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mercoledì 17 novembre 2021

Junior Wells - Hoodoo Man Blues

Nel 1965 il leggendario bluesman Junior Wells fece il suo esordio discografico con l'album Hoodoo Man Blues che resta ad oggi una delle sue migliori produzioni, nonché uno dei dischi più iconici del blues di Chicago. Nella prima versione in vinile, l'album è composto da dodici tracce tra inediti, standard e adattamenti di pezzi di altri autori.

Il disco è realizzato con il supporto della Junior Wells' Chicago Blues Band in cui spicca la presenza di Buddy Guy alla chitarra; i due nei decenni successivi, fino alla morte di Junior Wells, incisero altri nove album insieme e Hoodoo Man Blues segnò l'inizio della loro proficua collaborazione. L'album è un capolavoro e una pietra miliare che inanella dodici gioelli di blues che trasportano l'ascoltatore nella Chicago degli anni 60 e nel fermento culturale che diede la propulsione a questo stile musicale. Il punto di forza delle dodici tracce si trova nella commistione della voce tonante di Junior Wells, l'onnipresente chitarra di Buddy Guy e l'armonica suonata dallo stesso Wells. Buddy Guy non limita il suo contributo alla chitarra, perché presente anche in veste di autore nelle strumentali In the Wee Wee Hours e We're Ready.

La combinazione musicale creata da Junior Wells e Buddy Guy funziona bene sia nei pezzi più energici, come la traccia di aperura Snatch It Back and Hold It e la title track, sia nei dolorosi lamenti di ballad quali Ships on the Ocean o We're Ready. Tra le cover spiccano Good Morning, School Girl, in cui Wells mostra il meglio della sua vocalità, Early in the Morning di Sonny Boy Williamson e Hound Dog di Big Mama Thorton lontanissima dalla versione rock and roll di Elvis Presley del 1956.

Hoodoo Man Blues non è solo una colonna del blues di Chicago ma anche della black music di ogni genere. Le dodici tracce sono tutte di alto livello e mostano in ogni sfumatura le incredibili doti dei loro interpreti e la loro cura maniacale dei dettagli. Purtroppo, almeno in Italia, Junior Wells non gode della fama che meriterebbe e alle volte viene messo in ombra da figure più famose come Howlin' Wolf o Muddy Waters, e un nuovo alscolo del suo primo LP può servire a ricordare a chi non lo conosce che Wells merita sicuramente un posto tra i giganti del genere.

venerdì 9 luglio 2021

Billy Gibbons - Hardware

Mentre gli ZZ Top sono di fatto fermi dall'ormai lontano 2012, quindi uscì il loro più recente album La Futura, il frontman Billy Gibbons ha sfornato tre album nel giro di sei anni, a partire da Perfectamundo del 2015, passando per The Big Bad Blues del 2018, fino al nuovo Hardware uscito in questo 2021.

Mentre il primo album di Gibbons era orientato verso suoni caraibici e il secondo (come dice il titolo stesso) verso il blues del profondo sud, con Hardware il barbuto vocalist e chitarrista esplora invece le sonorità del deserto con un mix di stoner rock, southern rock, blues e tanto rock 'n roll.

L'album si assesta principalmente su ritmi veloci, con brani incalzanti ricchi di riff di chitarra e della voce di Gibbons che in questa composizione sembra più graffiante del solito per via delle atmosfere roventi che crea. Tra i brani migliori troviamo il pezzo di apertura My Lucky Card caratterizzato da un poderoso e quasi ossessionante riff di chitarra, il blues dalle atmosfere tarantiniane di West Coast Junkie e She's on Fire dalle atmosfere più leggere. Spiccano anche S-G-L-M-B-B-R che richiama le sonorità più tipiche degli ZZ Top, la cover di Hey Baby Que Paso dei Texas Tornados che Gibbons condisce con venature caraibiche già esplorate in Perfectamundo e Stackin' Bones che vede la presenza come ospiti del gruppo roots rock Larkin Poe le cui vocalist eseguono i cori.

L'album contiene anche due pezzi più lenti, quali la ballad Vagabond Man e il blues Spanish Fly. Chiude il disco il talking blues di Desert High che tiene proprio per la chiusura dell'album il pezzo che più di tutti gli altri richiama le origini del genere.

In questo disco praticamente tutto funziona benissimo, così come nei precedenti due, e Gibbons realizza l'ennesimo prodotto solido della propria lunga discografia. Non resta che sperare che gli ZZ Top non siano al capolinea per vedere il trio ancora in azione insieme, in ogni caso le produzioni soliste di Gibbons non fanno per nulla rimpiangere la band al completo.

mercoledì 23 dicembre 2020

George Thorogood & The Destroyers ‎– Rock And Roll Christmas

Nel momento più alto della sua carriera, dopo la pubblicazione del suo iconico album Bad to the Bone il rocker del Delaware George Thorogood ha inciso il suo primo e finora unico singolo di Natale dal titolo Rock And Roll Christmas. Pubblicato nel 1983, il brano è allegro, festaiolo e dal ritmo incalzante proprio come ci si aspetta da una canzone di George Thorogood, di cui contiene tutti gli stilemi con una forte impronta blues e rock and roll e con menzioni nel testo a Elvis Presley, Chuck Berry e Buddy Holly. Il pezzo si apre con uno snippet di Joy to the World suonato al sassofono da Hank "Hurricane" Carter (che ha fatto parte dei Destroyers dal 1980 al 2003) e il suono del sax è preponderante durante tutto il pezzo.

Il B-side di Rock And Roll Christmas è New Year's Eve Party, anch'essa ispirata al rock and roll degli anni 50, con ritmi meno forsennati del brano sul lato A, ma senza rinunciare alle atmosfere di festa a cui questo singolo è dedicato. Anche il questo caso Hank Carter ci regala uno snippet al sassofono: quello di Auld Lang Syne, noto in Italia come Valzer delle Candele.

Rock and Roll Christmas è in realtà uno dei pezzi meno noti di Thorogood, che non compare in nessuno dei suoi album e nemmeno nelle raccolte, ciò nonostante si tratta di un pezzo di ottima fattura, divertente e allegro, che realizza un'ottima commistione tra tradizione e modernità e che costituisce un'ottima aggiunta alla collezione di canti natalizi rock, per dare alle feste un tocco più moderno.

mercoledì 28 ottobre 2020

La storia di I Put a Spell on You di Screamin' Jay Hawkins

I Put a Spell on You è il pezzo più celebre e iconico della lunga discografia di Screamin' Jay Hawkins, musicista singolare a cui qualunque etichetta andrebbe stretta. Il brano ha sicuramente contribuito a creare la sua immagine da stregone ispirata ai film horror dell'epoca, ma inizialmente venne concepito come qualcosa di completamente diverso.


La canzone venne registrata per la prima volta nel 1955 come una ballad blues molto più convenzionale di come la conosciamo oggi. Al tempo Hawkins incideva per la Grand Records che non pubblicò mai il brano; la prima apparizione su un disco della prime versione risale infatti al 2006 nella compilation The Whamee 1953-55. L'anno seguente il bluesman passò alla Columbia e tornò in studio per inciderne una nuova versione; in quell'occasione il produttore Arnold Maxin portò carne da mangiare e una buona quantità di alcolici e fece ubriacare tutti prima di iniziare la registrazione. La sessione di registrazione, di cui Hawkins dichiarò in varie occasioni di non avere nessun ricordo, diede come risultato la versione urlata con i versi animaleschi che tutti conosciamo.

Le radio si rifiutarono di trasmettere un pezzo così trasgressivo e l'etichetta ne diffuse allora una versione tagliata, senza il finale che è la parte in cui si concerta la maggior parte dei versi di Hawkins. Le radio mantennero il divieto di trasmettere anche la versione più corta, ma ciò nonostante il 45 giri vendette più di un milione di copie.

Il disc jokey radiofonico Alan Freed offrì a Hawkins 3000 dollari per uscire da una bara durante un concerto. Sulle prime il bluesman rifiutò non ritenendolo un gesto serio, ma poi cambiò idea e costruì su di sé l'immagine ispirata al cinema horror con cui è rimasto celebre, con serpenti di gomma, teschi, costumi leopardati e oggetti di scena ispirati al voodoo.

