lunedì 28 novembre 2016

Medina Azahara - Paraiso Prohibido

Il 2016 ha visto il ritorno degli andalusi Medina Azahara a due anni di distanza dal precedente LP Las Puertas del Cielo. Il nuovo album è intitolato Paraiso Prohibido e ripropone senza variazioni sostanziali la formula storica della musica della band che sicuramente non ha bisogno di grandi modifiche visto che è caratterizzata da un suono unico al mondo e davvero molto interessante e di grande impatto. Il gruppo capitanato da Manuel Martinez torna infatti con un hard rock energico e ricco di influenze arabe e mediorientali sia nel cantato sia nella musica.

L'album è stato anticipato dalla pubblicazione online di due singoli. Il primo di essi è Ven Junto a Mi, che apre l'album dopo l'introduzione, e la scelta è incomprensibile perché nonostante sia molto ricco di atmosfere arabe è il pezzo più debole dell'album per via delle strofe che suonano molto forzate, ma per fortuna, come vedremo, è l'unico momento dell'album di livello più basso. Il secondo singolo pubblicato in anticipo è El Cielo a Tus Pies, una ballad che prosegue sulla strada delle precedenti dei Medina Azahara, che nei loro quasi quarant'anni di carriera hanno fatto dei lenti uno dei loro marchi di fabbrica.

In totale il disco è composto di 14 tracce che, tolta la poco convincente Ven Junto a Mi, sono di altissimo livello e consentono alla band di creare l'ennesimo ottimo disco. Le atmosfere arabeggianti dominano soprattutto in Ella Es e Y Asi Nacio el Amor, due pezzi affascinanti e trascinanti dal ritmo sostenuto. Nel disco sono presenti anche ben cinque ballad: Busca Tu Fe, Cuando Estoy a Solas, El Dolor de Mi Alma, Mira Las Estrellas e la già citata El Cielo a Tus Pies.

I brani veloci dell'album sono spesso dominati dal suono delle tastiere accostato a quello delle chitarre a creare una buona commistione di energia e melodia. Tra questi troviamo la potente e gioiosa Recordando Esa Noche, Vive la Vida Cantando e Ponte en Pie. Tra i brani più sostenuti meritano una menzione particolare anche le due trascinanti tracce che chiudono il disco: Puñaladas en la Oscuridad e Sonrie.

Con Paraiso Prohibido i Medina Azahara sfornano uno dei migliori dischi della loro carriera e nonostante il passare degli anni la band non rallenta la frequenza e la qualità delle proprie produzioni. E' veramente un peccato che un gruppo di questo livello sia praticamente ignoto al di fuori della Spagna perché il loro stile non ha eguali al mondo e come confermato da questo nuovo album, il loro diciannovesimo in studio, meriterebbero a pieno titolo di essere annoverati tra i migliori esponenti dell'hard rock del pianeta.

lunedì 21 novembre 2016

Europe The Final Countdown Tour - Milano, 20/11/2016

The Final Countdown è il primo album che ho comprato nella mia vita, avevo otto anni. Da allora è indiscutibilmente il disco più famoso e iconico che gli Europe abbiano mai realizzato, e probabilmente è anche l'unico che gran parte della folla stipata all'Alcatraz conosceva. La scelta del gruppo di intitolare The Final Countdown Tour la loro attuale tournée suggerisce proprio questo e se da un lato questo celeberrimo LP ha consentito al quintetto di Stoccolma di raggiungere la fama mondiale di cui gode, è anche vero che lo stesso disco mette troppo spesso in ombra gli altri capolavori degli Europe che, beninteso, nella loro lunga carriera hanno inanellato una bella serie di successi discografici e Out of This World, Prisoners in Paradise, Bag of Bones e il più recente War of Kings sono capolavori del rock dello stesso valore di The Final Countdown. Forse solo Secret Society del 2006 è stato leggermente inferiore alle aspettative, ma per il resto gli Europe non hanno mai sbagliato un disco.

In questo tour il gruppo ha operato una scelta atipica e coraggiosa: eseguire solo due album e per intero. Lo spettacolo è infatti nettamente diviso in due: nella prima metà la band esegue tutto War of Kings e nella seconda metà esegue proprio The Final Countdown suonando i pezzi nello stesso ordine in cui compaiono nel disco. Fa sorridere che, avendo subito contestazioni dal pubblico che non conosceva War of Kings nella date precedenti, il gruppo è costretto sia spiegare questa scelta prima ancora di iniziare a suonare. Ma a parte le contestazioni di chi non conosce molto la carriera degli Europe, fortunatamente e senza troppi giri di parole, è stato un concerto semplicemente perfetto, la band convince sotto tutti i punti di vista, con l'energia travolgente del loro hard rock che scorre a fiumi invadendo la folla sia sui brani lenti sia su quelli energici.

