi siti di annunci immobiliari, come Realtor.com o Real Estate Edge (che ne mostra anche le planimetrie); altre foto della casa con l'arredamento di Bennington sono disponibili negli articoli online che il Dailymail e Alternative Nation hanno dedicato alla morte del cantante.


Come in ogni caso di morte prematura di un personaggio famoso, anche nel caso di Chester Bennington si trovano in rete teorie della cospirazione secondo cui il cantante sarebbe stato ucciso perché stava indagando sulla morte di Chris Cornell e stava scoprendo cose che sarebbero dovute rimanere nascoste. Ma queste teorie si basano completamente sul nulla. Nel rapporto dell'autopsia di Bennington non emergono ferite da difesa o segni di lotta e la casa non presenta segni di scasso, né la governante ha segnalato evidenze di effrazioni. Del resto anche la moglie di Bennington, Talinda Ann Bentley, ha confermato che il marito soffriva di depressione e aveva manifestato in passato tendenze suicide.

Inoltre se un ipotetico gruppo di cospiratori avesse voluto eliminare Bennington in quanto stava conducendo indagini pericolose, non avrebbe scelto proprio la data del compleanno di Cornell per farlo, né modalità così simili, in modo da non indirizzare i sospetti proprio nella direzione della morte del cantante dei Soundgarden.

Purtroppo quanto accaduto il 20 luglio del 2017 a Palos Verdes Estates è estremamente ovvio: Chester Bennington si è tolto la vita volontariamente, schiacciato dallo stress e dalla depressione.

lunedì 30 aprile 2018

Phantom Elite - Wasteland

Il primo album dei Phantom Elite ha avuto una gestazione molto lunga, con il primo singolo Siren's Call pubblicato nell'estate del 2016 e il secondo Wasteland un anno dopo; per ascoltare l'album per intero è stato però necessario aspettare fino all'aprile del 2018 quando l'LP che porta il titolo del secondo singolo è stato finalmente pubblicato.

Nonostante la band sia un nome nuovo nel panorama metal mondiale, i suoi membri non sono certo degli esordienti. Il gruppo è stato infatti fondato dal chitarrista olandese degli After Forever Sander Gommans con i musicisti che compongono la band che segue dal vivo gli HDK (una delle formazioni collaterali della lunga e varia attività di Gommans) composta dai chitarristi Goof Veelen e Ted Wouters e dal batterista Eeelco van der Meer. Alla voce i Phantom Elite possono vantare la presenza della brasiliana Marina La Torraca, che è una delle migliori interpreti del metal sinfonico di ogni tempo e che dà un tocco personale e unico all'ottimo primo album di questa inedita formazione. Oltre che essere la voce dei Phantom Elite, Marina milita anche nel supergruppo vocale Exit Eden ed è anche la cantante dei rumeni Highlight Kenosis, e se con questi ultimi mostra il lato più delicato della sua voce, nei Phantom Elite tira fuori tanta grinta e tanta rabbia.

Il disco è composto da dodici tracce che offrono un symphonic metal che unisce la durezza del suono delle chitarre alla straordinaria voce della vocalist che (non che ce ne fosse bisogno) dimostra le due doti incredibili traccia per traccia confermandosi a pieno titolo una delle regine del genere. Il disco vede una preponderanza di brani energici, ma non mancano momenti più raccolti. L'album parte fortissimo proprio con Siren's Call in cui Marina attacca a cantare a secco per essere subito raggiunta da poderosi riff di chitarra; il secondo pezzo Rise With The Dawn continua su ritmi sostenuti con il suolo martellante delle chitarre che apre il brano prima che Marina attacchi la prima strofa.


Tra i pezzi migliori troviamo sicuramente i due singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album, in particolare la title track mostra al meglio la potenza e l'estensione della voce della cantante. Tra i momenti più energici spiccano anche Every Man For Himself ricca di sonorità vicine al grunge e Spectrum of Fear che offre qualche influenza di rock ottantiano. Una menzione particolare merita anche anche la bellissima e unica Revelation che si distingue dalla restanti tracce per il poderoso coro che accompagna la voce della cantante e che avvicina i Phantom Elite a sonorità più affini a quelle di gruppo come gli Xandria. Tra i pezzi più raccolti troviamo la ballad Above The Crowd e due lenti acustici fatti con solo voce e chitarra quali Astray e la traccia di chiusura Serenade Of The Netherworld, che mostrano un lato più dolce e meno aggressivo della voce dell'ottima cantante di questa band.