La sua immagine da stregone, definita da alcuni una sorta di black Vincent Price, contribuì sicuramente al successo commerciale di Screamin' Jay Hawkins e aiutò a conferirgli un aspetto immediatamente riconoscibile. Tuttavia il bluesman, le cui aspirazioni iniziali erano di diventare un cantante d'opera e che fece anche il pugile prima di intraprendere la carriera nel blues, non sembrò essere particolarmente felice della sua immagine; in un intervista del 1973 dichiarò infatti che se fosse stato per lui non avrebbe scelto l'aggettivo Screamin' nel suo nome, sostenendo ad esempio che anche James Brown facesse urli e grugniti ma non veniva chiamato Screamin' James Brown, e si rammaricò del fatto che il pubblico non riuscisse ad apprezzarlo senza trasformarlo in un bogeyman.

In ogni caso I Put a Spell on You rimane ad oggi un enorme successo e vanta innumerevoli cover tra cui quella di Nina Simone, quella dei Creedence Clearwater Revival, e quella dei Marilyn Manson (incisa quando ancora Marilyn Manson era in nome della band e non del suo frontman durante la carriera solista). E la storia bizzarra di questa canzone ha sicuramente contribuito a farne un pezzo anticonvenzionale, fuori dagli schemi, in parte spaventoso e iconico di uno stile e di un'epoca.



Fonti:
  • Contemporary Musicians: Profiles of the People in Music, Volume 8 di Julia Rubiner
  • Encyclopedia of the Blues di Edward Komara
  • Rock Obituaries: Knocking On Heaven's Door di Nick Talaveski
  • Legendary Screamin' Jay Hawkins Dies At 70 da Billboard di Chris Morris

martedì 7 aprile 2020

La morte di Janis Joplin

Janis Joplin è senza dubbio la cantante rock e blues più famosa di ogni tempo. Purtroppo la sua vita si interruppe a soli 27 anni, quando fu trovata senza vita il 4 ottobre del 1970 dal road manager John Cooke nella stanza 105 del Landmark Motor Hotel di Hollywood in cui la cantante ha trascorso l'ultimo mese della sua vita, durante il quale si trovava a Los Angeles per incidere quello che sarebbe stato il suo ultimo album intitolato Pearl con la sua nuova band, i Full Tilt Boogie Band.

In preda alla noia e in attesa di tornare allo studio di registrazione con il resto del gruppo, alle 15:30 del 3 ottobre Janis chiamò nella sua stanza di albergo il suo spacciatore di fiducia, George, da cui comprava l'eroina abitualmente. Janis comprò da lui una dose, che nel giro di poche ore si sarebbe rivelata fatale, ma non la assunse subito e la lasciò in una scatola. Chiamò al telefono il suo fidanzato Seth Morgan, ma la telefonata non fu tranquilla, perché Seth avrebbe dovuto raggiungerla in California e invece le comunicò che non avrebbe preso il volo per Los Angeles; da quando Janis si trovava nella metropoli i due si erano visti raramente e questo aumentò la tensione tra i due che già stava crescendo.


Intorno alle 17:30, e senza aver assunto la dose di eroina, Janis uscì dal motel per andare allo studio di registrazione Sunset Sounds, dove la band stava già lavorando a quello che sarebbe diventata una delle tracce di Pearl: il brano profeticamente intitolato Buried Alive In The Blues. Il pezzo le piacque molto e volle così provare a condividere la propria gioia con Seth, ma l'uomo non era in casa quando Janis provò a telefonargli; sentendosi abbandonata e delusa, Janis cercò conforto nel whiskey di cui bevve qualche bicchiere insieme al resto del gruppo.

Quel giorno la band finì di registrare la traccia audio di Buried Alive In The Blues, di cui Janis avrebbe dovuto registrare la traccia vocale il giorno dopo, ma purtroppo non ebbe mai occasione di farlo. Finito il lavoro, Janis insieme al tastierista Ken Pearson si fermò al locale notturno Barney's Beanery per un altro drink, la cantante bevve due vodka con succo d'arancia. I due lasciarono il locale circa mezz'ora dopo la mezzanotte; Janis tornò nella propria stanza del motel, dove si preparò la dose di eroina comprata nel pomeriggio da George e se la iniettò in vena.

L'overdose non soggiunse immediatamente. Janis uscì dalla stanza e camminò fino alla portineria dell'albergo dove chiese al portiere di cambiarle una banconota per avere delle monete con cui comprare le sigarette da un distributore automatico; il portiere fu l'ultima persona a vedere Janis viva. La cantante comprò un pacchetto di Marlboro dal distributore e tornò nella stanza 105, fece pochi passi, quindi cadde al suolo tra il letto e il comodino.

Nessuno scoprì il cadavere per circa 18 ore. Intorno alle 19 del 4 ottobre la band si preoccupò non vendendola arrivare allo studio di registrazione. Il produttore Paul Rotchild chiamò John Cooke chiedendogli di andare a verificare come stesse Janis. Cooke arrivò al Landmark Motel (oggi noto come Highland Gardens Hotel) e vide la Porsche 356 colorata con motivi psichedelici della cantante nel parcheggio. Chiese al portiere la chiave della camera 105 e quando aprì la porta trovò Janis stesa a terra in posizione prona, con la testa voltata verso sinistra e con la guancia destra contro il pavimento.


L'autopsia fu eseguita dal celeberrimo medico legale Thomas Noguchi (che aveva eseguito anche le autopsie di altre celebrità tra cui Robert Kennedy e Marilyn Monroe) il quale stabilì che la causa della morte fu un'overdose di cocaina. Noguchi chiarì alla stampa che non c'era alcun segno che indicasse l'omicidio, né il suicidio: la morte di Janis Joplin fu accidentale.

Di norma la cocaina comprata in strada era pura al 3%, quella che George aveva venduto a Janis Joplin era pura oltre il 40%. Quello stesso weekend a Los Angeles morirono altre otto persone di overdose per cocaina troppo pura acquistata dallo stesso spacciatore; di norma George si faceva aiutare da un amico chimico a preparare le dosi per essere sicuro che queste non fossero mortali, ma in quella settimana l'amico di George non si trovava a Los Angeles e quindi lo spacciatore preparò le dosi da solo. Quando la polizia arrivò sulla scena trovò nel cestino dei rifiuti la garza sporca di sangue e l'involucro di plastica che George aveva usato per contenere l'eroina.

Sulle prime può stupire che l'overdose non sopraggiunga subito, per chiarire il dubbio la biografa Myra Friedman autrice del libro Buried Alive: The Biography of Janis Joplin chiese conferma all'ufficio del coroner di New York, dove l'autrice vive, che le confermò che non è strano che la morte soggiunga vari minuti dopo l'assunzione della dose letale.

La tesi su Noguchi fu in seguito corroborata dall'analisi indipendente di un altro medico legale, il dottor Michael Hunter, quando indagò il caso della morte di Janis Joplin per il programma televisivo Autopsy: The Last Hours of... nel 2017. Hunter confermò che la causa del decesso fu da attribuire alla purezza anomala della droga.

Nel 2018 l'amica di Janis Joplin Peggy Caserta avanzò una teoria alternativa secondo cui Janis non sarebbe morta di overdose, ma asfissiata dopo essere caduta inciampando in un tappetino della stanza ed essersi rotta il naso contro il comodino. L'ipotesi che Janis si fosse rotta il naso cadendo fu avanzata anche da Cooke dopo averla vista stesa, ma non trova riscontro nell'autopsia di Noguchi secondo cui l'unica ferita al viso fu un taglio al labbro. Inoltre non c'è alcuna conferma che Peggy Caserta sia davvero stata presente al Landmark Hotel prima che il cadavere venisse rimosso: Peggy non è mai stata menzionata da John Cooke, né il rapporto della polizia menziona la presenza di altri testimoni.

Janis Joplin morì solo sedici giorni dopo Jimi Hendrix, in quello che fu un mese terribile per la musica mondiale. Purtroppo la spiegazione di quanto accaduto è molto semplice: la sua vita di eccessi e droga ha ucciso la regina del rock and roll.