Joey Tempest affronta il caldo infernale dell'Alcatraz con una giacca di pelle borchiata chiaramente ispirata, se non risalente, agli anni 80. La prima ora del concerto è contraddistinto dalle sonorità hard & heavy ricche di venature blues come nella tradizione dei mostri sacri degni anni 70 come i Rainbow o Whitesnake a cui si ispira War of Kings. La seconda è invece caratterizzata dall'AOR più melodico, ricco di tastiere e delle emozioni di trent'anni fa. Joey coinvolge a più riprese il pubblico, facendogli cantare ponti e ritornelli, e si avvicina a toccare le mani dei fans più vicini al palco ritardando in un occasione la ripresa del canto dopo uno stacco musicale. Il cantante prova anche a dire qualche parola in italiano e gli riesce piuttosto bene con l'esperimento che viene accolto con calore e affetto dalla folla. Dal punto di vista dell'energia, della precisione dei musicisti e della voce di Tempest, gli ultimi trent'anni sembrano non essere passati. In particolare la potenza vocale di Joey non è minimamente intaccata dagli anni che passano.

Resta forse un solo rimpianto in quella magica serata dell'Alcatraz: quello di notare come la folla conosca solo i testi dei pezzi di The Final Countdown e faccia fatica a seguire quelli di War of Kings. Viene da chiedersi se conoscano gli altri dischi degli Europe e forse è meglio continuare a non saperlo. E' un po' sconsolante vedere che gran parte degli sforzi musicali del gruppo vengano ignorati dal grande pubblico, non ci resta che la speranza che il bellissimo concerto milanese abbia lasciato la curiosità al pubblico di andare a scoprire che la band di Joey Tempest ha composto molti dischi di grande valore oltre al celeberrimo The Final Countdown.

giovedì 17 novembre 2016

Da dove nasce il termine grunge?

Nei primi anni 90 il grunge era uno dei generi musicali più popolari e di successo; con il loro suono ruvido e aspro gruppi come i Nirvana, i Collective Soul, gli Alice in Chains e i Soundgarden dominavano le classifiche e la rotazione dei video su MTV.

Ciò che però è poco noto è come il termine grunge abbia avuto origine. Come sostantivo grunge deriva dall'aggettivo grungy che significa sporco o poco curato e che nella lingua inglese esisteva già prima del conio del sostantivo

Il primo uso documentato e verificabile dell'aggettivo grungy in campo musicale risale a un articolo di Lester Bangs intitolato Psychotic Reactions and Carburetor Dung pubblicato nel 1971 sulla rivista Cream ed incluso nel libro dallo stesso titolo pubblicato nel 1988 che raccoglie gli scritti più famosi dell'autore. Nell'articolo, descrivendo l'album Psychotic Reaction dei Count Five, Bangs scrisse Count Five [...] ripped their whole routine off with such grungy spunk. Lo stesso Bangs poi trasformò l'aggettivo nel sostantivo grunge nell'ottobre del 1972, sempre sulle pagine di Cream per descivere il primo ed eponimo album dei White Witch a proposito del quale scrisse Grunge noise and mystikal studio abstractions.

Secondo quanto riportato dal libro Nirvana: The Biography di Everett True, Bangs uso lo stesso termine nell'aprile dello stesso anno per descrivere i Groundhogs su Rolling Stone scrivendo good of-the-racks heavy grunge. In realtà tale articolo sembra non esistere del tutto. Nessuna ricerca in rete ne indica l'esistenza, non compare nel già citato libro di Bangs e nemmeno nel sito Rock's Backpages. Inoltre Everett True non chiarisce in quale numero dell'aprile del 72 comprarirebbe questo articolo, perché in quel mese uscirono due numeri di Rolling Stone: il 13 e il 27.

Nel 1978 Paul Rambali usò il termine grunge per descrivere il suono del rock mainstream in un articolo pubblicato su NME intitolato The American Midwest: Akron and Cleveland

Tuttavia il primo ad usare questo termine per una band di seattle che afferiva al genere che oggi conosciamo come grunge fu il cantante dei Green River e in seguto dei Mudhoney Mike Arm che nel 1981 scrisse una lettera alla rivista locale di Seattle Desperate Times per denigrare la musica della propria band di allora, i Mr. Epp & the Calculations. Come riportato dal libro Everybody Loves Our Town: A History of Grunge di Mark Yarm, Arm scrisse, firmando la lettera con proprio vero nome Mark McLaughlin, I hate Mr. Epp & the Calculations! Pure grunge! Pure noise! Pure shit! Il testo della lettera di Arm è citato anche nel volume Desperate Times: The Summer of 1981 che racchiude tutte le pubblicazioni della rivista.

