mercoledì 23 dicembre 2020

George Thorogood & The Destroyers ‎– Rock And Roll Christmas

Nel momento più alto della sua carriera, dopo la pubblicazione del suo iconico album Bad to the Bone il rocker del Delaware George Thorogood ha inciso il suo primo e finora unico singolo di Natale dal titolo Rock And Roll Christmas. Pubblicato nel 1983, il brano è allegro, festaiolo e dal ritmo incalzante proprio come ci si aspetta da una canzone di George Thorogood, di cui contiene tutti gli stilemi con una forte impronta blues e rock and roll e con menzioni nel testo a Elvis Presley, Chuck Berry e Buddy Holly. Il pezzo si apre con uno snippet di Joy to the World suonato al sassofono da Hank "Hurricane" Carter (che ha fatto parte dei Destroyers dal 1980 al 2003) e il suono del sax è preponderante durante tutto il pezzo.

Il B-side di Rock And Roll Christmas è New Year's Eve Party, anch'essa ispirata al rock and roll degli anni 50, con ritmi meno forsennati del brano sul lato A, ma senza rinunciare alle atmosfere di festa a cui questo singolo è dedicato. Anche il questo caso Hank Carter ci regala uno snippet al sassofono: quello di Auld Lang Syne, noto in Italia come Valzer delle Candele.

Rock and Roll Christmas è in realtà uno dei pezzi meno noti di Thorogood, che non compare in nessuno dei suoi album e nemmeno nelle raccolte, ciò nonostante si tratta di un pezzo di ottima fattura, divertente e allegro, che realizza un'ottima commistione tra tradizione e modernità e che costituisce un'ottima aggiunta alla collezione di canti natalizi rock, per dare alle feste un tocco più moderno.

mercoledì 16 dicembre 2020

Tin Idols - Metal Kalikimaka, Volume 2

Ad un anno di distanza dal primo volume, gli hawaiani Tin Idols nel 2015 hanno ripetuto l'esperimento di realizzare un disco di canti natalizi in versione metal con l'album Metal Kalikimaka, Volume 2 (dove Kalikimaka significa Natale in lingua hawaiana). Il gruppo guidato dal produttore e batterista Gerard Gonsalves sceglie quindici pezzi della tradizione natalizia attingendo sia dai classici, come O Holy Night o Silent Night, sia dai moderni come All I Want For Christmas Is You di Mariah Carey e Wonderful Christmastime di Paul McCartney.

Come nel volume precedente, la punta di diamante di questo disco è la voce di Sandy Essman, che nello scorso autunno ha pubblicato il proprio secondo album solita e l'ottavo degli Storm di cui è la frontwoman, che interpreta tre canti con la potenza e la sicurezza che le sono proprie: God Rest Ye Merry Gentlemen, Do You Wanna Build A Snowman? e Metal Kalikimaka, cover di Mele Kalikimaka, di cui conserva la melodia con un testo nuovo, resa celebre per la prima volta da Bing Crosby nel 1950 e che qui rinuncia alle atmosfere oceaniche in favore di un potente metal. Sandy, inoltre, partecipa come corista in vari pezzi tra cui la grintosa interpretazione di White Christmas cantata dalla graffiante voce di Christina Estes. Tra le altre voci femminili spiccano Willow Chang che interpreta una versione elettronica di Coventry Carol con una voce eterea vicina alla new age e Lana Saldania che canta Blue Christmas in uno stile particolarmente cupo. Un'altra ottima prova al femminile è quella di Marti Kerton che si cimenta in una cover rock accelerata di Last Christmas degli Wham!.

Tra le migliori performance maschili troviamo sicuramente quella di John Diaz, che trasforma O Holy Night in un aggressivo pezzo AOR, e quella di Mark Caldeira, un'altra delle voci storiche dei Tin Idols che aveva interpretato Gesù in Jesus Christ Supernova e che qui si cimenta in una versione allegra e veloce di Run Run Rudolph.

Con Metal Kalikimaka, Volume 2 il combo hawaiano ripete quindi il successo del primo volume, con un disco variegato, che attinge da un repertorio vasto in cui gli autori hanno saputo trovare risvolti inaspettati in brani appartenenti al passato recente e a quello remoto. Sicuramente i Tin Idols si confermano tra i migliori interpreti dei canti natalizi anche con questo secondo disco che diverte e convince per tutta la sua durata e che può essere una valida colonna sonora alternativa per questo Natale.

lunedì 7 dicembre 2020

Blackmore's Night - Here We Come A-Caroling

Il 2020 vede il ritorno degli straordinari Blackmore's Night, duo composto da Ritchie Blackmore e dalla moglie Candice Night, alla musica natalizia con un EP di quattro pezzi intitolato Here We Come A-Caroling, dall'omonimo canto risalente all'epoca vittoriana. Il disco si propone come l'ideale compendio di Winter Carols, uscito originariamente nel 2006, di cui riprende gli stilemi con quattro classici della tradizione natalizia reinterpretati nello stile del rock rinascimentale tipico della coppia che fa degli strumenti classici e della voce celestiale di Candice Night il proprio punto di forza.

La scelta della coppia cade su quattro canti risalenti al diciannovesimo secolo, quali la title track, It Came Upon the Midnight Clear, O Little Town of Bethlehem e Silent Night. I primi tre colpiscono per l'atmosfera gioiosa e per la presenza preponderante della strumentazione folk, flauti e mandola su tutti; in particolare O Little Town of Bethlehem è in una versione molto più veloce della gran parte delle altre interpretazioni. Al contrario Silent Night si discosta dagli altri brani per la sua atmosfera raccolta, con la prima strofa realizzata con voce e organo e che si conclude con la sola aggiunta della chitarra.

Così come in Winter Carols l'unico difetto di questo disco è quello di essere troppo corto, perché le quattro tracce sono semplicemente perfette dal punto di vista musicale, vocale e di interpretazione. Here We Come A-Caroling è quindi un'ottima aggiunta alla discografia dei Blackmore's Night e una chicca imperdibile per gli appassionati di musica natalizia.

sabato 28 novembre 2020

Nostra Morte - Sin Retorno


Sin Retorno
del 2012 è il secondo album dei messicani Nostra Morte, il cui esordio discografico risale al 2009 con l'album Un Cuento Antes de Morir. La musica del gruppo di Tepic, capitale dello stato di Nayarit nel Messico centrale, offre uno dei migliori esempi di metal sinfonico al mondo, che coniuga basi potenti, grintose e al contempo melodiche con il canto di impostazione operistica dei due vocalist Eiven Dumort e Dollette LaMort.

Il risultato di questa mescolanza sonora è un album solido, dalle atmosfere magniloquenti e teatrali con evidenti richiami alla letteratura gotica e al mondo dei vampiri. Il disco è composto da quattordici tracce, tutte di altissimo livello, che basano la propria forza sull'amalgama vocale che i due vocalist riescono a creare, duettando e alternandosi. Inoltre il canto in spagnolo, mentre gran parte del metal sinfonico mondiale è in inglese, dona alla musica di questa band un tocco di unicità davvero notevole, che ammorbidisce anche l'impatto sonoro del canto.

Il suono del disco è monolitico, al punto che è difficile individuare pezzi migliori di altri. In ogni caso spicca sicuramente la title track che apre il disco dando subito un assaggio di ciò che seguirà e Erik el Rojo in cui compare come ospite il baritono Pablo Akhma Atahualpa. Degna di nota sono anche Perséfone, che è il brano in cui Dollette dà la propria miglior prova vocale, e Réquiem DeMort che contiene uno snippet della canzone sovietica Katjuša. Il brano migliore dell'album è comunque Cuando la Muerte se Viste de Gloria che oltre alle sonorità operistiche e quelle metal aggiunge una buona dose di musica mariachi che crea un contrasto e una mescolanza e di grandissimo impatto.

Sin Retorno è, in sintesi, un vero capolavoro che mischia generi diversi con grande maestria il cui punto di forza è la commistione di stili e la voce impeccabile dei due cantanti. Ed è un vero peccato che questa band sia così poco conosciuta al di fuori del Messico, perché sicuramente non ha nulla da invidiare ai gruppi più noti europei e nordamericani di questo genere.

giovedì 19 novembre 2020

The Temptations - Psychedelic Shack

Soli sette mesi dopo l'uscita di Puzzle People, a febbraio del 1970 il gruppo soul dei Temptations pubblicò un nuovo album intitolato Psychedelic Shack in cui continua sulla strada del precedente che aveva sancito il definitivo passaggio del gruppo di Detroit ad atmosfere psichedeliche.

Il disco è composto da otto tracce in cui, come già accadeva nell'album precedente, i cinque vocalist si alternano al microfono molto più che in passato cantando insieme praticamente tutti i brani. Il disco si apre con la title track che proprio nei primi secondi contiene un campionamento di I Can't Get Next to You tratto da Puzzle People e che costituisce uno dei primi esempio di campionamento (anche se in questo caso il gruppo campiona sé stesso) nella black music, tecnica che verrà largamente utilizzata dall'hip hop che sarebbe nato alla fine degli anni 70. Il disco in generale ha un suono un po' più aggressivo, e tendente al rock, rispetto agli album precedenti. Tra le tracce migliori si distinguono anche It's Summer, l'unica ballad del disco che però si allontana dalle tipiche ballad della Motown in quanto parla dell'estate e non è una canzone d'amore, e Take a Stroll Thru Your Mind che combina la psichedelia al blues in una sorta di lunga esortazione all'uso della marijuana.

L'album conferma anche un passaggio a tematiche più impegnative, come in War che è il brano più energico del disco che rivolge un'aspra critica alla guerra del Vietnam e ai conflitti armati in generale. Il disco si chiude con due cover di altrettanti pezzi di Gladys Knight & the Pips praticamente coevi a Psychedelic Shack quali You Need Love Like I Do (Don't You) e Friendship Train.