Fonti aggiuntive rispetto a quelle linkate nell'articolo:

mercoledì 20 novembre 2019

Bo Diddley - The Black Gladiator

Dopo Muddy Waters e Howlin' Wolf, anche Bo Diddley provò nel 1970 la strada di mischiare il blues di Chicago con il rock psichedelico che in quegli anni riempiva le classifiche; ma rispetto agli altri due bluesman che lo hanno preceduto, Diddley decise di aggiungere all'esperimento anche un po' di funk realizzando così una commistione inedita di tre stili.

L'album risultante questo strano esperimento è The Black Gladiator ed è composto da dieci pezzi. Il brano di apertura Elephant Man offre un buon miscuglio di blues e funk psichedelico, dando da subito una forte direzione al resto del disco. Atmosfere simili si trovano infatti anche nell'autocelebrativa You, Bo Diddley (che si ispira ovviamente alla sua stessa celeberrima Bo Diddley del 1955), Black Soul e nella ballad Hot Buttered Blues. Bo Diddley non rinuncia comunque a sonorità più blues tradizionali come Power House e Shut Up, Woman i cui riff di chitarra ricordano in modo chiaro quello di I'm a Man dello stesso Diddley e in cui nel canto si ispira esplicitamente a Muddy Waters.

In molti brani, come le già citate Black Soul e Power House, Bo Diddley si avvale del controcanto e dei cori della bravissima vocalist Cookie Vee, esperimento che ripeterà in The London Sessions e in numerose esibizioni dal vivo. Cookie Vee compare anche con il suo vero nome, Cornelia Redmond, in tutti i pezzi come autrice.

La traccia di chiusura I Don't Like You si apre con il vocalizzo di Bo Diddley in stile operistico, per poi sfociare in una battaglia vocale tra lo stesso Bo e Cookie Vee e poi chiudersi di nuovo con un vocalizzo operistico; ingredienti che vanno tutti a creare un pezzo singolare che non ha eguali nella discografia del bluesman.

The Black Gladiator non è tra gli album più noti di Bo Diddley, ma sicuramente si può concludere che laddove Muddy Waters e Howlin' Wolf hanno prodotto dischi confusi e forzati, Bo Diddley è riuscito nell'intento di mischiare la propria musica con stili diversi. The Black Gladiator non sarà il disco migliore di Bo Diddley, ma è comunque un disco di ottima fattura che non sfigura nella sua discografia e merita un ascolto e di essere riscoperto.

giovedì 31 ottobre 2019

Il patto con il diavolo di Robert Johnson

Si ringrazia Bruce Conforth, coautore del libro "Up Jumped the Devil: The Real Life of Robert Johnson", per la consulenza fornita durante la stesura di questo articolo.

La leggenda più longeva e oscura nel mondo della musica moderna è quella secondo cui il bluesman Robert Johnson avrebbe venduto l'anima al diavolo in cambio della capacità di suonare la chitarra come nessun altro. Questa leggenda nasce da un racconto di un altro bluesman dell'epoca, Eddie "Son" House, secondo cui Johnson sarebbe stato un musicista particolarmente scarso fino all'età di sedici anni, quando sparì dalla zona del delta del Mississippi per un periodo compreso tra un anno e mezzo e due anni e al suo ritornò aveva capacità musicali che suscitavano l'invidia di tutti gli altri chitarristi.


Robert Johnson era nato a Hazlehurst, un paese rurale del Mississippi, nel 1911 e dall'età di otto anni visse con la madre vicino alla città di Tunica, nell'area del delta del Mississippi. La leggenda narra che a sedici anni Robert tornò al suo paese natale dove imparò a suonare la chitarra da un uomo misterioso, vestito di nero, con il quale si incontrava nel cimitero del paese a mezzanotte. Al quel tempo storie di musicisti che vendevano l'anima al diavolo non erano rare. Pochi anni prima, infatti, un altro chitarrista chiamato Tommy Johnson (non parente di Robert, nonostante l'omonimia) raccontò al fratello di aver venduto l'anima al diavolo in cambio della capacità di suonare la chitarra e nel 1925 la cantante Clara Smith del South Carolina scrisse e incise il pezzo Done Sold My Soul To The Devil.

A parte la leggenda, che Robert Johnson abbia compiuto un viaggio a Hazlehurst che lo portò lontano dal delta per quasi due anni è effettivamente vero. Robert probabilmente stava cercando il suo vero padre, ma oltre a questi era in cerca di un famoso chitarrista noto per le sue capacità tecniche a cui voleva chiedere che gli insegnasse a suonare. Quest'uomo ha un nome e un cognome e la sua vita non è per niente avvolta nel mistero. Il suo nome era Isaac Zimmerman, detto Ike, il cui cognome è alle volte scritto come Zinneman, Zinnerman, Zinman o Zinemon, anche se lui lo scriveva con due "m" e la stessa grafia è riportata nei censimenti fin dal secolo precedente.

Ike Zimmerman era un operaio, e non un agricoltore o un mezzadro come alle volte riportato, e proprio grazie alla sua occupazione poteva comprarsi chitarre che altri suoi contemporanei non potevano permettersi. Zimmerman viveva con la moglie Ruth e i loro sette figli, un maschio e sei femmine, in una shotgun house vicino al cimitero del paese. Come riportato dalla figlia di Ike Zimmerman, Loretha Zimmerman, al biografo Bruce Conforth, il padre accolse Robert in casa propria ed era solito dargli lezioni di chitarra di notte al cimitero. Secondo la figlia la scelta del luogo e dell'orario notturno non aveva significati oscuri, ma la scelta del padre fu dettata dalla volontà di trovare un posto silenzioso e dove non ci fosse nessuno oltre a lui e Johnson in modo da non essere disturbati.

Secondo la leggenda Zimmerman e Johnson si sarebbero incontrati ad un incrocio per siglare il proprio patto, ma Loretha ha chiarito che tra la casa dove abitava con i suoi genitori e il cimitero non c'era nessun incrocio e quindi l'aggiunta di questo dettaglio alla leggenda deve essere di carattere allegorico; con l'incrocio come simbolo di scelta della strada da seguire.

Chi crede alla leggenda aggiunge che nel brano Up Jumped the Devil Robert Johnson parlerebbe del suo rapporto con il diavolo. In realtà il titolo del brano, pubblicato postumo nel 1939, è Preachin' Blues (Up Jumped The Devil) e quindi il riferimento al demonio è presente solo nel sottotitolo; il testo del brano inoltre non parla assolutamente del diavolo, ma parla della musica blues. Inoltre Up Jumped the Devil era un titolo già utilizzato per una melodia di violino incisa negli anni 20 da almeno orchestre jazz.

Il presunto patto con il diavolo di Robert Johnson non ha quindi nulla di misterioso, per il semplice fatto che non ci fu mai nessun evento del genere. Purtroppo ad oggi Robert Johnson è ricordato più per le leggende sulla sua vita che non per la sua musica e sarebbe opportuno finalmente che si tornasse a studiare e conoscere la sua breve ma fondamentale discografia lasciando da parte fantasiosi patti demoniaci.



Fonti:

  • Up Jumped the Devil: The Real Life of Robert Johnson di Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow (2019)
  • Escaping the Delta: Robert Johnson and the Invention of the Blues di Elijah Wald (2012)
  • Ike Zimmerman: The X in Robert Johnson’s Crossroads di Bruce Conforth (2008)

lunedì 9 settembre 2019

Howlin' Wolf - The Howlin' Wolf Album

Dopo aver tentato lo strano esperimento di mischiare il blues con il rock psichedelico con l'album Electric Mud di Muddy Waters nel 1968, l'anno seguente la Chess Records tentò di replicare l'operazione con il secondo dei propri artisti di punta, ovvero lo storico bluesman Howlin' Wolf che nel 1969 aveva già all'attivo una lunga discografia costellata di successi. L'album risultante si intitola The Howlin' Wolf Album e la copertina bianca riporta solo la strana e singolare scritta This is Howlin' Wolf's new album. He doesn't like it. He didn't like his electric guitar at first either.

Il disco è composto da dieci tracce il cui suono abbonda di wah-wah e fuzzbox a cui si somma la potente voce di Howlin' Wolf che interpreta i pezzi nel suo stile distintivo, creando così un bizzarro connubio tra il blues di Chicago e le sonorità che al tempo erano tipiche di Jimi Hendrix e del rock psichedelico che veniva prodotto a Londra. L'LP non contiene pezzi inediti ma è composto interamente di cover, nove delle quali sono standard scritti da Willie Dixon tutti già interpretati in passato da Howlin' Wolf, tra i quali troviamo pezzi storici come The Red Rooster o Evil, più l'autocover di Smokestack Lightning del 1956 e già inclusa nell'album Moanin' in the Moonlight.