Arm aggiunse comunque di non aver inventato il termine di sana pianta, ma di averlo letto sul retro di copertina di una ristampa degli anni 70 dell'album Rock 'N Roll Trio del gruppo rockabilly Johnny Burnette and the Rock 'N Roll Trio uscito nel 57. La copia del disco da cui Arm avrebbe preso spunto era stata acquistata dal chitarrista dei Green River e dei Mudhoney Steve Turner. Il testo avrebbe descritto la chitarra di Burlison come grungy guitar sound. Tuttavia sulla copertina di nessuna delle edizioni del disco elencate su Discogs compare quel testo e comunque si tratterebbe dell'uso dell'aggettivo grungy, non del sostantivo grunge. Secondo quanto riportato dal libro di True, lo stesso Steve Turner aggiunse anche di aver sentito il termine anche accostato a Link Wray, ma la menzione è troppo vaga per essere verificata.

Che Mark Arm sia l'inventore del termine per descrivere il suono delle band di Seattle di quel periodo è confermato anche da Clark Humphrey, uno degli autori di Desperate Times, nel suo libro Loser: The Real Seattle Music Story. Un ulteriore importante contributo alla diffusione del termine fu dato da Bruce Pavitt che, come riportato dal libro The Rough Guide to Nirvana di Gillian Gaar e nel già citato volume di Mark Yarm, in un catalogo della Sub Pop pubblicato verso la fine degli anni 80 descrisse l'EP Dry As a Bone dei Green River come ultra-loose GRUNGE that destroyed the morals of a generation. Nello stesso catalogo Pavitt descrisse la musica dei Mudhoney come ultra sludge, grungy glacial, heavy special, dirty punk. Curiosamente in entrambe le band militavano sia Mike Arm sia Steven Turner.

Lester Bangs fu quindi l'inventore del termine, Mike Arm lo attribuì al suono ruvido e graffiante delle band di Seattle e Bruce Pavitt lo rese popolare. Per la creazione del termine grunge dobbiamo quindi ringraziare tutti e tre.

domenica 13 novembre 2016

Litfiba - Eutòpia

Sono trascorsi quasi cinque anni dal lontano 17 gennaio del 2012 quando uscì Grande Nazione, il primo album in studio successivo alla reunion tra Ghigo Renzulli e Piero Pelù seguito a un allontanamento artistico durato dieci anni. E finalmente dopo una lunga attesa arriva il nuovo album dei Litfiba intitolato Eutòpia che prima ancora che per la musica colpisce per la bellissima grafica caratterizzata da un'atmosfera steampunk che pervade tutte le foto di copertina e del libretto.

Il disco è composto da dieci pezzi (più due disponibili solo nella versione in vinile) di puro hard rock sfrenato e trascinante. Il pezzo di apertura intitolato Dio del Tuono dà l'avvio all'album in grande stile con sonorità che corrispondono al titolo grazie a un suono tonante contraddistinto da duri riff di chitarra e dalla potente voce di Piero che nel finale di lancia in un lungo e poderoso urlo a metà tra uno scream metal e un acuto lirico.

La band si avventura anche in alcune sperimentazioni musicali toccando campi inesplorati in passato (pur avendo nei suoi 35 anni di attività esplorato stili di rock diversissimi) e riprende anche esperimenti sonori già provati in passato. Due pezzi iniziano con un fischio di parte di Piero, esperimento già provato in Spirito e Il Mio Corpo Che Cambia. Il primo di questi è Maria Coraggio, dedicato alla memoria di Lea Garofalo e pubblicato su internet la settimana prima dell'uscita dell'album; il secondo è Straniero che è l'unica vera ballad del disco dal sapore decisamente western. Altro brano piuttosto lento, almeno sulle strofe, è Intossicato, il cui ritornello accelera notevolmente a creare un brano dalla doppia faccia e di grande effetto grazie al netto cambio di tempo.

Ritmi lenti si trovano anche nella title track che chiude l'edizione in CD, anche questa parte lenta come una ballad per poi assestarsi su ritmi midtempo.