L'album di esordio dei Phantom Elite ripaga appieno la lunga attesa, realizzando quello che sarà uno dei migliori dischi di metal sinfonico di quest'anno. Del resto basta guardare il curriculum del fondatore e quello della cantante per non restare sorpresi: basta anche solo la voce di Marina La Torraca a trasformare una buona idea in un album memorabile.

lunedì 23 aprile 2018

Link Wray - Link Wray & the Wraymen

Tra i grandi pionieri del rock and roll ce n'è uno che non gode della fama che meriterebbe, perché nonostante sia uno dei chitarristi più influenti della storia Link Wray non viene di solito annoverato tra i più famosi fondatori del genere. Eppure le sue influenze si sentono notevolmente in alcuni dei chitarristi più importanti di ogni tempo (come Jimmy Page, Pete Townsend e Neil Young), essendo Wray uno dei progenitori del power chord e della distorsione che vengono oggi largamente utilizzate negli stili musicali più aggressivi come l'heavy metal e il punk.

Il primo album di Link Wray è stato pubblicato nel 1960 ed è intitolato Link Wray & the Wraymen dal nome della sua band che al tempo era formata da Vernon Wray alla chitarra ritmica, Doug Wray alla batteria e Brantley Moses Horton al basso, oltre ovviamente a Link Wray alla chitarra solista. In alcune edizioni il nome del gruppo è scritto Raymen, senza la W, ma la discografia ufficiale sul sito di Link Wray riporta la grafia Wraymen, è quindi probabile che la grafia alternativa sia frutto di un errore.

Il disco è composto da dodici tracce strumentali (il primo pezzo cantato di Link Wray sarà la cover di Ain't That Lovin' You Babe di Jimmy Reed uscita nell'ottobre dello stesso anno) tra cui cinque singoli usciti tra il 1958 e il 1959 e sette inediti. L'album offre un rock and roll divertente ai confini con il rockabilly e ricco di contaminazioni di altri stili provenienti principalmente dal sud degli Stati Uniti. Troviamo infatti assaggi di dixieland nel brano Dixie-Doodle (che non è l'omonimo pezzo folk, ma una produzione inedita di Wray) e sonorità caraibiche in Rendezvous. Il quartetto si lancia anche in contaminazioni blues con il pezzo di chiusura Studio Blues e in qualche mescolanza con il country, come nella traccia di apertura Caroline.

Tra i pezzi migliori troviamo anche Ramble e Rawhide (da non confondere con l'omonimo Them From The Rawhide portata al successo tra gli altri dai Blues Brothers), entrambe rielaborazioni di un singolo di Link Wray intitolato Rumble che resta ad oggi il suo pezzo di maggior successo, e la più lenta e melodica Lillian che dà un tocco più d'atmosfera a un album di rock e roll grintoso e veloce.

Purtroppo Link Wray e la sua band sono semisconosciuti al grande pubblico, nonostante il suo stile abbia rivoluzionato il suono dei chitarristi che sono venuti dopo di lui, e dischi come questo sono noti solo agli appassionati più esperti. Non possiamo che sperare che l'ascolto dei suoi album, a partire da questa sua prima incisione, serva a ridare la giusta considerazione che questo straordinario musicista merita.

lunedì 16 aprile 2018

The Dead Daisies - Burn It Down

Il 2018 vede il ritorno dei Dead Daisies con un nuovo album in studio intitolato Burn It Down che esce a meno di due anni dal precedente Make Some Noise e a solo uno dal live Live & Louder. Vista la frequenza delle pubblicazioni del combo guidato da John Corabi appare evidente che l'etichetta di supergruppo inizi ad andare un po' stretta a una band che di fatto sforna più album di molte formazioni permanenti e che spesso porta la propria musica sui palchi di arene e palazzetti in lunghe tournée planetarie.

Rispetto all'album precedente la formazione vede un solo cambio, con il batterista Deen Castronovo che prende il posto di Brian Tichy e che contribuisce a formare un cast di stelle assolute dell'hard rock insieme a David Lowy alla chitarra ritmica, Doug Aldrich alla chitarra solista, Marco Mendoza al basso e John Corabi alla voce.

In questo nuovo LP la band propone di nuovo il proprio suono distintivo fatto di un hard rock ispirato ai classici degli anni 70, ricco di sfumature di blues e soprattutto fatto per divertire con sonorità veloci e fracassone. Il disco è composto da dieci pezzi più una bonus track presente solo nell'edizione su CD. Come è ovvio e naturale attendersi, l'album vede una preponderanza di pezzi veloci ed energici; tra questi troviamo le due tracce che aprono l'album subito su ritmi molto sostenuti quali Resurrected e Rise Up. Tra i migliori pezzi veloci spiccano anche Dead And Gone in cui Corabi tira fuori il meglio delle sue doti vocali rimaste troppo a lungo adombrate dall'essere considerato il sostituto temporaneo di Vince Neil (al quale Corabi è in realtà molto superiore). Meritano una menzione anche la velocissima Leave Me Alone, che propone sonorità più vicine all'hair metal degli anni 80, e l'aggressiva Can't Take It With You.