In generale il risultato musicale è molto confuso è forzato e non è un caso che l'album non abbia avuto il successo commerciale di Electric Mud. Tuttavia l'esperimento è sicuramente interessante e mostra un lato inedito e mai più replicato nella carriera di Howlin' Wolf. Se questo disco non verrà ricordato per la qualità della musica, lo è sicuramente per il coraggio dell'aver provato a mischiare stili così diversi e per l'aver voluto provare a creare un suond nuovo. Anche se va riconosciuto che questo esperimento non ha dato i risultati sperati.

lunedì 3 giugno 2019

B.B. King - In London

Seguendo l'esempio della Chess Records, che nei primi anni 70 per quattro volte realizzò album unendo la musica del blues di Chigago a quella della swinging London, anche la ABC Records tentò la stessa strada registrando un album nel vecchio continente per il loro bluesman più importante, nonché uno dei più famosi al mondo quale il leggendario B.B. King.

L'album che nacque da questa sperimentazione si intitola In London ed è stato pubblicato nell'autunno del 1971. Il disco è composto da nove tracce a cui B.B. King presta la voce e la chitarra; oltre a B.B. la formazione dell'album vede nomi di spicco della scena inglese tra cui Ringo Starr (che lo stesso anno partecipò anche a The London Sessions di Howlin' Wolf), Alexis Korner, Steve Winwood e Greg Ridley, Steve Marriott e Jerry Shirley degli Humble Pie.

Il disco contiene cinque cover di brani classici tratti dal repertorio storico della black music americana reinterpretati nello stile del white blues di Londra oltre a quattro inediti scritti per l'occasione da alcuni dei musicisti coinvolti nelle sessioni di registrazione. La traccia di apertura è la cover di Caldonia di Louis Jordan, originariamente pubblicata nel 1945, di cui mantiene lo stile del jump blues condendolo con sonorità più moderne. Nel disco è presente una seconda cover di Louis Jordan dello stesso anno, ovvero la ballad We Can't Agree. Le seconda traccia dell'album è la cover di Blue Shadows di Lowell Fulson del 1950 che B.B. King accelera notevolmente e canta con uno stile più vicino al rock and roll allontanandosi dalla atmosfere jazz del pezzo originale. Nel disco è presente anche una cover di Part Time Lover di Clay Hammond del 1963 e anche in questo caso King stravolge il pezzo donando una grinta e una velocità del tutto assenti nella ballad soul originale. L'ultima cover è la traccia di chiusura Ain't Nobody Home di Howard Tate del 1966 di cui King mantiene le atmosfere R&B a cui aggiunge suoni più patinati e un tocco di gospel grazie al coro sul ritornello.

Il primo dei quattro inediti è la ballad Ghetto Woman, che come suggerisce il titolo stesso è il pezzo dell'intero disco che più attinge dal blues d'oltreoceano. Tra i pezzi nuovi troviamo anche la strumentale Alexis Boogie scritta dal chitarrista Alexis Korner che vede una massiccia presenza dell'armonica suonata da Steve Marriott, la veloce ed energica Power of Blues in cui B.B King dà sfoggio più che altrove della sua potenza vocale e la strumentale Wet Hayshark.

Nonostante In London non sia tra i dischi più celebri di B.B. King è sicuramente uno dei migliori della sua discografia grazie alla sua capacità di mischiare i classici a uno stile più moderno e di interpretare pezzi scritti appositamente per lui da alcuni dei migliori musicisti europei del tempo. In London merita sicuramente di essere riscoperto, perché tutte le tracce sono di altissimo livello, alternano stili musicali molto diversi tra loro e mostrano come un grande musicista come B.B. King si sia adattato a situazioni diverse con grande disinvoltura.

martedì 26 marzo 2019

Muddy Waters - Electric Mud

Nel 1968 la Chess Records tentò lo strano esperimento di mischiare il blues delle origini con il rock psichedelico che in quel periodo viveva il suo momento di maggiore splendore. Uno dei risultati di questa sperimentazione è l'LP Electric Mud di Muddy Waters in cui il leggendario bluesman del Mississippi prova a contaminare il proprio sound con quello che in quegli anni Jimi Hendrix produceva nella capitale del Regno Unito.

Il disco è composto da otto tracce il cui risultato è, come è ben noto, ampiamente discutibile. L'abuso di wah-wah e fuzzbox non si coniuga al meglio con lo stile del blues di Muddy Waters e l'album nella sua interezza dà una sensazione di unione forzata tra cose diverse. Qualche momento da salvare comunque c'è, ad esempio la cover di I Just Want to Make Love to You più aggressiva delle versioni precedenti è particolarmente efficace; così come lo sono anche le autocover di I'm Your Hoochie Coochie Man e Mannish Boy. In generale la voce potente di Muddy Waters funziona bene su tutti i brani rendendo così Electric Mud un disco comunque interessante e che merita più di un ascolto.

Nonostante la critica lo accolse in modo non sempre positivo, il successo commerciale fu notevole e in ogni caso l'influenza che Electric Mud ebbe sulla musica che non può essere ignorato. Il bassista dei Led Zeppelin John Paul Jones affermò di aver preso spunto proprio da questo album per il celebre riff di Black Dog. Inoltre secondo quanto sostiene il giornalista musicale Gene Sculatti nel libro Lost in the Grooves: Scram's Capricious Guide to the Music You Missed la parte ritmica di Electric Mud fece da precursore a quella dell'hip hop.

Nonostante lo stesso Muddy Waters abbia affermato che Electric Mud non gli piaceva e che non lo considerava un disco di blues, non ignorò completamente i risultati dell'esperimento nei suoi dischi successivi. Parte di questo inedito sound fu infatti utilizzato anche nel successivo After The Rain, in cui però le sonorità psichedeliche sono meno invadenti e non coprono lo stile compositivo di Muddy Waters.

In sintesi Electric Mud è un disco interessante, sicuramente sperimentale, ma che contiene comunque spunti e momenti molto validi. Il lascito di Electric Mud si nota in tutto il blues rock dai primi anni 70 fino ad oggi, ma sopra ogni cosa questo atipico album mostra che anche gli esperimenti meno riusciti dei grandi musicisti lasciano una profonda impronta e contengono sempre qualcosa di buono che condiziona i decenni successivi.

lunedì 25 febbraio 2019

Bo Diddley - The London Bo Diddley Sessions

Dopo Howlin' Wolf, Muddy Waters, B.B King e Chuck Berry, anche Bo Diddley all'inizio degli anni 70 decise di realizzare un album nella capitale del Regno Unito, avvalendosi della collaborazione di alcuni tra i migliori musicisti inglesi dell'epoca per mischiare la propria produzione alle sonorità del blues bianco europeo.

Il risultato di questa mescolanza è stato pubblicato nel 1973 con il titolo di The London Bo Diddley Sessions. L'album è composto da nove tracce che offrono un perfetto connubio di blues, rock e funk ricco di strumenti a fiato e di percussioni atipiche come conga e tamburello. Nella formazione di musicisti che hanno realizzato il disco non si trovano nomi di spicco, contrariamente a quelli dei quattro colleghi di Bo Diddley che hanno realizzato prima di lui album londinesi, ma questo non inficia minimamente la qualità della musica, che al contrario rimane ottima e fresca per tutta la durata dell'LP.

Il disco parte con uno dei propri pezzi migliori con Don't Want No Lyin' Woman sostenuto da un ritmo incalzante e che offre un portentoso duetto tra Bo Diddley e la vocalist Cookie Vee, che presta la sua voce anche in Going Down e Sneakers on a Rooster). Il disco prosegue con una nuova versione di Bo Diddley (pezzo che porta il nome stesso dell'autore inciso inizialmente in 45 giri nel 1955) dal testo diverso rispetto alla versione originale.