Due brani iniziano con un cantato più basso e ruvido di quanto Piero abbia mai fatto in questi quasi quattro decenni di carriera. Il primo di essi è Santi di Periferia, travolgente rock che per il suo ritmo saltellante vira verso il funk. Il secondo è l'aspro In Nome di Dio, che condanna ogni tipo di fanatismo religioso. Nel disco troviamo anche l'ottima L'Impossibile, rilasciata su internet un mese prima del resto dell'album, un hard rock energico impreziosito da un bel coro sull'ultimo ponte.

Tra i brani degni di nota troviamo anche la grintosa Gorilla Go che parla degli arrivisti che avanzano a spallate usando la metafora del mondo calcistico, riprendendo così sia le tematiche di Nuovi Rampanti sia quelle di Diavolo Illuso. Ottimo brano è anche Oltre che unisce chitarre che ricordano le colonne sonore di Morricone a uno stile musicale e canoro che tende con forza verso il punk.

Come anticipato, nella versione in vinile sono presenti due tracce strumentali in più. La prima è intitolata La Danza di Minerva ed è stata scritta da Ghigo, anch'essa ha un retrogusto western grazie al suono leggero delle chitarre e propone la base per la melodia di quello che poi sarebbe diventato L'Impossibile. La seconda si intitola Tu Non C'eri ed è stata scritta da Piero come colonna sonora del film omonimo di Erri De Luca interpretato proprio da Piero.

In sintesi Eutòpia è un vero capolavoro di rock sanguigno a 360 gradi. Il disco convince sotto tutti i punti di vista, sia per la qualità sia per la varietà dei suoni proposti. Da anni i fan dei Litfiba dibattono su quale sia il miglior album della band fiorentina, tra i sostenitori della trilogia del potere e quelli della quadrilogia degli elementi, e da oggi questa insolita competizione ha un nuovo contendente, perché Eutòpia è davvero un album stellare che metterà tutti d'accordo.

mercoledì 9 novembre 2016

Alicia Keys - Here

Il suono del nuovo album di Alicia Keys rispecchia perfettamente la foto in copertina della cantante, che alcuni mesi fa ha lanciato la campagna #nomakeup dopo essere apparsa senza trucco ai Video Music Awards di MTV: struccata, spettinata e senza abiti o gioielli di lusso, ma pur sempre bellissima. La musica contenuta nell'album è altrettanto grezza, diretta e a tratti ruvida, e anche in questo caso Alicia Keys riesce nel compito di realizzare un ottimo album in cui dimostra di sapersi muovere bene anche in terreni diversi da quelli percorsi fin'ora.

L'album si intitola Here ed è stato pubblicato il 4 novembre di quest'anno. E' composto da 18 brani nella versione deluxe, 16 in quella standard, di cui cinque interludi. Ciò che si nota già dal primo ascolto è che i pezzi non sono più retti solo dal suono del piano suonato dalla stessa Alicia, ma questo lascia molto spazio alle chitarre e alle percussioni risultando così in un suono più duro. L'album si apre con The Gospel che narra uno spaccato di vita del ghetto e la cui base è fatta da uno staccato al pianoforte e dal suono ossessivo della batteria. La tematica della vita del ghetto e delle sue difficoltà è ripresa anche in Blended Family, che vede la presenza come ospite del rapper A$AP Rocky, la cui musica si basa invece fortemente sulle chitarre. Tra gli altri pezzi in cui le chitarre dominano troviamo l'ecologista Kill Your Mother, composto solo di chitarra e voce, che è il pezzo più aspro e ruvido dell'intero disco. Di tutt'altro genere è Girl Can't Be Herself che pur essendo anch'essa retta delle chitarre tende fortemente verso il reggae (campo in cui Alicia si era già avventurata con un celeberrimo remix di You Don't Know My Name) e tratta proprio della scelta di rinunciare al trucco per esporre la propria vera personalità. Anche Holy War, in cui la cantante si chiede perché parlare di sesso sia osceno mentre parlare di guerra è accettato, è basata su chitarra e percussione, anche se il pezzo ha la struttura di una ballad e dal punto di vista canoro da modo ad Alicia di mostrare almeno in parte la sua estensione vocale.

Come anticipato, il pianoforte non viene comunque abbandonato e troviamo dei pezzi più vicini al repertorio passato di Alicia come Pawn It All (il cui sono tende fortemente verso l'hip hop) e la melodica Where Do We Begin Now. Nel disco è presente un secondo pezzo decisamenrte hip hop intitolato She Don't Really Care_1 Luv (che contiene un campionamento di One Love di Nas) in cui Alicia descrive come esistano forti connessioni tra le donne nere nate nei cinque distretti di New York e quelle nate in Africa. Merita una menzione particolare anche la lenta e rabbiosa Illusion of Bliss che narra della difficoltà dell'uscire dal tunnel della droga.