Psychedelic Shack è in sintesi un disco solidissimo, caratterizzato da un suono maturo su cui il gruppo si muove ormai con grande maestria e che proseguirà fino ad A Song For You del 1975 che torna a un soul più convenzionale. Questo album mostra un lato del gruppo meno noto, rispetto al Motown sound degli inizi, ma non per questo di livello inferiore, e rimane ad oggi uno dei momenti migliori della lunghissima e ricchissima discografia di questo incredibile e mutevole gruppo..

lunedì 9 novembre 2020

La strana uscita temporanea di Flavor Flav dai Public Enemy

All'inizio di quest'anno, il gruppo hip hop newyorkese dei Public Enemy si è reso protagonista di una vicenda strana i cui contorni sono poco chiari anche adesso a distanza di mesi.


Nel 2019 Chuck D, principale vocalist e frontman del gruppo, fondò una band parallela chiamata Public Enemy Radio, con cui intraprese un tour europeo con i Wu-Tang Clan e i De La Soul intitolato Gods of Rap. Il gruppo era costituito da un terzetto che includeva anche DJ Lord, che dal 1999 ha sostituito Terminator X come DJ dei Public Enemy, e MC Jahi, affiliato ai Public Enemy che ha inciso due album con il nome di PE 2.0. Del gruppo non faceva parte Flavor Flav, il secondo vocalist dei Public Enemy. In ogni caso l'identità di questa nuova combo tendeva a confondersi con quella storica, perché in alcune locandine del tour il nome del gruppo è riportato come Public Enemy (addirittura con l'indicazione che il tour celebra il trentesimo anniversario dell'album It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back), e quando invece è scritto come Public Enemy Radio, la "O" della parola Radio è il logo classico con un uomo al centro di un mirino.

Alla fine di febbraio del 2020, fu annunciato che il primo di marzo i Public Enemy Radio avrebbero suonato a Los Angeles in occasione del comizio elettorale del candidato alle primarie del Partito Democratico Bernie Sanders. Sulla locandina però la parole Radio è scritta molto in piccolo, aumentando la confusione sull'identità della band. Pochi giorni dopo Flavor Flav inviò al resto del gruppo una richiesta di cease and desist (nel common law, una richiesta di cessazione immediata) in cui chiedeva di non usare il nome e il logo del gruppo a fini politici. La lettera dell'avvocato di Flavor Flav diceva chiaramente che Chuck D è libero di esprimere le sue preferenze politiche pubblicamente, ma non di farlo usando il logo e il nome dei Public Enemy.


Chuck D rispose all'azione di Flavor Flav dichiarando che quest'ultimo era interessato solo al guadagno e non all'impegno sociale, e annunciando pubblicamente l'espulsione di Flavor Flav dai Public Enemy. Un avvocato di Chuck D aggiunse che il suo cliente era l'unico proprietario del nome e del logo del gruppo e che poteva quindi usarlo a suo piacimento senza l'autorizzazione di Flavor Flav.

Flavor Flav rispose a queste dure parole asserendo che Chuck D non poteva licenziarlo, perché non era l'unico titolare della band. Disse di essere preoccupato per Chuck D e di non aver astio personale contro Sanders, ma di avere forti dubbi sulle sue politiche. Il primo marzo i Public Enemy Radio si esibirono al comizio di Sanders e molti fan di Flavor Flav tra la folla (individuabili per via dell'orologio a lancette appeso al collo, segno distintivo del vocalist fin dal suo esordio) lasciarono il comizio quando il gruppo iniziò la performance.

Il giorno seguente il divorzio sembrò sancito per sempre, con la dichiarazione da parte di Chuck D dell'uscita del primo album della nuova formazione, rinominata Enemy Radio per evitare ulteriori problemi, intitolato Loud is Not Enough (la cui copertina somiglia un po' troppo a quella dell'album di esordio di LL Cool J Radio del 1985), anche se in una delle tracce intitolata Food As a Machine Gun compare Flavor Flav come ospite.

Dopo solo un mese la situazione fu ribaltata nuovamente. Il primo di aprile, infatti, la Reuters pubblicò un articolo secondo cui l'uscita di Flavor Flav dal gruppo e la lite con Chuck D sarebbero state una messinscena orchestrata da entrambi allo scopo, secondo Chuck D, di attirare l'attenzione mediatica e di mostrare come i media tradizionali trattassero in modo negativo la scena hip hop. Tuttavia Flavor Flav scrisse su Twitter di non aver volontariamente preso parte alla messinscena e richiamò Chuck D a un comportamento più serio. In ogni caso il rientro di Flavor Flav nel gruppo ci fu senza dubbio, a giugno fu infatti annunciata l'uscita del nuovo album del gruppo intitolato What You Gonna Do When the Grid Goes Down? e firmato con il nome di Public Enemy che uscì il 25 settembre. Il disco vede la presenza di entrambi i vocalist storici.

La vicenda del temporaneo allontanamento di Flavor Flav è quindi ancora molto confusa e obiettivamente la spiegazione di Chuck D non è realistica: nessun artista ammetterebbe pubblicamente di aver diffuso informazioni false per attirare l'attenzione, perché questo sottintende di non riceverne abbastanza. La spiegazione più probabile è che si sia trattata di una vera lite, poi rientrata perché alla fine danneggiava entrambi. Ma a meno che Chuck D o Flavor Flav vogliano dare spiegazioni più convincenti, è probabile che non sapremo mai la verità.

mercoledì 4 novembre 2020

Sandro Di Pisa - Lockdown

A due anni di distanza dall'esperimento cantautorale di Tutto (Da) Solo torna il jazzista italiano Sandro Di Pisa con un nuovo EP con il quale ripropone le atmosfere in cui si è cimentato più spesso, ovvero quelle del jazz, grazie a sette pezzi completamente diversi tra loro che attingono da mondi diversi e stili disparati. Il disco si intitola Lockdown, cercando di sdrammatizzare sulla difficile situazione che stiamo vivendo. Tra i sette brani troviamo quattro inediti, una cover e due pezzi che prendono spunto da composizioni del passato per trasformarle in qualcosa di nuovo.

Il disco si apre con Svelta che come suggerisce il titolo stesso è un brano veloce ispirato ai quartetti jazz della West Coast degli anni 50 e che, come nello stile distintivo di Di Pisa, contiene uno snippet di Desafinado di Antônio Carlos Jobim. Il secondo brano dà già un'idea di quanto questo disco sia vario, con una sterzata verso il blues-rock con Le Elettriche Impazziscono (titolo ispirato a un verso della canzone Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini del 1976). L'album prosegue con La Freccia Nera, cover della sigla finale dell'omonimo sceneggiato televisivo della RAI del 1968 tratto dal romanzo di Robert Louis Stevenson; del brano originale però resta solo la melodia perché Sandro Di Pisa trasforma un brano magniloquente e dal sapore da colossal in un fresco pezzo da trio jazz.

Come anticipato Lockdown contiene anche due brani ispirati ad altrettanti pezzi storici da cui sapientemente si distaccano. Il primo di essi è Frédéric che prende spunto dal Notturno op. 9 n. 2 di Frédéric Chopin per trasformarlo in un valzer in stile be-bop. Il secondo di essi è Pierino che reinterpreta in chiave hard rock il tema di Pierino e il Lupo di Sergei Prokofiev; anche questo brano contiene alcuni snippet inaspettati, come Oh! Susanna e la filastrocca per bambini Stella Stellina. Completano il disco Big Band, ispirata alle grandi orchestre dell'epoca dello swing degli anni 30, e Il Brutto Anatroccolo, pezzo nato per caso in seguito a un esperimento con una chitarra synth che imita una voce scat. Il titolo del pezzo deriva dalla struttura musicale utilizzata, quella dei rhythm changes che in italiano sono chiamati anatole. Anche in questo caso troviamo dei divertenti e sorprendenti snippet: quali di nuovo Stella StellinaJingle Bells in chiusura del pezzo.

Ciò che colpisce di questo album è l'incredibile ecletticità e la capacità compositiva di Di Pisa, che riesce a spaziare tra stili diversi di jazz con grande maestria. I quattro pezzi inediti convincono e intrattengono con un suono fresco e divertente, mentre i rimanenti tre confermano come l'autore sappia trarre spunti inediti da pezzi classici, che appartengono a mondi diversissimi tra loro, trasformandoli in opere nuove percorrendo strade a cui nemmeno gli autori originali avevano pensato. Del resto gli snippet presi da repertori cosi diversi confermano che la varietà musicale da cui Di Pisa attinge è pressoché infinita. Inoltre uno dei punti di maggior forza di questo disco è che risulta di facile ascolto anche per i neofiti del jazz e questo aspetto lo rende particolarmente apprezzabile perché questo genere risulta spesso ostico per l'ascoltatore occasionale, che finisce per abbandonare l'ascolto dopo un paio di tentativi; al contrario le melodie di Lockdown si apprezzano già al primo giro ed entrano in testa come degli earworm con estrema facilità.

Lockdown è quindi una delle composizioni migliori del jazz moderno, consigliata sia a chi ama il jazz sia a chi ancora non lo conosce, perché è efficacissimo nel divulgare questa forma musicale e perché dimostra come questo genere sia ancora vivo e vegeto. Del resto Di Pisa non è sicuramente nuovo a questo tipo di capolavori e la sua produzione musicale, che affonda le sue radici in tre decenni da A Night in Viale Tunisia del 1991 conferma che i grandi compositori si trovano anche vicino a noi e che non serve attraversare l'Atlantico per trovare le più alte vette del jazz.

mercoledì 28 ottobre 2020

La storia di I Put a Spell on You di Screamin' Jay Hawkins

I Put a Spell on You è il pezzo più celebre e iconico della lunga discografia di Screamin' Jay Hawkins, musicista singolare a cui qualunque etichetta andrebbe stretta. Il brano ha sicuramente contribuito a creare la sua immagine da stregone ispirata ai film horror dell'epoca, ma inizialmente venne concepito come qualcosa di completamente diverso.