La seconda metà dell'album propone pezzi più orientati al funk, come Husband-In-Law, Do the Robot e Get Out of My Life. Tra le tracce migliori troviamo anche la strumentale Bo-Jam, basata interamente sulla chitarra suonata dallo stesso Bo Diddley, e la già citata Sneakers on a Rooster in cui il piano suonato da Tennyson Stephens duetta con la sezione dei fiati e che vede di nuovo Cookie Vee affiancare Bo Diddley alla voce.

Nonostante in rete si legga spesso che The London Bo Diddley Sessions è stato registrato per la maggior parte a Chicago con solo qualche traccia registrata a Londra per giustificare il titolo, il booklet della versione in CD riporta invece che solo Going Down, Husband-In-Law e Sneakers On A Rooster sono state incise nella metropoli dell'Illinois e che la maggior parte dei pezzi è stata incisa proprio a Londra. In ogni caso, questo The London Sessions è un ottimo esempio di commistione di tra le scene musicali dei due lati dell'Atlantico di inizio anni 70. L'album ha un suono innovativo e divertente, non conosce momenti bassi e si ascolta con piacere per tutta la sua durata ed una delle tante pietre miliari del blues e del rock 'n' roll realizzate da questo straordinario musicista.

mercoledì 26 settembre 2018

Billy Gibbons - The Big Bad Blues

Dopo l'esperimento di musica caraibica di Perfectamundo, il chitarrista e cantante degli ZZ Top Billy Gibbons torna su terreni più noti e battuti con il nuovo album solista intitolato The Big Bad Blues uscito nel settembre del 2018. Come suggerito dal titolo stesso le sonorità del nuovo album sono contraddistinte da un blues rock grezzo e diretto che attinge direttamente dalle origini di questo genere.

Rispetto agli album degli ZZ Top, The Big Bad Blues offre un suono generalmente più lento e più duro in cui hanno la parte principale la voce graffiante di Gibbons e la sua chitarra che scandisce le melodie. Inoltre, come nella migliore tradizione del blues di Chicago, trovano ampio spazio le tastiere e l'armonica ed è proprio quest'ultima che spesso duetta con la chitarra.

Il fatto che Gibbons abbia attinto ampiamente dai modelli delle origini è confermato dalla presenza di ben quattro cover, quali Standing Around Crying e Rollin’ and Tumblin di Muddy Waters, e Bring It to Jerome e Crackin’ Up di Bo Diddley. Queste due in particolare sono tra i migliori pezzi dell'album, con Bring It to Jerome che si distingue per i suoni duri e aggressivi, mentre Crackin’ Up è sicuramente il brano più leggero dell'intero album (e lo stacco si sente nettamente durante l'ascolto) grazie alle sue atmosfere rock and roll e al coro di voci femminili che si affiancano a Gibbons sul controcanto del ritornello.

Tra i sette brani inediti spiccano la traccia di apertura Missin’ Yo’ Kissin’ che è quella che si avvicina più allo stile degli ZZ Top e in cui l'armonica ha il ruolo più importante, e le grintose Let The Left Hand Know e la già citata Rollin' and Tumblin'. Tra i pezzi migliori troviamo anche Mo' Slower Blues, che come dice il titolo stesso rallenta notevolmente il ritmo senza rinunciare alla durezza dell'impatto sonoro, e l'allegra Hollywood 151 che offre un po' di freschezza rinunciando alle venature hard rock di cui il resto del disco è pervaso.

Con questo nuovo album solista Billy Gibbons confeziona l'ennesimo ottimo disco della sua lunghissima carriera. In The Big Bad Blues infatti non c'è nemmeno un pezzo noioso o che si sarebbe potuto evitare e l'album è ricco solo di tanta buona musica blues che, data la notorietà dell'interprete, può servire a far conoscere a un pubblico più ampio questo genere musicale, troppo spesso messo da parte in favore delle mode del momento e di musica di più facile consumo.

giovedì 12 luglio 2018

Buddy Guy - The Blues is Alive and Well

Tre anni dopo il precedente Born to Play Guitar torna il leggendario bluesman Buddy Guy con un nuovo album intitolato profeticamente The Blues is Alive and Well. E stando alla qualità della musica contenuta nel disco sembra proprio che quanto dice il titolo sia decisamente corretto, perché gli anni passano e George Guy (vero nome di Buddy Guy) ha passato gli ottant'anni ma la sua musica non sembra risentirne.

Il nuovo album è composto da quindici tracce per una durata complessiva di 64 minuti e già questo è un risultato ragguardevole visto che molti artisti che hanno meno della metà degli anni di Buddy Guy si fermano ben prima di una durata del genere. Il disco è composto da un blues genuino che riporta alle atmosfere del profondo sud degli Stati Uniti e tutte le quindici tracce sono contraddistinte dall'onnipresente suono della chitarra di Buddy Guy unito alla sua voce tonante che a dispetto degli anni non ha ancora perso nulla della sua potenza iniziale.

Il disco vede anche una notevole presenza di ospiti illustri. Jeff Beck e Keith Richards affiancano Buddy Guy nell'evocativa Cognac che è il pezzo dalle atmosfere più classiche dell'album, Jeff Bay porta un tocco di soul in Blue No More unendosi a Buddy Guy non solo con la chitarra ma anche alla voce, ma l'ospite più illustre è senza dubbio Mick Jagger che suona l'armonica nella lenta You Did The Crime.

Tra i pezzi migliori troviamo sicuramente la potente Guilty as Charged che sconfina nel blues rock, genere in cui Buddy Guy si cimenta in varie tracce di questo disco, e la title track contraddistinta dalla presenza poderosa di numerosi strumenti a fiato. Atmosfere da blues rock si trovano anche in Ooh Daddy che propone una bella mescolanza tra blues e rock and roll ispirato agli anni 50. Nella track list spiccano anche Whiskey for Sale, impreziosita dal coro di voci femminili nel ritornello, e Nine Below Zero grazie al suono del piano che duetta con la chitarra.

The Blues is Alive and Well è il diciottesimo album solista di Buddy Guy, senza contare le innumerevoli collaborazioni e i duetti di cui la sua discografia è costellata, ed è l'ennesimo capolavoro della sua lunga carriera in cui non ha mai commesso un passo falso. Questo nuovo disco, che rasenta la perfezione, è sicuramente uno degli album di blues migliori degli ultimi anni e dimostra come Buddy Guy resti uno dei migliori interpreti del genere: del passato e di ogni tempo.

martedì 5 settembre 2017

Muddy Waters - The London Muddy Waters Sessions

Nei primi anni 70 molti artisti afroamericani si spostarono a Londra per registrare delle sessioni musicali che unissero il suono originario del blues d'oltreoceano con il rock e il blues "bianco" che il Regno Unito aveva iniziato a produrre. Uno di questi fu il leggendario bluesman Muddy Waters che nel 1971 realizzò l'album intitolato The London Muddy Waters Sessions presso gli storici IBC Studios di Portland Place.

L'album vede la presenza di alcuni musicisti britannici di rilievo, tra cui il chitarrista irlandese (ma che lavorava a Londra) Rory Gallagher, Steve Winwood, Ric Grech (bassista dei Blind Faith) e Mitch Mitchell (batterista di Jimi Hendrix). Oltre a questi la formazione è completata da alcuni musicisti della band che seguiva Muddy Waters abitualmente, quali il chitarrista Sammy Lawhorn e l'armonicista Carey Bell.

Il disco è composto di nove pezzi, di cui due inediti di Muddy Waters e sette cover di cui quattro di Willie Dixon, una di Lafayette Leake, una di Casey Bill Weldon e lo standard Key To The Highway, che nel libretto del disco viene accreditato a McKinely Morganfield (vero nome di Muddy Waters) ma di cui i veri autori sono probabilmente Charlie Segar e Big Bill Broonzy.

Il risultato di questa collaborazione è un buon mix tra rock e blues. Il ritmo di alcuni dei brani, come I'm Ready o I Don't Know Why (entrambe cover di Willie Dixon), è notevolmente più veloce di quello degli altri album del bluesman che qui dimostra di sapersi muovere alla grande anche a queste velocità più incalzanti. Oltre alla voce di Muddy Waters il punto di forza di questo album è composto dall'ottimo connubio della chitarra di Gallagher e dell'armonica di Bell. Va sottolineato che la tastiera di Winwood lascia un'impronta piuttosto leggera, ma nel complesso il disco ha un suono armonico di grande effetto e quindi non si può recriminare nulla ai musicisti.