Nell'album non mancano momenti più tranquilli con la titletrack che presenta sonorità blues molto marcate e con la ballad dal sapore southern intitolata Set Me Free.

Come anticipato nella versione fisica troviamo una bonus track, ovvero la cover di Revolution dei Beatles (che ovviamente non c'entra nulla con l'album Revolución dei Dead Daisies del 2015, che tra l'altro non aveva una title track), di cui il quintetto lascia inalterata la melodia incalzante e ribelle condendola con chitarre distorte e con il ritmo potente della batteria che ne sottolinea l'incedere deciso.

E' ovvio che siamo davanti a un disco che ripropone stilemi e del passato e che non offre grandi novità in termini sonori, ma non sarebbe neanche corretto aspettarselo dai Dead Daisies la cui missione è ovviamente quella di produrre musica di facile presa e divertente che regali un'ora di atmosfere allegre e festaiole. E se questo è lo scopo di Burn It Down, il risultato raggiunto dalla band con il loro quarto album centra in pieno l'obiettivo.

martedì 10 aprile 2018

Blackberry Smoke - Find a Light

Da quattro anni a questa parte i Blackberry Smoke hanno abituato i loro fan alla pubblicazione di album a una velocità impressionante. Il nuovo Find a Light, pubblicato il 6 aprile del 2018, arriva infatti a poco più di un anno e mezzo dal precedente Like an Arrow del 2016 che a sua volta seguiva Holding All the Roses più o meno dello stesso intervallo temporale.

Il quintetto di Atlanta ripropone il proprio stile distintivo senza troppe variazioni con un southern rock divertente ricco di sfumature country e di contaminazioni di vari generi. Il disco parte alla grande con l'energica Flesh and Bone il cui deciso riff di chitarra sconfina nell'hard rock. Segue un pezzo dalle atmosfere più southern intitolato Run Away From It All che prosegue su ritmi sostenuti; le stesse atmosfere si trovano anche nella speranzosa Best Seat In The House.

Nel disco non mancano momenti più melodici. Troviamo infatti tre ballad quali Medicate My Mind, I've Got This Song, che è uno dei pezzi migliori dell'album grazie alla presenza dei violini che accompagnano la melodia, e Seems So Far in cui le atmosfere del sud tornano a sentirsi con forza.

Find a Light è anche ricco di ospiti che contribuiscono a rendere questo disco ancora più ricco di suggestioni musicali diverse. Il chitarrista Robert Randolph (che milita nella band che porta il suo nome) è ospite nella bellissima I'll Keep Ramblin', che nella prima metà offre un rock and roll veloce e divertente per trasformarsi in un pezzo gospel nella seconda metà grazie alla poderosa presenza del coro che accompagna la voce di Charlie Starr. La cantante Amanda Shires duetta con Starr nel midtempo Let Me Down Easy, oltre a cantare la seconda voce bassa nel ritornello Amanda suona il violino in tutto il brano creando così uno dei pezzi più belli e d'atmosfera dell'album. Un altro duetto di trova nel pezzo di chiusura Mother Mountain che vede come ospiti il terzetto dei Wood Brothers.

Tra i momenti più melodici dell'album spicca anche Lord Strike Me Dead, un altro midtempo il cui ritornello è caratterizzato da un bellissimo coro di femminile che si somma alla voce di Starr. Nel disco non mancano contaminazioni di musica nera con le influenze blues di Nobody Gives A Damn e Til The Wheels Fall Off.

Completa il disco la trascurabile The Crooked Kind le cui sonorità un po' forzate la rendono il pezzo più debole del disco che essendo composto da tredici tracce si fa perdonare largamente questo passo falso.

I Blackberry Smoke si confermano una delle realtà più interessanti del rock contemporaneo, nonostante non godano nel nostro paese della fama che meriterebbero. Nella loro lunga carriera non hanno mai sbagliato un disco e avendone sei all'attivo il risultato è degno di lode. Un altro aspetto notevole di questa band è che nessuno dei membri ha mai lasciato la formazione, la lineup dei Blackberry Smoke è infatti la stessa dal 2000 con la sola aggiunta del tastierista Brandon Still nel 2009.

Non possiamo che sperare che con Find a Light raggiungano la meritata notorietà anche da noi e che finalmente i programmatori delle radio di accorgano di questo quintetto di altissimo valore.