La canzone venne registrata per la prima volta nel 1955 come una ballad blues molto più convenzionale di come la conosciamo oggi. Al tempo Hawkins incideva per la Grand Records che non pubblicò mai il brano; la prima apparizione su un disco della prime versione risale infatti al 2006 nella compilation The Whamee 1953-55. L'anno seguente il bluesman passò alla Columbia e tornò in studio per inciderne una nuova versione; in quell'occasione il produttore Arnold Maxin portò carne da mangiare e una buona quantità di alcolici e fece ubriacare tutti prima di iniziare la registrazione. La sessione di registrazione, di cui Hawkins dichiarò in varie occasioni di non avere nessun ricordo, diede come risultato la versione urlata con i versi animaleschi che tutti conosciamo.

Le radio si rifiutarono di trasmettere un pezzo così trasgressivo e l'etichetta ne diffuse allora una versione tagliata, senza il finale che è la parte in cui si concerta la maggior parte dei versi di Hawkins. Le radio mantennero il divieto di trasmettere anche la versione più corta, ma ciò nonostante il 45 giri vendette più di un milione di copie.

Il disc jokey radiofonico Alan Freed offrì a Hawkins 3000 dollari per uscire da una bara durante un concerto. Sulle prime il bluesman rifiutò non ritenendolo un gesto serio, ma poi cambiò idea e costruì su di sé l'immagine ispirata al cinema horror con cui è rimasto celebre, con serpenti di gomma, teschi, costumi leopardati e oggetti di scena ispirati al voodoo.

La sua immagine da stregone, definita da alcuni una sorta di black Vincent Price, contribuì sicuramente al successo commerciale di Screamin' Jay Hawkins e aiutò a conferirgli un aspetto immediatamente riconoscibile. Tuttavia il bluesman, le cui aspirazioni iniziali erano di diventare un cantante d'opera e che fece anche il pugile prima di intraprendere la carriera nel blues, non sembrò essere particolarmente felice della sua immagine; in un intervista del 1973 dichiarò infatti che se fosse stato per lui non avrebbe scelto l'aggettivo Screamin' nel suo nome, sostenendo ad esempio che anche James Brown facesse urli e grugniti ma non veniva chiamato Screamin' James Brown, e si rammaricò del fatto che il pubblico non riuscisse ad apprezzarlo senza trasformarlo in un bogeyman.

In ogni caso I Put a Spell on You rimane ad oggi un enorme successo e vanta innumerevoli cover tra cui quella di Nina Simone, quella dei Creedence Clearwater Revival, e quella dei Marilyn Manson (incisa quando ancora Marilyn Manson era in nome della band e non del suo frontman durante la carriera solista). E la storia bizzarra di questa canzone ha sicuramente contribuito a farne un pezzo anticonvenzionale, fuori dagli schemi, in parte spaventoso e iconico di uno stile e di un'epoca.



Fonti:
  • Contemporary Musicians: Profiles of the People in Music, Volume 8 di Julia Rubiner
  • Encyclopedia of the Blues di Edward Komara
  • Rock Obituaries: Knocking On Heaven's Door di Nick Talaveski
  • Legendary Screamin' Jay Hawkins Dies At 70 da Billboard di Chris Morris

mercoledì 14 ottobre 2020

Older di George Michael


Gli anni 90 non cominciarono in modo facile per George Michael; il secondo album solista dopo lo scioglimento degli Wham, Listen Without Prejudice Vol 1, aveva venduto circa un terzo del precedente e il cambio di immagine da idolo pop ad artista maturo non sembrava aver convinto. In breve tempo si rifece, la sua performance al Freddie Mercury Tribute era stata la migliore di tutta la manifestazione, al punto che ne fu tratto un EP e che al tempo si vociferava che proprio George Michael avrebbe potuto essere il nuovo frontman dei Queen. Certo, lo stile musicale era completamente diverso, ma George aveva dimostrato di avere una voce adattissima a interpretare i pezzi di Freddie (anche se in realtà si era cimentato solo con due ballad) e forse avrebbero potuto trovare un accordo a metà strada.

Ma alla fine l’accordo non si concretizzò, ammesso che ce ne fosse mai stato uno in discussione, e George Michael tornò alla carriera solista. Il terzo album si fece attendere perché in mezzo ci fu anche una disputa legale, con il cantante che lasciò la sua etichetta precedente, la Epic, a cui addossava parte delle colpe dell’insuccesso del disco precedente, per passare alla Virgin con cui nel 1996 (sei anni dopo Listen Without Prejudice) uscì Older. Il titolo già diceva molto: George Michael era tornato più maturo, e la nota sul booklet chiariva il resto dicendo Thank you for waiting.

Il primo singolo estratto fu Jesus to a Child una ballad lontanissima dallo stile pop di facile presa che aveva reso famoso George Michael. Jesus to a Child è infatti un pezzo jazz intriso di black music e di soul. Il secondo singolo, Fastlove, era l’unico pezzo veramente catchy del disco che in parte richiamava il passato di George Michael, mentre il resto dell’album riportava alle atmosfere jazz con pezzi come Spinning the Wheel e anche al new age con The Strangest Thing.

Sicuramente l’album non è di facile ascolto, infatti molti critici diedero recensioni negative (come il Los Angles Times o AllMusic); ma dopo il giusto numero di ascolti non si può non cogliere la grandezza di queste composizioni. Probabilmente chi ha scritto recensioni negative non ha approcciato il disco con le aspettative giuste: in Older non si trovano pezzi divertenti e festaioli, ma canzoni introspettive e raccolte. Qui non ci sono i balletti di Wake Me Up Before You Go-Go, ma le ambientazioni rétro di Spinning The Wheel e Star People che di certo non sono meno belle. Il disco stupisce anche per il numero di outtakes, che furono stampate in un EP a parte venduto un in una riedizione a doppio disco di Older intitolata Older & Upper, che confermano il fatto che dal punto di vista compositivo quelle di Older furono sessioni molto produttive.

L’unico vero problema di Older emerse anni dopo: non fu solo il disco del ritorno, ma anche l’ultimo grande album di George Michael che tornò sulle scene due anni dopo con la compilation Ladies & Gentlemen che conteneva due inediti e nel 2000 pubblicò If I Told You That con Whitney Houston, per il greatest hits di quest’ultima. Questi tre pezzi in parte sancivano un ritorno al pop, e furono anche l’inizio della parabola discendente. George Michael pubblicò da allora altri due album da studio, di cui uno di cover e uno di inediti, il secondo dei quali conteneva due singoli usciti due anni prima francamente inascoltabili. L’ultimo album di George Michael fu Symphonica del 2014, un live orchestrale registrato durante il tour Symphonica Tour che si era svolto tra il 2011 e il 2012.

Five Live e Older furono il momento più alto della carriera solista di George Michael e dimostrarono capacità compositive e di interpretazione tra le migliori al mondo: peccato che gran parte di questo talento andò sprecato tra problemi burocratici e scelte sbagliate. Non resta che godersi ancora questi dischi, che sono capolavori di pop, jazz e rock ancora a distanza di oltre due decenni.

giovedì 8 ottobre 2020

Metallica - S&M2


Per celebrare i vent'anni di S&M, il loro primo album orchestrale, i Metallica hanno ripetuto l’esperimento con un nuovo concerto che li vede ancora una volta affiancati dalla San Francisco Symphony, che aveva preso parte anche al primo S&M, e anche questa nuova prova live ha dato vita a un album dal vivo della band di James Hetfield intitolato, come è abbastanza scontato, S&M2.

Il concerto, tenutosi a settembre 2019, è stato pubblicato ad agosto del 2020 sia in Blu-Ray sia in doppio CD. La band coadiuvata dall'orchestra ha eseguito ventidue pezzi attingendo da tutta la propria carriera con almeno un brano da ogni LP. Gli album più rappresentati sono l’ultimo Hardwired...to Self-Destruct e il black album, da cui sono tratti tre pezzi ciascuno, e Ride the Lightning rappresentato da due. Da tutti gli altri è stato preso un pezzo solo.

La formula è la stessa, già collaudata due decenni fa con S&M con la reinterpretazione in chiave sinfonica del migliori brani della discografia dei Metallica. Il live si apre con l’immancabile The Ecstasy of Gold di Ennio Morricone, scritta per la colonna sonora del film Il Buono, il Brutto, il Cattivo che il quartetto di Los Angeles utilizza come brano di apertura in versione strumentale, mentre nella versione del film contiene un vocalizzo della soprano Edda Dell’Orso, dal 1983. Circa metà della setlist era già presente nel primo live del 1999 e a questi si aggiunge la selezione dei pezzi più recenti e anche due brani di musica classica: la Suite Scita di Sergey Prokofiev, interpretata dalla sola orchestra, e la Fonderia d’Acciaio dall'opera L’officina di Aleksandr Mosolov suonata dall'orchestra e dalla band, in un esempio di crossover al contrario rispetto al resto del disco: con un pezzo classico eseguito dall'orchestra con una band metal.