Nella sua avventura nel vecchio continente Muddy Waters ha confermato ciò che già si sapeva sul suo conto: cioè che non gli è mai mancato il coraggio di tentare strade nuove. Ma se alcuni dei tentativi precedenti (come una breve deriva nella musica soul e una nella psichedelia con gli album Brass and the Blues ed Electric Mud) hanno convinto solo a metà, questa volta il tentativo è riuscito alla grande e ha creato con The London Muddy Waters Sessions uno degli album più divertenti del musicista del Mississippi.

martedì 29 agosto 2017

George Thorogood - Party Of One

A 67 anni e a quattro decadi dall'esordio, George Thorogood ha realizzato il suo primo album solista, senza i Destroyers che lo accompagnano dal 1977. Chi si aspetta un album nello stille dei Destroyers suonato da musicisti diversi rimarrà piacevolmente sorpreso: il disco è infatti completamente diverso dalle aspettative, con la strumentazione ridotta all'osso e il solo Thorogood che suona. I pezzi sono tutti realizzati con voce e chitarra e solo in uno è presente anche l'armonica, anch'essa suonata da Thorogood.

Come nella sua migliore tradizione il blues rocker del Delaware decide di realizzare un disco di cover attingendo da repertorio di alcuni mostri sacri del blues, del country e del rock and roll come Robert Johnson, John Lee Hooker, Willie Dixon, Johnny Cash, Rolling Stones e molti altri.

Grazie alla strumentazione essenziale Throgood rimane fedele ai modelli originali e registra un album che omaggia le origini degli stili musicali che lo hanno reso celebre e che lui ha contribuito a diffondere. Uno dei pregi di questo album è infatti proprio quello che i pezzi sembrano vecchi anche all'ascolto; questo non suona come un album di cover realizzato nel 2017, ma come un disco preso di peso dai primi decenni del secolo scorso e teletrasportato ai giorni nostri.

Nonostante lo stile minimalista, Thorogood riesce a esprimersi in stili canori e musicali molto diversi. Si passa da pezzi più aggressivi come I'm a Steady Rollin' Man di Robert Johnson e Boogie Chillen di John Lee Hooker a brani più melodici come Soft Spot di Gary Nicholson e Allen Shamblin e No Expectations dei Rolling Stones fino a pezzi tipicamente country come Bad News di Johnny Cash e Pictures From Life's Other Side di Hank Williams. Tra i pezzi degni di nota troviamo anche The Sky is Crying di Elmore James che Thorogood aveva già inciso con la band nell'album Move It Over del 1978.

In chiusura dell'album troviamo una registrazione live di One Bourbon, One Scotch, One Beer di John Lee Hooker registrata da Thorogood con i Destroyers nel 1999 e (solo nella versione in CD) Dynaflow Blues di Robert Johnson che pure aveva inciso con il gruppo nell'album The Hard Stuff del 2006.

Con Party Of One George Thorogood si conferma uno degli artisti più meritevoli della nostra epoca, capace di realizzare un disco di cover e di omaggi al passato armato solo di chitarra e armonica. Oltre ad essere un grandissimo musicista si dimostra anche per l'ennesima volta un grande conoscitore della storia della musica moderna e della sua evoluzione, dal blues del delta del Mississippi fino al rock contemporaneo. In ogni disco di George Thorogood possiamo trovare il perfetto connubio tra la musica e la sua storia ed è un vero peccato che nel nostro paese Thorogood sia conosciuto solo per Bad To The Bone; resta almeno la speranza che Party Of One allarghi il pubblico degli ascoltatori di questo straordinario musicista e che partendo da qui venga riscoperta anche la lunga discografia dei Destroyers.

martedì 18 luglio 2017

Quante foto esistono di Robert Johnson?

Si ringrazia Bruce Conforth per la consulenza fornita nella stesura di questo articolo.

Nonostante la sua carriera sia stata molto breve e nonostante sia uno dei primi ad essersi iscritto al fantomatico Club 27 (quello riservato ai musicisti morti a 27 anni), Robert Johnson è uno dei musicisti più influenti dell'ultimo secolo. Molti dei suoi brani, come Sweet Home Chicago o I Believe I'll Dust my Broom, sono entrati a pieno titolo nei più importanti standard blues di ogni tempo e vantano innumerevoli cover, e possiamo dire senza dubbio che la musica odierna di qualunque genere non sarebbe la stessa senza il suo preziosissimo contributo.

Purtroppo le informazioni sulla sua vita sono molto lacunose e spesso aneddotiche, come il presunto patto con il diavolo che il chitarrista avrebbe stretto per poter raggiungere la qualità musicale ineguagliata ai suoi tempi.

Uno dei principali problemi nel ricostruire la vita di questo leggendario musicista riguarda quante sue foto esistano al mondo. Due di esse sono ben note e su queste non ci sono dubbi: la prima di lo mostra in una cabina fotografica, mentre la seconda è stata scattata in studio seduto su uno sgabello e con le gambe incrociate.


Queste due foto sono emerse solo nel 1973 grazie al lavoro dello storico Steven C. LaVere che le reperì dalla sorellastra di Johnson, Carrie Spencer (altrove chiamata Carrie Thompson). La donna, che conservava la foto in una Bibbia, aggiunse che il vestito che Johnson indossa nella foto appartiene al nipote Louis, cioè al figlio della Spencer.

Nel 2008 la rivista Vanity Fair pubblicò una probabile terza foto di Johnson che lo ritrarrebbe insieme al musicista Johnny Shines. La foto era stata acquistata tre anni prima su Ebay dal collezionista Steven "Zeke" Schein il quale pensò di riconoscere Johnson nell'uomo a sinistra per via delle lunghe dita della mano e per il fatto che questi avesse un occhio meno aperto dell'altro, difetto riscontrabile anche nelle foto note di Johnson dovuto a una malattia infantile.

La foto fu dichiarata autentica dalla disegnatrice di identikit (forensic artist, in inglese, termine che non ha una traduzione precisa in italiano) Lois Gibson, purtroppo il rapporto completo della Gibson non è mai stato pubblicato ed è solo nelle mani della Robert Johnson Estate e del suo avvocato John Kitchens e gli unici dati disponibili sono quelli pubblicati da un altro articolo di Vanity Fair.

La redazione di questo blog ha contattato sia John Kitchens sia Lois Gibson per chiedere il testo integrale del rapporto, ma senza ottenere alcuna risposta.

Alcuni eminenti storici, tra cui Bruce Conforth ed Elijah Wald, non concordano con la Gibson e pubblicarono nel 2015 un lungo articolo in cui confutano il risultato della Gibson sulla base delle misure facciali e di considerazioni relative all'abbigliamento dell'uomo, che farebbe pensare a una foto successiva alla morte di Johnson, e del fatto che la chitarra che tiene in mano non è vera, ma un arredo scenico. Inoltre, come spiega il primo articolo di Vanity Fair linkato in precedenza, la foto è stata sottoposta a due persone che hanno conosciuto Johnson in vita, i bluesman Robert Lockwood e David Edwards, che hanno confermato di non riconoscere nello scatto il leggendario chitarrista.

Nonostante la dettagliata smentita del team di Conforth, la Robert Johnson Estate ha risposto ufficialmente rifiutando le conclusioni di Conforth e continuando a sostenere quelle della Gibson.

Più recentemente, nel giugno di quest'anno, il ricercatore inglese Mark Bampton ha pubblicato un nuovo rapporto di 54 pagine in cui si unisce a Conforth nello smontare l'ipotesi della Gibson. Bampton non si basa solo sulle misure facciali ma anche su quelle delle mani e ipotizza anche che la foto sia un fotomontaggio di due immagini di due persone scattate in momenti e luoghi diversi.

Nel dicembre del 2015 emerse una nuova presunta foto di Robert Johnson, questa volta l'immagine ritrae l'uomo insieme a quelli che dovrebbero essere Calletta Craft, la moglie di Johnson, Estella Coleman, madre di Robert Lockwood, e lo stesso Lockwood. Anche questa nuova foto fu dichiarata autentica da Lois Gibson, tuttavia il riconoscimento facciale è reso particolarmente difficile dal fatto che l'uomo ha la parte inferiore del viso coperta dalla mano e dal bicchiere. Questa volta il lavoro della Gibson è disponibile come allegato a questo articolo di Inweekly.