Rispetto all'edizione standard, la versione deluxe contiene due tracce in più. La prima di esse si intitola Hallelujah ed è di nuovo piuttosto vicina alle produzioni passate di Alicia, con un cantato morbido sulla base del piano. Il secondo si intitola In Common e vira con forza verso atmosfere ambient e dance, il pezzo era stato pubblicato a maggio come singolo e la scelta è davvero incomprensibile perché si tratta del più debole dell'intero disco.

Alcuni critici hanno paragonato questo album a The Miseducation of Lauryn Hill, ma il paragone è assolutamente ingiusto nei confronti di Alicia. Anzitutto la Keys ha registrato molti più album di Lauryn Hill (anche includendo quelli dei Fugees), in secondo luogo The Miseducation è ricchissimo di campionamenti, mentre le basi di Here (ad esclusione della già citata She Don't Really Care_1 Luv) sono suonate interamente dai musicisti reclutati dalla cantante. Lauryn Hill esce irrimediabilmente sconfitta da questo confronto.

Dopo aver ascoltato questo album ciò che emerge con forza è la prova di grandissima ecletticità di Alicia Keys, il cui sesto album è un altro grande capolavoro dell'R&B e del soul con il quale dimostra che, con o senza trucco, resta la regina incontrastata della musica nera.

lunedì 7 novembre 2016

Kenny Chesney - Cosmic Hallelujah

Il nuovo album di Kenny Chesney, il diciassettesimo della sua carriera, avrebbe dovuto uscire l'8 luglio di quest'anno con il titolo Some Town Somewhere. Da allora ha cambiato sia titolo sia data di uscita, ed è stato finalmente pubblicato il 28 ottobre con il titolo di Cosmic Hallelujah. Ma a parte il titolo e la data di pubblicazione quello che conta è che a oltre vent'anni dall'esordio la musica di Kenny Chesney non conosce cali di qualità o momenti di noia, e anche questo nuovo disco ci regala dodici pezzi di altissimo livello.

La formula resta quella a cui il cantante di Knoxville ci ha abituato, con del country divertente e veloce caratterizzato da un buon equilibrio tra energia e melodia. L'uscita dell'album era stata anticipata dalla pubblicazione di due singoli. Il primo di questi è il midtempo Noise, pubblicato a marzo, la cui scelta è davvero incomprensibile visto che si tratta del brano più debole dell'intero disco. Il secondo singolo intitolato Setting the World on Fire è stato pubblicato a luglio ed è ancora un midtempo che vede la presenza come ospite di Pink che nonostante non sia certo una cantante da Hall of Fame qui se la cava alla grande e il brano è di ottimo impatto.

E' difficile individuare pezzi migliori di altri in questo album, sicuramente le allegre Trip Around The Sun e All the Pretty Girls che aprono il disco meritano una menzione per l'atmosfera festaiola che creano e per i riff di chitarra puramente country da cui sono contraddistinti. Merita una menzione anche la trascinante Bar at the End on the World che è forse il pezzo più energico dell'intero album.

L'album presenta poi quattro ballad consecutive, tutte dalle sonorità fortemente country grazie al suono leggero delle chitarre, intitolate Rich and Miserable (l'unico pezzo oltre a Noise che Kenny avrebbe potuto risparmiare), Jesus & Elvis, Winnebago e Coach ad arricchire notevolmente l'offerta sonora di questo album.

L'album si chiude con la dodicesima traccia, non è listata in copertina, che è una versione bluegrass di I Want to Know What Love Is dei Foreigner. Sicuramente si tratta di un esperimento interessante, ma data la velocità sostenuta perde molta dell'atmosfera che caratterizzava l'originale.

Nonostante nel nostro paese sia praticamente sconosciuto, Kenny Chesney vanta nel suo curriculum collaborazioni con artisti del calibro di Willie Nelson, Uncle Kracker e Kid Rock ed è veramente un peccato che in Italia queste perle di musica americana passino inosservate in favore di musicisti ampiamente inferiori. Speriamo quindi che Cosmic Hallelujah dia modo anche agli ascoltatori nostrani di scoprire un talento immenso come questo che riempie le classifiche americane dal lontano 1994. Meglio tardi che mai.