Ovviamente mischiare hard rock e musica sinfonica non è un esperimento nuovo, visto che gli stessi Metallica, ma anche i Kiss, gli Scorpions e i Deep Purple (prima di tutti gli altri) lo hanno fatto in passato; ciò nonostante un disco come questo si distingue comunque da gran parte della produzione contemporanea e proprio per questo lo si ascolta con piacere. Alla band questo doppio album serve anche a tenere viva la propria immagine in un momento così difficile, agli ascoltatori serve sicuramente a ricordare che la musica non ha confini.

martedì 6 ottobre 2020

La storia della copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division

Nota: questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il contributo.


Ci sono casi in cui loghi o immagini diventano delle vere e proprie icone, a volte famose quanto gli autori stessi. Pensiamo al disegno della lingua dei Rolling Stones oppure allo smile dei Nirvana, o ancora il Dark Side dei Pink Floyd: nel corso del tempo sono diventate icone onnipresenti, veri pezzi di cultura pop. Un altro esempio è sicuramente questo misterioso disegno apparso sulla copertina di Unknown Pleasure, il primo album dei Joy Division del 1979.


La sua storia è piuttosto curiosa e ha origine giusto mezzo secolo fa. Nel 1970 Harold Craft, per la sua tesi di dottorato all'osservatorio di Arecibo, stava cercando un modo di comparare gli impulsi elettromagnetici provenienti dallo spazio; la pulsar (una stella a neutroni) CP1919 era una delle candidate da osservare. Il problema è che per via delle varie interferenze Harold cercò un modo di visualizzare questi impulsi allargando quelli più stretti e restringendo quelli più grandi. L'immagine quindi non rappresenta un battito cardiaco oppure qualche complicata analisi matematica, sono solamente degli impulsi graficamente aggiustati di una stella a neutroni disegnati l'uno sotto l'altro da uno dei primi software per computer.

Immagine originale della tesi di dottorato pubblicata su twitter da Jen Christiansen di Scientific American

I colori originali erano bianco su nero e qualche mese dopo la rivista Scientific American, nel 1971, la pubblicò in una variante: bianco su ciano.

Variante bianco su ciano

La sua ricerca venne poi ripubblicata nuovamente nel 1977, nel Regno Unito sulla rivista The Cambridge Encyclopedia of Astronomy. La stessa rivista che venne trovata da Sumner o Morris (rispettivamente chitarrista e batterista), a seconda dei racconti, nella Manchester Central Library durante una pausa pranzo mentre era alla ricerca di ispirazione.

Immagine di The Cambridge Encyclopedia of Astronomy

In seguito a Peter Saville, grafico della Factory Records, venne affidato il compito di creare la copertina dell'album a partire da quell'immagine. Levando le scritte varie e invertendo i colori in bianco su nero, andando contro gli iniziali desiderata della band, la copertina era pronta, nessun'altra scritta, nemmeno il nome della band, solo quel misterioso disegno.

Nel mentre, Harold Craft non aveva minimamente idea del successo derivato dall'immagine che aveva generato anni prima, fu una persona che lavorava per Scientific America, Jen Christiansen, a riferirglielo. Craft si precipitò nel negozio di dischi più vicino per verificare di persona e ne uscì con l'album in questione e un poster della copertina.

Inoltre, il disco inizialmente doveva chiamarsi in un altro modo, Kinetic Outtake, venne realizzato in soli tre weekend per via dei lavori principali dei membri e in realtà non è nemmeno il primo disco della band perché Ian Curtis presentò tra il 1977 e il 1978 un disco alla RCA di Manchester che non venne pubblicato e Transmission era una canzone di questo disco inedito.

Un'immagine che davvero ha avuto un successo strepitoso anche al di fuori della fanbase della band. Magliette, accessori, tatuaggi e street art che ritraggono questo disegno dominano la scena dagli anni 80. Nel 2015 la BBC tramite un sondaggio la elegge la miglior maglietta di tutti i tempi, battendo mostri sacri come Pink Floyd, Rolling Stones e Nirvana.

Sì, ne ho una variante pure io

Nemmeno la Disney è rimasta immune da questa moda, ma questa mossa divise un po' le opinioni della band a riguardo.


L'epoca dei social fotografici: tumblr, pinterest e instagram poi sono tutt'ora pieni di reinterpretazioni e meme.


... e di chi forse non sa nemmeno cosa sia, ma piace e se ne fa bella mostra.

venerdì 2 ottobre 2020

Pearl Jam - Gigaton


I Pearl Jam sono gli unici sopravvissuti del Seattle sound degli anni 90; mentre altre band come gli Screaming Trees o gli Hammerbox hanno chiuso l’attività dopo pochi anni, il gruppo guidato da Eddie Vedder sforna ancora album a quasi trent’anni dall’esordio con Ten del 1991, anche se le loro uscite discografiche sono sempre più dilazionate nel tempo e da Lightning Bolt al nuovo Gigaton sono passati ben sette anni.

Il nuovo album è composto da dodici tracce in cui il grunge e la voce graffiante di Vedder fanno da condimento di base e che spaziano tra vari stili e sottogeneri del rock. Aprono il disco due pezzi dal suono classico quali Who Ever Said e Superblood Wolfmoon e già subito dopo troviamo la prima violenta sterzata con il suono post punk di Dance on the Clairvoyants. La sperimentazione sonora dei Pearl Jam in questo nuovo disco arricchisce il disco di sonorità molto diverse, con il melodico midtempo di Seven O’Clock e grazie anche alle ballad Buckle Up e Retrograde. Oltre a queste troviamo anche la ballad acustica Comes Then Goes, interpretata con solo voce e chitarre, e la straordinaria traccia di chiusura River Cross che scivola verso il gospel grazie ai cori sul ritornello.

Come è chiaro dall’immagine di copertina, che mostra un ghiacciaio che si scioglie, le tematiche del disco toccano varie volte i cambiamenti climatici con anche una critica al presidente americano Donald Trump, citato per nome in Quick Escape e attraverso il riferimento letterario di Bob Honey (personaggio di un romanzo satirico di Sean Penn) in Never Destination che è anche il brano dal sound più vicino al grunge puro di tutto il disco.

In conclusione, anche se Gigaton di certo non contiene singoli della potenza di Alive, Daughter o Just Breathe resta comunque un disco fortissimo in termini di qualità complessiva dei brani, perché tutte le dodici tracce sono di alto livello e confermano che proprio grazie alla loro capacità di essere dei rocker a 360 gradi, e non legati a una singola etichetta, i Pearl Jam sanno ancora realizzare ottima musica, in un decennio in cui purtroppo il grunge della West Coast è solo un lontano ricordo.

martedì 22 settembre 2020

Intervista ad Alessia Scolletti dei Temperance

Da tre anni Alessia Scolletti è la voce femminile dei Temperance, uno dei gruppi più importanti e interessanti del panorama metal del nostro paese. Dallo scorso anno, inoltre, Alessia è impegnata nel progetto musicale new age degli ERA, guidato dal francese Éric Levi. Per parlarci di questi due gruppi e anche un po' di sé stessa, Alessia ha accettato la nostra proposta di un'intervista che offriamo di seguito ai nostri lettori.

Ringraziamo Alessia per la sua cortesia e disponibilità.





125esima Strada: Ciao Alessia, e grazie del tempo che ci stai dedicando. Partiamo subito parlando del vostro nuovo lavoro Viridian, ci racconti come è nato questo disco?

Alessia Scolletti: Ciao, grazie a te per l'invito, è un piacere fare quattro chiacchiere con te.

Il nostro quinto album Viridian ha semplicemente raccolto il testimone passatogli dall'album precedente, Of Jupiter and Moons, e ha proseguito la staffetta: è l'immagine migliore per descrivere ciò che realmente è avvenuto nei quasi due anni che hanno separato i due lavori. La cura del dettaglio, la mescolanza di generi e influenze, la ricerca di un sound più naturale e il dare maggiore spazio a strumenti veri sono tutti elementi presenti in Of Jupiter and Moons che in Viridian sono stati ripresi e approfonditi, grazie anche all'aver avuto più tempo per lavorare insieme. Siamo molto fieri di questo album, l'unico rammarico è appunto non essere riusciti a promuoverlo come avrebbe meritato per via delle restrizioni del Coronavirus, fatto che ha penalizzato la maggior parte degli artisti e delle band che come noi si trovavano in tour nel periodo febbraio-marzo.


125esima Strada: C'è qualche pezzo dell'album a cui sei più legata? Se sì, ci spieghi perché?

Alessia Scolleti: Non ho mai nascosto quanto Nanook, il nono brano di Viridian, mi abbia saputo conquistare fin dal primo istante, quando ancora non era nient'altro che una bozza: la sua cavalcata in terzine, il meraviglioso connubio creato dall'unione del suono dell'arpa con quello della cornamusa, il climax che si protrae per tutta la durata della canzone... Tutti elementi che mi hanno fatto letteralmente innamorare di questo brano. Il coro di voci bianche nel punto centrale della canzone ha poi dato quel tocco di magia in più che l'ha resa ancora più speciale: è difficile non emozionarsi!



125esima Strada: Ciò che a me è piaciuto molto del disco è l'esperimento del crossover, con il coro dei bambini, il coro gospel e la partecipazione di Laura Macrì. Ci racconti come è nata l'idea di queste contaminazioni sonore?

Alessia Scolletti: Siamo una band di cinque elementi, ognuno con gusti e background musicali differenti... Le contaminazioni sono inevitabili! Ed è bello come riusciamo a mettere un po’ della personalità di ognuno di noi all'interno dei brani. Ci piace continuamente rinnovarci e metterci alla prova, stupire e sperimentare: si può dire che è diventato ormai un nostro marchio di fabbrica!


125esima Strada: Mi è sembrato che il disco sia anche molto influenzato dall'AOR degli anni ottanta. È stata una vostra scelta precisa? Siete molto appassionati di questo genere?