Anche nel caso di questa nuova foto Bruce Conforth, con l'aiuto dello storico Frank Matheis, scrisse un articolo per confutare la conclusioni della Gibson. I due fanno notare che l'abbigliamento delle persone, gli occhiali che indossano, le acconciature delle due donne e il tavolo a cui sono seduti sembrano molto successivi alla morte di Johnson e risalgono probabilmente agli anni 50. Ad esso va aggiunto che la donna identificata come la moglie di Johnson non assomiglia per nulla alla vera Craft e che questa è morta nel 1932, quindi nella foto Johnson dovrebbe avere al massimo 21 anni ma l'uomo nella foto sembra più vecchio di tale età. In ultimo, la bottiglia di Coca Cola appoggiata al tavolo non era in commercio fino agli anni 50.

Conforth aggiunge un dettaglio importante anche sull'apparente curriculum impeccabile di Lois Gibson. La scienziata avrebbe autenticato una foto di Jesse James che non viene accettata nemmeno dalla famiglia stessa del bandito.

Ma nonostante queste due smentite, una terza foto di Robert Johnson esiste davvero. Nel suo libro Searching for Robert Johnson il biografo Peter Guralnick narra che lo storico del blues Mack McCormick gli ha mostrato una foto che ritrae Johnson insieme al nipote Louis in divisa da marinaio, con Johnson che abbraccia il nipote appoggiandogli il braccio sulle spalle. La foto non è mai stata resa pubblica e pertanto le poche informazioni che sono emerse, sono giunte dalle parole di Gurnalick

La conclusione più ovvia sembra quindi essere che esistano tre scatti fotografici di Robert Johnson: due pubblicati e uno nelle mani di McCormick che forse in futuro verrà resa pubblica. E' comunque innegabile che l'incertezza riguardo alle sue poche foto contribuisce ad aumentare l'aura di mistero intorno alla figura di questo leggendario musicista, e forse proprio per questo è bene che un po' di mistero rimanga.

lunedì 22 maggio 2017

Taj Mahal e Keb' Mo' - TajMo

Dopo anni di collaborazioni i due leggendari chitarristi blues Taj Mahal e Keb' Mo' hanno finalmente deciso di incidere un album insieme e il lavoro nato dalla loro creatività, intitolato TajMo, è stato pubblicato il 5 maggio del 2017. Come nella migliore tradizione di entrambi le undici tracce del disco, tra inediti e cover, offrono un'ora di blues divertente e ricco di contaminazioni musicali di vari generi in cui i due vocalist si affiancano, ognuno con il proprio stile canoro, creando contrasti vocali di grande effetto tra la voce aspra di Keb' Mo' e quella più melodica di Taj Mahal.

Il disco parte con Don't Leave Me Here, pezzo blues piuttosto tradizionale e ricco di strumenti a fiato come l'armonica, tromba e sax; i due si alternano alla voce per descrivere le differenze tra due dei luoghi più iconici della musica nera americana: Chicago e lo stato del Mississippi. La seconda traccia mostra già un primo cambio di rotta con una cover dello standard rock and roll She Knows How to Rock Me, portata al successo da numerosi cantanti tra cui Little Richard e Charlie Feathers.

Tra i brani più tradizionali troviamo, oltre alla già citata Don't Leave Me Here, gli inediti Shake Me in Your Arms e Ain't Nobody Talkin' oltre alla cover di Diving Duck Blues di Sleepy John Estes del 1929 (già incisa da Taj Mahal nel suo album di esordio del 1967) qui proposta in versione lenta e melodica, più simile all'incisione di Estes piuttosto che a quella precedente di Taj Mahal che era invece molto grintosa. Come nella tradizione dei dischi di Taj Mahal troviamo una buona dose di suoni etnici con l'africaneggiante Soul impreziosita dalle conga suonate da Sheila E; ad essa si aggiungono la cover di Squeeze Box degli Who, che trasforma l'allegro rock and roll originale in un pezzo dal sapore caraibico, e All Around The World che vira verso il reggae e lo ska grazie ai fiati e ai suoni sincopati. Nel disco troviamo anche un'unica ballad intitolata Om Sweet Om che vede la presenza come ospite della cantante Lizz Wright.

Il duo si concede anche un momento di blues rock con il brano That's Who I Am che ricorda per via del suo ritmo The Joker della Steve Miller Band. Il disco si chiude con la cover di Waiting On The World To Change di John Meyer la cui melodia resta inalterata ma che aggiunge un tocco di soul al pezzo originale.

In conclusione, TajMo è una delle migliori produzioni blues degli ultimi anni; nonostante l'età avanzata (Taj Mahal viaggia verso gli 80 e Keb' Mo' verso i 70) la creatività dei due non accenna a diminuire e la loro voglia di sperimentare consente al duo di creare disco ricco, di qualità e che non annoia nemmeno al centesimo ascolto grazie alla varietà dei suoni messi in campo dai due, che a vari decenni dagli esordi hanno ancora la creatività degli anni migliori.

venerdì 13 gennaio 2017

Da dove nasce il termine blues?

Il blues è una delle forme musicali più influenti dell'ultimo secolo perché fu proprio dalle incisioni della leggendaria Chess Records di Chicago che presero le mosse il soul, il rock & roll, l'hard rock, l'heavy metal e ogni altro aspetto della musica moderna. Ciò che spesso si ignora è come il termine blues sia entrato nel lessico mondiale per descrivere questo genere musicale nato nel sud degli Stati Uniti.

Come riportato dall'articolo Why Is the Blues Called the ‘Blues’? di Debra Devi, il termine blues che oggi tutti utilizziamo deriva dalla contrazione di blue devils che nell'inglese classico indicava uno stato emotivo di tristezza e malinconia. Un primo uso di questo termine si trova nel titolo dell'opera teatrale Blue Devils del drammaturgo londinese George Colman del 1798. Ma lo stesso termine già nel 1600 indicava lo stato di allucinazione seguito all'abuso di alcol e nel diciannovesimo secondo negli Stati Uniti vennero varate le Blue Laws per proibire il consumo di bevande alcoliche nei giorni festivi.

Il primo uso documentato del termine blues in campo musicale risale alla composizione del 1908 I Got the Blues del musicista italiano Antonio Maggio che, come riportato dalla newsletter dell'Hogan Jazz Archve, nacque a Cefalù nel 1876 e si trasferì a New Orleans nel 1892. Tuttavia come si può facilmente verificare ascoltandolo, il brano non afferisce al blues come lo intendiamo oggi ma è piuttosto un ragtime.

I volumi The History Of The Blues: The Roots, The Music, The People di Francis Davis e The Country Blues di Samuel B. Charters riportano che quattro anni dopo, nel  marzo del 1912, il compositore Hart Wand di Oklahoma City usò di nuovo il termine blues nel suo brano intitolato Dallas Blues, ma anche in questo caso si tratta di un ragtime e non di un blues. Nell'agosto dello stesso anno il musicista Arthur Seal pubblicò Baby Seals Blues, in cui di nuovo a dispetto del titolo non si trovano le sonorità tipiche del blues.

Nel settembre dello stesso anno il musicista afroamericano William Christopher Handy compose il brano intitolato Memphis Blues che come sonorità si avvicina sicuramente di più al blues che poi sarebbe entrato nella tradizione della musica nera americana. L'anno seguente Wand cercò di ripetere il successo di Dallas Blues con Jogo Blues (dove la parola Jogo significa uomo di colore, come spiegato dallo stesso Handy nella sua autobiografia intitolata Father of Blues pubblicata nel 1941) e nel 1914  lo stesso autore pubblicò il celeberrimo Saint Louis Blues che virò ancora più energicamente sui suoni neri di ciò che sarebbe diventato il blues. Ad oggi Saint Louis Blues è uno degli standard più noti del jazz e del blues e vanta decine di interpretazioni da parte di grandissimi cantanti di ogni era come Billie Holiday o Chuck Berry

Secondo quanto riportato dai libri Long Lost Blues: Popular Blues in America, 1850-1920 di Peter C. Muir ed Encyclopedia of the Blues di Edward Komara, Maggio sostenne che Handy prese spunto dal suo lavoro nel realizzare Saint Louis Blues; nonostante sia poco probabile che Handy si sia spostato fino a New Orleans è invece plausibile che possa aver sentito il brano di Maggio a Memphis. Questo non deve suggerire che Handy abbia copiato, quando piuttosto che abbia tratto ispirazione dall'opera di Maggio come naturalmente accade nella scrittura di musica di ogni tipo. Del resto l'autobiografia di Handy non menziona Maggio da nessuna parte e quindi lo spunto tratto da Handy dalla musica di Maggio, ammesso che esista, può essere considerato involontario.