Alessia Scolletti: Ok, mi sa che ci hai “beccati”: in particolar modo io e Marco siamo molto legati a questo genere, per cui ogni tanto torna a fare capolino tra un brano e l’altro! Sarai d’accordo con me poi che con tre cantanti si possono creare un sacco di melodie intrecciate in più che tanto si sposano con il melodic rock!

Il tutto comunque avviene in maniera spontanea e naturale, non si parte mai con l’idea di dare vita a tavolino ad un brano esclusivamente AOR, metal o altro: si portano in studio le idee, si ascoltano, si rimodellano, aggiustano e assemblano e pian piano il brano prende forma.


125esima Strada: Da qualche tempo sei entrata anche negli ERA, lo stupendo progetto New Age di Eric Lévi. Come sei entrata a far parte di questo gruppo e che posto occupa la New Age nella tua vita artistica?

Alessia Scolletti: Essere entrata a far parte del progetto ERA è una delle cose più incredibili che mi sia successa negli ultimi tempi, ed il come è avvenuto è decisamente ancora più incredibile: di fatto sono stata contattata da Éric Levi in persona in seguito all’aver visto alcuni miei video sia coi Temperance che in versione solista! Ha fin da subito espresso il suo totale apprezzamento per la figura mia e di Michele [Guaitoli, voce maschile dei Temperance e compagno di Alessia nella vita, N.d.R.] e ci ha proposto di iniziare una collaborazione con lui, la quale avrebbe poi portato ad esibirci sul palco con lui per la sua prima tournée ufficiale dopo ben 25 anni di attività! Inutile dire che solo l’idea ci fece salire l’entusiasmo alle stelle!

Il vero e proprio battesimo con il genere New Age però l’ho avuto con Enigma, progetto tedesco quasi contemporaneo a ERA, il quale ha condito tanti dei miei pomeriggi da studente!



125esima Strada: Passiamo a temi più personali. Durante il lockdown tu e Michele avete lanciato l'idea delle Quarantine Songs, cioè avete registrato delle cover di altri generi musicali, per mantenere i contatti con il vostro pubblico e tra le altre avete inciso un'inedita versione di Something Stupid. Questo mi porta a chiederti: oltre al metal quali generi musicali amate e ascoltate?

Alessia Scolletti: In quel momento sia io che Michele eravamo reduci da due tournée diverse entrambe interrotte: siamo rientrati in Italia con non poca fatica e ad aspettarci c’era una situazione tutt'altro che rassicurante... Lo sconforto era tanto, non lo nascondo. Le “Quarantine Songs” sono sì stato un mezzo per restare in contatto con amici e sostenitori, ma anche un modo per infondere a noi stessi un po’ di svago e positività in un periodo davvero difficile: avremmo voluto registrarne di più! Ma scegliere era difficile.

I generi che ci influenzano, come hai già intuito da te, non si limitano al metal e al rock: personalmente mi sono sempre sentita molto legata a tutto ciò che è nato dagli anni 80 (in particolar modo new wave/post-punk e dance) e, in modo del tutto insospettabile, seguo anche molti artisti dell’odierna scena pop internazionale (da Lady Gaga a Billie Eilish, passando per Bruno Mars, One Republic, Coldplay e molti altri). In qualcosa sicuramente avrò influenzato anche Michele, ma posso svelare ad esempio che tra i suoi gruppi preferiti “non-metal” ci sono i Muse!


125esima Strada: Chi sono i cantanti e le cantanti che ti hanno più influenzato durante la tua carriera?

Alessia Scolletti: Il rock, e in particolar modo hard-rock e AOR, hanno fortemente influito sul mio modo di cantare, per cui nomi come Steve Lee (Gotthard), David Coverdale (Whitesnake), Joey Tempest (Europe), Fergie Frederiksen (Toto), Steve Overland (FM) e altri di quel filone mi hanno sempre accompagnata nel mio percorso di crescita.

Sembrerà strano, ma non ci sono state voci femminili ad aver colpito nel profondo l’Alessia che stava muovendo i primi passi nel mondo della musica!


125esima Strada: E chi sono invece i tuoi preferiti della scena attuale?

Alessia Scolletti: Nel mondo musicale attuale si può assistere a un gran numero di sfumature di colori, timbri e stili, è una cosa bellissima per chi come me ama spaziare tra i generi!

Restando nel metal, voci come quella di Russell Allen, Daniel Gildenlöw (Pain of Salvation), Mikael Åkerfeldt (Opeth), Devin Townsend - solo per citarne alcuni - restano inarrivabili: dopo tanto tempo ho anche trovato delle voci femminili che hanno saputo colpirmi nel profondo, Floor Jansen e Kobra Paige (Kobra and The Lotus) su tutte.

Al di fuori del metal invece, voci di artisti come Jessie J , Sam Smith, Bruno Mars, Lady Gaga, Fever Ray, Chris Cornell (RIP), Mike Patton e tanti altri.

venerdì 4 settembre 2020

An American Prayer: l'ultimo album dei Doors

Sette anni dopo la morte di Jim Morrison, e dopo due album in cui alla voce di alternavano Robby Krieger e Ray Manzarek, i Doors pubblicarono il loro ultimo album intitolato An American Prayer in cui alla voce tornò proprio Morrison: il disco è stato infatti realizzato aggiungendo delle basi musicali alla voce di Jim che legge le proprie poesie. Come si può chiaramente immaginare in queste incisioni Jim Morrison non canta, ma parla, o meglio recita i propri testi; non troveremo quindi la voce grintosa e graffiante di Break On Through ma un disco unico nel suo genere, a tratti forzato ma comunque interessante.


Dal punto di vista canoro l’album è sicuramente singolare, ma da quello musicale questa composizione non ha nulla da invidiare agli album precedenti della band. Le basi musicali che i Krieger, Manzarek e Densmore hanno composto per questo atipico album costituiscono infatti una sorta di compendio degli stilemi classici dei Doors, passando dal rock psichedelico, al jazz ai suoni latini e al blues, con anche alcuni rimandi chiari a loro pezzi storici come Riders on the Storm e The End. Il risultato complessivo è una sorta di talking blues in cui le uniche parti effettivamente cantante sono uno snippet di Peace Frog e una versione live composita di Roadhouse Blues che unisce una registrazione a New York con una a Detroit del 1970.

An American Prayer non è sicuramente il disco migliore dei Doors, ma resta un album importante che mostra la straordinaria creatività della band che è riuscita a realizzare un disco di buon livello in condizioni molto particolari. Questo album è notevolmente diverso dai precedenti e richiede un’atmosfera d’ascolto altrettanto diversa: non sono pezzi fatti per essere ascoltati nelle folle di un concerto, ma piuttosto in un momento di raccoglimento e isolamento. Fatte queste premesse e approcciato con le giuste aspettative, An American Prayer si rivela un disco prezioso, per conoscere aspetti meno noti dello straripante Jim Morrison e per avere un’altra prova della ricchezza musicale di questa iconica band.

giovedì 20 agosto 2020

Omicidio di Jam Master Jay: arrestati due uomini a New York



A diciotto anni dall'omicidio di Jam Master Jay, DJ e polistrumentista dei Run-DMC, due uomini sono stati arrestati a New York lo scorso 17 agosto. Il procuratore dei distretto Est di New York ha infatti depositato un'accusa contro Karl Jordan Jr, di 36 anni, e Ronald Washington, di 56.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i due uomini insieme a Jason Mizell (vero nome di Jam Master Jay) avevano acquistato una partita di dieci chili di cocaina da un fornitore del Midwest e avrebbero dovuto venderla nel Maryland; poco prima dell'omicidio Mizell avrebbe comunicato a Washington che intendeva escluderli dalla vendita tenendosi così il completo incasso. Vedendosi tagliati fuori dall'affare, i due avrebbero cospirato per uccidere Mizell.

In caso di condanna Jordan e Washington rischiano dai vent'anni di galera alla pena capitale.

Il giorno seguente all'arresto la famiglia di Mizell ha pubblicato una dichiarazione sull'account Twitter dei Run DMC in cui dice che questo arresto è un passo importante verso la giustizia e chiede il rispetto della propria privacy durante l'iter legale.

sabato 8 agosto 2020

I venticinque anni di HIStory di Michael Jackson

Quattro anni nell'industria discografica dell'ultimo decennio dello scorso secolo erano un'eternità. Non c'erano i social network e non c'era YouTube e l'unico modo per un artista per tenere viva la propria immagine era sfornare dischi e farli seguire da dei tour, che comunque raggiungevano solo chi ci poteva andare di persona per il suddetto motivo. L'avvento del CD aveva fatto sì che i musicisti si trovassero a dover incidere dischi di almeno sessanta minuti se non settanta o oltre, contro i quarantacinque o cinquanta del vinile, dilatando così le uscite discografiche negli anni. Ma quattro anni restavano tantissimi. Ed è proprio questo il lasso temporale trascorso da Dangerous del 1991 a HIStory del 1995. A prima vista può sembrare che MJ fosse solito lasciare passare così tanto tempo tra un disco e l'altro, perché tra Thriller e Bad erano passati cinque anni e tra Bad e Dangerous quattro; ma in realtà a spezzare l'attesa nel primo caso arrivarono Victory dei Jacksons e We Are The World, nel secondo caso il film Moonwalker. Invece tra la fine del Dangerous Tour e HIStory non ci fu proprio nulla.

Nel 1995 Michael Jackson era nel pieno di una tempesta mediatica, per via delle accuse di pedofilia e del tormentato matrimonio con Lisa Marie Presley che qualcuno mormorava servisse proprio a cancellare agli occhi del pubblico le presunte accuse di devianze sessuali. Questa situazione intricata rallentò sicuramente l'attività di Jacko e quando arrivò HIStory diede proprio l'impressione di essere la sua sfida con il destino, con cui The King of Pop voleva dimostrare di essere vivo e vegeto, e di essere ancora al vertice della propria carriera.

L'uscita dell'album fu preceduta dall'uscita del video di Scream, in coppia con la sorella Janet; il pezzo ricordava un po' Jam, brano di apertura di Dangerous, ma pazienza. Alla fine era un bel pezzo che mostrava un Jackson in gran forma. Anche se internet non c'era ancora, c'era MTV Europe che trasmetteva su TELE+ (due anni prima che arrivasse MTV Italia che sancì l'inizio della fine di un glorioso network), c'era l'italianissima Videomusic e c'erano i programmi di musica sulle TV generaliste, e Scream divenne subito uno dei pezzi più trasmessi.

Per l'album, il cui titolo per intero è HIStory: Past, Present and Future, Book I, i produttori fecero una scelta che oggi appare stranissima. L'album era doppio: il primo disco era una sorta di greatest hits che attingeva da Off the Wall, Thriller, Bad e Dangerous; mentre le tracce nuove stavano sul secondo disco che era di fatto l'album nuovo. Questo comportava un problema che al tempo era piuttosto ovvio: il costo di un CD si aggirava sulle 30.000 lire, gli album doppi costavano circa 50.000, e con questa mossa MJ costringeva chiunque volesse ascoltare il disco nuovo a comprare anche le canzoni vecchie spendendo la banconota con il volto di Bernini. In realtà per quanto sembri una mossa assurda, secondo i criteri di allora lo era molto meno. Anzitutto molti fan potevano comunque non avere il materiale vecchio, perché negli anni 90 bisognava comprare il CD oppure conoscere qualcuno che lo aveva e che poteva fare una copia su cassetta, perché i masterizzatori sarebbero arrivati almeno tre anni dopo, quindi magari a molti faceva piacere acquistare insieme ai pezzi nuovi anche quelli vecchi (e uno quelli ero io). In secondo luogo era abbastanza comune al tempo che i musicisti che non avevano dischi pronti da dare alle stampe pubblicassero delle raccolte di vecchi successi con l'aggiunta di qualche pezzo nuovo per i passaggi radiofonici, e anche questa pratica costringeva all'acquisto di materiale vecchio chi voleva comprare le canzoni nuove. Lo fecero ad esempio Bryan Adams con So Far so Good o i Depeche Mode e gli U2 con le raccolte uscite in quegli anni, ma era una pratica del tutto comune.

Semmai i dubbi più grandi vennero dalla scelta dei pezzi del primo disco. Mancavano capolavori assoluti come Smooth Criminal, Dirty Diana e Will You Be There; ma quali dei pezzi presenti avrebbero potuto essere esclusi per fare spazio a questi? Nessuno. Appunto. I dischi di Michael Jackson sono ed erano raccolte di capolavori, e quindi è ovvio che non si possano inserire tutti i pezzi in una raccolta, e quindi alla fine andava bene così.


Il secondo disco confermò in parte ciò che Dangerous aveva già detto: il pop di facile presa, per quanto mai banale, targato Quincy Jones era ormai alle spalle in favore di suoni più complessi e vari e di tematiche sociali particolarmente attuali come l'inquinamento, la solitudine e l'ineguaglianza sociale. Il disco spazia infatti dal rock all'hard rock, al rap, al funk e al soul e per fare questo MJ si avvalse della collaborazione della sorella Janet, come già detto, ma anche di Shaquille O'Neal, Notorious B.I.G. e Slash.

Beh, che dire? Se il primo dei due CD conteneva capolavori del passato, il secondo conteneva i capolavori nuovi, quelli che avrebbero raggiunto i primi nell'empireo. Ciò che è rimasto poco chiaro è perché il titolo contenga le parole Book I, perché il secondo volume non si è mai visto. Due anni dopo MJ tornò con Blood on the Dance Floor: HIStory in the Mix, un altro album stellare sulla falsariga di questo, ma il Book II non è mai arrivato.

HIStory si rivelò comunque un grande successo e di pezzi che riempirono l'airplay ce ne furono molti, da They Don't Care About Us a Stranger in Moscow fino a You Are Not Alone scritta da R. Kelly, un altro artista travolto da scandali che nel 2001 scrisse anche Cry per Michael Jackson incisa nell'album Invincible. La copertina di HIStory mostrava una statua di MJ di tre metri che lo ritraeva in posa da guerriero. Il significato era chiaro: quella che MJ stava combattendo era la sua guerra personale per tornare in vetta. E con questo album la sua guerra la vinse alla grande e dopo quattro anni di assenza The King of Pop era tornato. Più forte che mai.

martedì 4 agosto 2020

Temperance - Viridian

Con il nuovo Viridian, uscito a gennaio di quest’anno, i Temperance sono giunti al loro quinto album in studio e al secondo con la nuova formazione che vede Michele Guaitoli e Alessia Scolletti alle voci, dopo Of Jupiter and Moons del 2018. In questo nuovo lavoro la band continua sulla strada tracciata dal precedente, realizzando un disco di ottimo metal melodico, intriso di AOR di stampo ottantiano, che basa la propria forza sulla positività della musica espressa e sulle ottime doti vocali dei due interpreti.

Il disco è composto da undici pezzi e parte fortissimo con la travolgente Mission Impossible chiaramente ispirata all'omonima serie cinematografica, ma l’offerta musicale non si ferma ai pezzi energici, infatti il disco vira subito verso l’AOR con pezzi melodici come I Am the Fire e Start Another Round. Atmosfere ottantiane si trovano anche in Let it Beat e nella title track Viridian che sono anche i due brani in cui Michele e Alessia tirano fuori il meglio delle proprie doti vocali, con Alessia in particolare che regala una performance magistrale nel controcanto sul ritornello finale di Viridian.

Come anticipato le atmosfere del disco sono molto varie e oltre ai pezzi energici e a una buona dose di AOR troviamo la power ballad Scent of Dye e un paio di esperimenti di crossover con The Cult of Misery, che contiene vocalizzi lirici di Laura Macrì, e Nanook impreziosita dalla presenza del coro dei bambini della scuola Sant'Angela Merici.

Chiudono il disco la speranzosa Gaia, in cui l’uomo si rivolge alla Terra su cui abita tra una richiesta di scuse e la speranza di poter cambiare il mondo per il meglio, e Catch the Dream, retta solo da un battito di mani come accompagnamento e che vede la presenza del coro gospel NuVoices Project, che inneggia all'unione dell’umanità e al superamento delle divisioni. La versione digitale del disco include Lost in the Christmas Dream, che come suggerisce il titolo stesso è un canto natalizio in stile AOR dai toni positivi e che invita a non perdere mai la speranza.

Giunti alla fine dell’ascolto ci si accorge che Viridian non contiene neanche un filler e costituisce un ottimo album di metal melodico ricco di commistioni e suggestioni diverse in cui la band dà anche una lezione tanto ovvia quanto di successo: se si ha in squadra il Dream Team del canto italiano realizzare un album di questo livello è quasi facile e naturale.

sabato 25 luglio 2020

Perché Take the "A" Train di Duke Ellington si intitola così?

Take The "A" Train è uno dei brani musicali più famosi di ogni epoca, che travalica i confini di generi ed epoche tanto che la sua melodia è nota a chiunque, anche a chi non ne conosce il titolo e non ne sa individuare lo stile.

Il brano nacque nel 1940, quando il celeberrimo jazzista Duke Ellington si trovò nella necessità di trovare un pezzo nuovo da usare come sigla di apertura delle proprie esibizioni radiofoniche dal vivo, dopo che l'ASCAP (American Society of Composers, Authors and Publishers, a cui era iscritto) aumentò le tariffe per le esecuzioni alla radio dei propri pezzi. Ellington allora chiese al figlio ventunenne Mercer e al compositore Billy Strayhorn, che erano iscritti alla BMI (Broadcast Music Incorporated) anziché all'ASCAP, di scrivere un brano apposito. Fino ad allora, infatti, Duke Ellington con la propria orchestra usava come sigla Sepia Panorama scritta proprio da lui, il cui costo di esecuzione sarebbe diventato proibitivo.


Mercer Ellington trovò allora fortuitamente in un cestino dei rifiuti un pezzo che Strayhorn aveva scritto ma che intendeva scartare, perché gli ricordava troppo gli arrangiamenti del celebre pianista Flectcher Henderson: il pezzo si intitolava Take the "A" Train e da allora divenne la nuova sigla e il pezzo più noto e distintivo di Duke Ellington che lo incise per la prima volta in studio nel 1941.

Sull'origine del titolo del brano circolano numerose leggende, e siccome la sua composizione risale agli anni quaranta è difficile districarsi su quale sia la versione corretta. Lo scrittore e storico musicale Stanley Dance lo chiese direttamente a Billy Strayhorn nel 1966 e l'intervista è pubblicata nel volume The World of Duke Ellington del 1970.

La spiegazione data da Strayhorn è che nel periodo in cui scrisse in brano la città di New York stava potenziando la propria rete metropolitana e tra le nuove linee che venivano aggiunte c'erano la "A" e la "D", entrambe le quali collegavano il quartiere Bedford-Stuyvesant di Brooklyn con Harlem a Manhattan, mettendo così in collegamento le due zone abitate prevalentemente da afroamericani. La linea "D" arrivava sulla 145esima Strada ad Harlem e proseguiva poi verso nord fino al Bronx; al contrario la linea "A" andava direttamente nel distretto di Sugar Hill, dove c'erano i migliori locali in cui veniva suonata musica jazz dal vivo.