Possiamo quindi considerare William Christopher Handy come il padre del blues, ma il fatto che si sia ispirato a un lavoro di un siciliano può renderci orgogliosi del fatto che fu un italiano a porre il primo mattone alle fondamenta della musica nata nell'ultimo secolo.

sabato 7 gennaio 2017

Rolling Stones - Blue & Lonesome

Il 2016 ha visto il ritorno dei leggendari Rolling Stones, band dall'incredibile longevità che di certo non ha bisogno di presentazioni. Il nuovo album del gruppo di Mick Jagger si intitola Blue & Lonesome ed è il primo disco interamente di cover del quartetto inglese. I Rolling Stones fanno una scelta coraggiosa decidendo di reincidere dodici classici del blues di Chicago, spaziando da Little Walter a Magic Sam fino ad Howlin' Wolf. Prima di Blue & Lonesome l'album dei Rolling Stones che conteneva più cover era il loro eponimo disco di esordio del 1964 che ne conteneva nove più tre inediti.

Se da un lato la scelta di attingere dal blues di Chicago può sorprendere, perché il gusto degli ascoltatori moderni è molto lontano da quel genere musicale, dall'altro non va dimenticato che la carriera dei Rolling Stones prese le mosse proprio da quel repertorio come confermato dal suono dei loro dischi della origini ma soprattutto dal fatto che il nome stesso della band è tratto dal 45giri Rollin' Stone di Muddy Waters.

Il gruppo interpreta i classici mantenendo le melodie fedeli a quelle degli interpreti storici facendo anche grande uso dell'armonica, suonata da Mick Jagger che in questo disco non suona la chitarra, e delle chitarre in stile blues grazie anche alla presenza di Eric Clapton, ospite d'eccezione in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor e I Can't Quit You Baby di Willie Dixon. La fedeltà agli originali è tale da regalare a questo disco un pregio di grande valore: l'album suona vecchio. I pezzi suonati dagli Stones non sembrano cover nuove di brani classici, ma pezzi presi di peso dalla Chicago degli anni 50 e trapiantati ai nostri giorni. Trattandosi di classici della musica è davvero arduo individuare pezzi migliori di altri perché ci troviamo davanti a dodici tracce da ascoltare e che trasportano in luoghi e tempi lontani interpretate con grande maestria da quattro leggende della musica.

Se proprio dovessimo scegliere i brani migliori di questo disco la scelta cadrebbe su Just a Fool di Buddy Johnson, qui interpretata nella versione di Little Walter, e I Gotta Go ancora di Little Walter per via del suono dell'armonica che non può mancare nei pezzi di Walter. Di grande impatto è anche la già citata Everybody Knows About My Good Thing grazie alla tecnica della slide guitar eseguita magistralmente da Clapton.

Il disco è stato registrato il soli tre giorni nel dicembre del 2015 e rende un bellissimo omaggio a un genere musicale da cui è nata ogni forma di musica moderna. La nostra speranza è che Blue & Lonesome possa far conoscere questi classici e i loro autori alle nuove generazioni, perché a chi non conosce il blues di Chicago manca una bella fetta delle basi per capire tutto ciò che è venuto dopo e che esiste oggi.

mercoledì 6 luglio 2016

La morte di Little Walter

Nonostante la sua notorietà non sia all'altezza di quella di altre leggende del blues, Little Walter fu uno dei più grandi e influenti musicisti di ogni tempo; è a lui che si deve la nascita dell'harmonica blues grazie alla sua intuizione di amplificare il suono dell'armonica in modo da poter competere, quanto a volume sonoro, con i chitarristi suoi contemporanei. Marion Walter Jacobs, questo era il suo vero nome, trovò la morte il 15 febbraio del 1968 in seguito a una rissa nella periferia di Chicago.


Negli ultimi giorni della sua vita Walter viveva a casa di una donna chiamata Katherine, al numero 209 E della 54esima strada, che aveva conosciuto grazie ad Armilee Thompson (una delle ex ragazze di Walter e sedicente madre del suo unico figlio). La sera prima del giorno della sua morte Walter si esibì in un locale chiamato Theresa's Lounge all'incrocio tra la 48esima strada e South Indiana (la foto sopra mostra come appare il luogo oggi, la scala d'ingresso al locale che era al piano interrato è visibile in basso a sinistra sul marciapiede) dove suonavano regolarmente altri grandi musicisti come Buddy Guy e Junior Wells. Durante una pausa dell'esibizione Walter si spostò con altri musicisti e avventori sulla strada per una partita di dadi. L'uomo con cui Walter stava giocando lanciò i dadi, ma colpì lo stesso Walter. Cadendo, i dadi diedero la combinazione vincente; ma Walter contestò che avendo i dadi colpito proprio lui quella non poteva essere considerata una vittoria legittima. L'avversario si allungò per prendere i soldi, ma Walter lo anticipò; l'avversario allora afferrò un oggetto metallico e colpì Walter alla testa.

A distanza di quasi cinquant'anni vi sono ancora grossi dubbi su come il fatto si sia svolto e in particolare su che oggetto metallico l'uomo abbia usato per colpire Walter alla testa: secondo quando raccontato da Katherine ad Armilee lo stesso Walter le avrebbe riferito di essere stato colpito con un tubo di ferro; ma due testimoni oculari riportano versioni diverse dell'accaduto. Il primo di questi fu il bluesman Big Guitar Red, secondo cui Walter sarebbe stato colpito con un'armonica, e il secondo fu il ben più noto Junior Wells, la cui versione è riportata in modo esteso nell'autobiografia del leggendario bluesman Buddy Guy, che sostiene che Walter fu colpito con un martello, oggetto molto più simile a un tubo di ferro di quanto non lo sia un'armonica.

Wells prosegue raccontando che il colpo subito non stese Walter, che non cadde nemmeno a terra e non diede l'impressione di essere stato colpito a morte. Walter non riuscì comunque a riprendere a cantare e tornò verso casa di Katherine. Arrivato a casa intorno alle 23:30 disse a Katherine di avere un forte mal di testa; quindi telefonò all'amico musicista Sam Lay, che era abituato alle chiamate di Walter a tarda ore, a cui disse di essere stato colpito alla testa da un pugno sferratogli dal fratello di Katherine infuriato perché Walter aveva preso l'orologio della donna e lo aveva ceduto in pegno a seguito di una partita persa, Walter chiese a Sam di andare da lui perché sapeva che l'amico aveva una pistola, ma questi non poté accontentarlo perché non aveva un'automobile a disposizione. Katherine gli diede quindi un'aspirina; il musicista si stese a letto e poche ore dopo, intorno alle 3:00, la donna lo trovò morto accanto a sé.

Il certificato di morte redatto dal dottor William Monabola attribuisce la causa della morte a trombosi coronarica, non menziona la possibilità di un omicidio né visibili danni esteriori e questo unito alla testimonianza di Wells suggerisce che il colpo riportato peggiorò una situazione di salute già compromessa e non fu esso stesso la causa della morte. Il medico non ravvisò nulla che facesse pensare a un omicidio, la polizia non condusse alcuna indagine e non ci fu nessuna autopsia.

Resta il rimpianto di non sapere quanto altro blues di ottimo livello avrebbe potuto scrivere Little Walter se non fosse morto a soli trentotto anni. Probabilmente sarebbe ricordato come un musicista fondamentale come il suo mentore Muddy Waters, ma purtroppo la sua vita sregolata lo portò via prima del tempo.

Le fonti che abbiamo utilizzato per la nostra ricerca sono la biografia di Little Walter Blues with a Feeling: The Little Walter Story di Tony Glover,Scott Dirks e Ward Gaines; l'autobiografia di Buddy Guy When I Left Home: My Story; e il volume Highway 61: Crossroads on the Blues Highway di Derek Bright.