Strayhorn era quindi solito dare indicazioni alle persone di Brooklyn dicendo "Take the A train, take the A train!" per evitare che sbagliando prendessero la "D" e finissero lontano dalla propria destinazione; prendendo spunto da questa frase decise quindi di intitolare così il proprio nuovo brano.

Furono quindi casuali sia il ritrovamento della composizione sia la scelta del titolo, ma entrambi garantirono al pezzo un successo immortale.

venerdì 10 luglio 2020

Le colonne sonore della serie cinematografica de Il Corvo

Tratto dall'omonimo graphic novel da James O'Barr, Il Corvo fu uno dei maggiori successi cinematografici del 1994, la cui fama è anche purtroppo legata alla prematura scomparsa dell'attore protagonista Brandon Lee colpito per sbaglio da un frammento di proiettile rimasto incastrato in modo completamente fortuito in un'arma caricata a salve. Il film narra la storia di Eric Draven (il cui cognome suona molto simile a The Raven, che significa proprio il corvo ed è anche il titolo di una poesia di Edgar Allan Poe a cui è ispirata l'opera di O'Barr) che torna sulla terra ad un anno dalla sua morte per vendicarsi della gang che ha ucciso lui e la sua fidanzata durante la notte di Halloween di un anno prima. La vicenda di svolge in un'onirica Detroit cupa e tormentata dal crimine, in cui la pioggia rappresenta il tentativo della società di lavare via i propri errori, e il cui cielo è sempre nero o rosso.


Come era consueto negli anni 90, il film è stato accompagnato dall'uscita della colonna sonora in due dischi distinti: la prima di pezzi cantanti e la seconda di brani strumentali. La prima di queste si intitola The Crow: Original Motion Picture Soundtrack e contiene quattordici canzoni di alcuni tra i migliori interpreti dell'industrial rock e dell'alternative rock dell'epoca. I brani sono tutti molto cupi e ricalcano  le atmosfere dei film. Tra i pezzi principali troviamo Burn dei Cure, che apre il disco e che nel film ha il ruolo iconico di fare da sottofondo alla scena in cui Eric torna dai morti, la cover di Dead Souls dei Joy Division interpretata dai Nine Inch Nails, Snakedriver dei Jesus and the Mary Chain e Darkness dei Rage Against the Machine (che sul singolo di Killing in the Name Of come b-side è intitolata Darkness of Greed) in cui il gruppo rinuncia alle proprie sonorità aggressive per spostarsi su terreni più oscuri. Nell'album sono presenti altre due cover: Ghostrider dei Suicide, qui interpretata dai Rolling Band, e The Badge dei Poison Idea interpretata dai Pantera. Nel disco è presente anche Milktoast degli Helmet, il cui titolo è scritto Milquetoast nel loro album Betty dello stesso anno.


Il secondo album uscito in contemporanea al film è intitolato The Crow: Original Motion Picture Score e contiene le musiche strumentali che fanno da commento sonoro alle scene del film composte da Graeme Revell. Ovviamente le atmosfere di questo secondo album restano gotiche e oscure, e nell'album troviamo alcuni pezzi di notevole fattura, come Rain Forever impreziosita da un vocalizzo della cantante Darlene Koldenhoven, Pain and Retribution in cui troviamo un vocalizzo corale, e Inferno che nel film è interpretata alla chitarra dallo stesso Eric Draven.

Nel 1996 uscì il primo sequel Il Corvo 2 il cui titolo originale è The Crow: City of Angels, come dice il titolo stesso l'azione si sposta a Los Angeles; il protagonista è un meccanico motociclista di nome Ashe Corven che viene ucciso insieme al figlio e torna dall'oltretomba a vendicarsi dei propri assassini. Anche in questo caso la città è caratterizzata da atmosfere cupe, con il cielo verde, ma il film per quanto godibile ha il sapore di copia del precedente. Anche in questo caso del film sono state pubblicate due colonne sonore.


Il primo dei due dischi è intitolato The Crow: City Of Angels (Original Motion Picture Soundtrack) e ricalca l'esperimento fatto con il film precedente, anche se in questo caso le sonorità si spostano più verso l'industrial e verso l'hard rock. Nel disco troviamo una cover di Gold Dust Woman dei Fleetwood Mac interpretata dagli Hole, una cover di I'm Your Boogie Man di KC and the Sunshine Band dei White Zombie (del resto a cavallo dell'anno 2000 Rob Zombie fece più partecipazioni a colonne sonore che album in studio), entrambi i quali trasformano i brani originali, che non avevano nulla di oscuro, in pezzi energici con prominenti chitarre distorte. Nel disco troviamo un'altra cover dei Joy Division: in questo caso si tratta di In a Lonely Place interpretata dai Bush. L'album contiene anche una versione live di I Wanna be Your Dog degli Stooges interpretata dal solo Iggy Pop, l'unica spiegazione per la presenza di questo pezzo nell'album è che Iggy Pop interpreta uno degli assassini del protagonista nel film, perché per il resto non ha legami con il film. Questo album, rispetto alla colonna sonora del disco precedente, ha comunque il merito di ampliare la proposta stilistica, grazie a contributi di PJ Harvey, Linda Perry e Tricky con i Gravediggaz.

Anche in questo caso insieme alla soundtrack è stata pubblicato il disco dei pezzi strumentali, intitolato The Crow - City Of Angels (Original Score Album) che contiene le musiche composte di nuovo da Grame Revell.

Il terzo film della serie intitolato The Crow: Salvation uscì nel 2000 e questa volta gli autori cercarono di allontanarsi dalla atmosfere originali; il film è ambientato a Salt Lake City e l'ambientazione è meno sinistra rispetto ai primi due capitoli. Anche il protagonista cambia aspetto, perché il nuovo Corvo, che si chiama Alex Corvis, non ha più i capelli lunghi e una tuta aderente, ma indossa una tuta da meccanico e in alcune scene anche un cappotto. Inoltre la trama presenta notevoli deviazioni rispetto ai modelli precedenti, i cattivi non sono più gangster ma membri corrotti delle forze dell'ordine. Anche in occasione del terzo film furono pubblicati due dischi. La soundtrack con i pezzi cantati si intitola The Crow: Salvation (Original Motion Picture Soundtrack) e di nuovo vi troviamo una compilation di industrial rock. Tra gli interpreti troviamo nuovamente gli Hole, Rob Zombie e Tricky la cui Antihistamine contiene snippet di Heart of Glass dei Blondie. Nell'album spicca anche Warm Winter di Kid Rock che si cimenta con un pezzo cupo lontanissimo dal rock country e dal crossover che caratterizzano la sua produzione consueta. Il secondo album pubblicato per il terzo film si intitola The Crow: Salvation (Original Motion Picture Score) e contiene le musiche strumentali composte da Marco Beltrami.


Il quarto film della serie uscì nel 2005, il titolo originale è The Crow: Wicked Prayer ma inizialmente i distributori italiano lo distribuirono come The Cult togliendo dal titolo ogni riferimento ai film pregressi; solo in seguito è stato distribuito con il titolo originale. In questo caso le atmosfere cambiano ancora con un ambientazione desertica al confine tra Stati Uniti e Messico. Di nuovo il nome del protagonista contiene un richiamo alla parola corvo, si chiama infatti Jimmy Cuervo. Ma nel 2005 la notorietà della serie era calata e non fu pubblicata nessuna colonna sonora.

In realtà de Il Corvo esiste un quinto film intitolato The Crow: Resurrection, tradotto il italiano come Il Corvo: La Resurrezione del 1998 (cioè realizzato tra il secondo e il terzo film della serie) che è un remake del primo capitolo, con Mark Dacascos nel ruolo di Erick Draven, ed è l'episodio pilota del telefilm The Crow: Stairway to Heaven trasmesso in Italia nel 2003 semplicemente come Il Corvo. Ovviamente anche di quest'ultimo non esiste nessuna colonna sonora.

Negli anni si è parlato varie volte di possibili remake del primo film o di un eventuale Il Corvo 5. Per ora non esiste nulla di concreto, ma non è da escludere che la serie cinematografica si possa allungare, ed insieme ad essa anche quella delle sempre ottime musiche di questo altrettanto ottimo franchise.

domenica 5 luglio 2020

Giacomo Voli - Retorbido, 4/7/2020

È il 4 luglio, il lockdown è finito da due mesi e la vita torna lentamente a essere quella di prima. A breve probabilmente il virus sarà un brutto ricordo, ma tra le cose che ancora ci mancavano c'è il ritorno della musica dal vivo. Finalmente è tornata anche quella, e quale occasione migliore per il primo concerto post-lockdown di un live acustico di Giacomo Voli al Dagda di Retorbido? Uno dei migliori cantanti al mondo fa un concerto vicino a casa, non ci sono dubbi: l'evento è imperdibile.


Il Dagda ha messo in atto le necessarie misure di sicurezza: termoscanner all'ingresso, consumazioni servite all'aperto e sedie distanziate tra il pubblico. Non danno per nulla fastidio, anzi quasi sembra tutto normale e quindi la musica è godibile al 100%.

Giacomo sale sul palco verso le 21, ma si capisce presto che quello che sta per esibirsi è in realtà un terzetto. Oltre al nostro vocalist, che suona anche la tastiera, ci sono Gianluca Molinari (che affianca Voli anche nel progetto The Voice of Rock) nel ruolo di chitarrista e la ben nota Francesca Mercury (ideatrice del progetto La Mercury racconta i Queen che vede alla voce proprio Giacomo Voli) nel ruolo inedito di intervistatrice e conduttrice.


Il concerto parte con Impressioni di Settembre e I Can't Find My Way Home, che Giacomo ha inciso come cover nel suo EP di esordio Ancora nell'Ombra. La serata ha un approccio singolare, perché Francesca tra una canzone e l'altra intervista Giacomo chiedendogli della sua vita, della sua formazione e di come è nato il suo interesse per la musica. Giacomo ci racconta quindi che il suo amore per la musica è nato da bambino grazie al nonno materno cornista e di come poi abbia scoperto l'opera, il rock melodico e il metal e di come da sempre cerchi di coniugare questi aspetti mischiando sapientemente ingredienti di musica di stili diversi. Spesso, quando Giacomo nomina un pezzo, Gianluca ne esegue il riff in sottofondo, rendendo il racconto ancora più vivido e vibrante.

Forse la serata non era partita con i migliori auspici, perché Giacomo racconta anche di essere infortunato a causa di un incidente stradale, ma se non lo avesse detto non se ne sarebbe accorto nessuno (se non fosse per le bende alle braccia) perché suona e canta come se fosse in gran forma e la precisione al piano e la potenza della voce sono sicuramente al pieno delle loro capacità; segno che neanche gli imprevisti possono fermare i migliori artisti.

La setlist della serata spazia tra il rock degli anni 70, agli anni 80 fino ai 90 pescando da un repertorio vastissimo che tocca i Led Zeppelin e i Deep Purple, l'AOR di Eye on the Tiger dei Survivor per poi passare ai Queen e ai Pink Floyd. E tra un pezzo e l'altro Giacomo narra alcuni aspetti meno noti della sua carriera: come qualche scelta bizzarra degli autori di The Voice of Italy nella selezione dei pezzi o di come sia stato contattato da Alex Staropoli per un progetto parallelo di musica barocca, per poi approdare ai Rhapsody of Fire dopo l'abbandono di Fabio Lione. Dalla discografia dei Rhapsody ci regala una versione da brividi in italiano di The Wind, the Rain and the Moon, e dalla propria produzione solista Giacomo pesca anche uno snippet della traccia di chiusura del suo ultimo album intitolata Il Libro dell'Assenza


Il tempo nella sala letteralmente vola via, e quando Francesca annuncia che siamo giunti all'ultimo pezzo mi sembra incredibile, però effettivamente l'orologio dice che è mezzanotte. Nel caldo di questa serata che ha il sapore di una rinascita Giacomo si ferma a scambiare qualche parola con i fan mostrando una vicinanza al proprio pubblico che poche star del suo livello hanno.

La serata è giunta al termine, ma tornando verso casa non si sente la sensazione che qualcosa sia finito, ma che questa sia una ripartenza perché di serate come questa ne seguiranno decine e forse centinaia. E quello che ha reso unica questa serata non è stata solo la musica e la voce di Giacomo Voli, ma anche il fatto che un grande artista abbia raccontato il proprio lato umano. Perché per sapere cantare così bisogna essere grandi cantanti, ma per sapere raccontare cosa c'è dietro e dentro bisogna essere grandi e basta.

martedì 23 giugno 2020

Imperial Age - The Legacy of Atlantis

The Legacy of Atlantis
del 2018 è il secondo album dei moscoviti Imperial Age, uscito sei anni dopo il precedente Turn the Sun Off! e a due anni di distanza dall’EP Warrior Race. L’album è composto da nove tracce che costituiscono una vera e propria metal opera che narra, attraverso il racconto di vari personaggi, di un mago proveniente dall’antica e avanzatissima società di Atlantide che rinasce nell’Europa medievale.

Anche in questo disco, come nei precedenti, la musica degli Imperial Age è contraddistinta da sonorità maestose e magniloquenti e la forza di questo gruppo sono le voci dei tre vocalist, tutti con impostazione operistica: il tenore Alexander “Aor” Osipov, il soprano Anna “Kiara” Moiseeva e il mezzo-soprano Jane “Corn” Odintsova (che nei dischi precedenti suonava anche le tastiere). Nel disco il gruppo si avvale anche del coro del Conservatorio Statale di Mosca Pëtr Il'ič Čajkovskij che conferisce uno stile operistico all’album. Il risultato di questa commistione sonora è un symphonic metal di ottimo impatto sonoro, che colpisce già al primo ascolto e che non ha bisogno di molti passaggi prima di essere apprezzato.

Trattandosi di una metal opera è difficile individuare pezzi migliori di altri, perché il suono del disco è monolitico e non si presta a essere diviso. In ogni caso la title track spicca sicuramente sia dal punto di vista musicale sia da quello canoro, con i tre vocalist e il coro che regalano la loro prova migliore. Degni di nota sono anche Domini Canes, che in un ponte contiene un estratto del Credo di Nicea, e The Escape, che presenta sonorità un po’ diverse, più leggere ed elettroniche.

The Legacy of Atlantis è in sintesi un capolavoro del symphonic metal, che mette in campo tre voci straordinarie in una mescolanza di musica classica, lirica e metal che creano una sintesi perfetta di cose apparentemente diverse. Il disco in sé è ottimo dall'inizio alla fine ed è un'ottima scoperta per chi non conosce questo singolare sestetto, e conferma anche che giunti alla loro terza prova in studio gli Imperial Age sono una delle migliori e più interessanti realtà del panorama del symphonic metal mondiale.

mercoledì 10 giugno 2020

Chi sono i primi iscritti al Club 27?

Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Kurt Cobain hanno una caratteristica in comune, oltre all’essere musicisti fondamentali della storia recente: sono morti a 27 anni. La lista di cantanti o strumentisti deceduti a tale età è talmente lunga che è stato coniato appositamente un termine per definirla, sono infatti noti come il Club 27 e questo atipico circolo contiene molti altri celeberrimi nomi come Brian Jones, Amy Winehouse e Kristen Pfaff.


Di norma si ritiene che il primo iscritto al Club 27 sia il leggendario chitarrista blues Robert Johnson, la cui vita è avvolta nel mistero sotto molti aspetti, ma in realtà prima di lui altri due musicisti morirono a 27 anni.

Il primo di loro è il pianista e compositore brasiliano Alexandre Levy, nato a San Paolo il 10 novembre del 1864 e morto nella stessa città il 17 gennaio del 1892. Alexandre era figlio del clarinettista francese Louis Levy, fondatore dell’azienda produttrice di pianoforti Casa Levy tuttora attiva in Brasile. Levy iniziò a studiare pianoforte a otto anni e pubblicò la sua prima opera nel 1880. Nel 1883 divenne direttore del Club Haydn, importante associazione musicale della città di San Paolo, e nel 1887 viaggiò in Europa per degli studi. Tornato in Brasile svolse anche l’attività di critico musicale scrivendo sui giornali Província de São Paulo e Correio Paulistano. La musica di Alexander Levy è caratterizzata da una forte impronta nazionalista, e mischia la musica da camera con il folk brasiliano. L’uomo morì a 27 anni nella sua città natale improvvisamente, le cause della morte sono tuttora sconosciute.

Il secondo iscritto al Club 27, dopo Levy e prima di Robert Johnson, è il pianista ragtime Louis Chauvin, nato a Saint Louis, nel Missouri, il 13 marzo del 1881; il padre era di origine mista messicana e indiana, mentre la madre era afroamericana. Nella sua vita ha pubblicato solo tre composizioni: The Moon is Shining in the Skies nel 1903, Babe, It’s Too Long Off nel 1906 e Heliotrope Bouquet nel 1907 insieme a Scott Joplin, autore del celeberrimo The Entertainer, utilizzata nel 1973 nella colonna sonora del film La Stangata. Chauvin morì a Chicago il 26 marzo del 1908. Secondo il certificato di morte sarebbe deceduto per sclerosi multipla, probabilmente sifilitica; tuttavia secondo quanto riportato nel volume Jazz and Death: Medical Profiles of Jazz Greats di Frederick Spencer oggi la causa della morte verrebbe identificata in sclerosi neurosifilitica, senza legami alla sclerosi multipla.

Dal 1908 ad oggi la lista degli iscritti al Club 27 conta innumerevoli musicisti, morti troppo presto. Al momento il più recente è il rapper Fredo Santana, scomparso nel gennaio del 2018 per problemi cardiaci. Ovviamente ogni membro del Club 27 è una drammatica morte prematura e non resta da augurarsi che la lista non si allunghi mai più.

martedì 2 giugno 2020

Stevie Wonder - Songs in the Key of Life

Il doppio album Songs in the Key of Life del 1976 occupa un posto di rilievo nella lunga discografia di Stevie Wonder, in quanto rappresenta il culmine del periodo classico delle sue produzioni; molto prima del successo commerciale di album come Hotter than July o The Woman in Red.

In Songs in the Key of Life il musicista di Detroit esplora tutti i generi della black music, passando dal soul, al funk, al gospel e al jazz, dimostrando di saperli interpretare tutti con grande maestria. Il disco contiene alcuni dei suoi più grandi capolavori, come Isn't She Lovely?, dedicata alla figlia Aisha, Love's in Need of Love Today, I Wish e Sir Duke. Oltre a questi pezzi più classici e noti, Wonder si lancia in una sperimentazione musicale in cui mischia sonorità elettroniche con la black music con l'aggiunta di strumenti etnici ispirati alla musica africana in pezzi come Black Man e Ngicuela -Es Una Historia - I Am Singing, la cui prima strofa è in zulu, la seconda in spagnolo e la terza in inglese.

Oltre ai testi spensierati che parlano di amore e famiglia, il disco contiene alcune tracce di denuncia sociale che parlano delle condizioni di vita degli afroamericani nelle metropoli, come la già citata Black Man e Village Ghetto Land. Inoltre, anche la pur gioiosa I Wish contiene un testo che parla di povertà e scarsità di mezzi economici.

Ciò che stupisce maggiormente di questo album è come le sonorità che Stevie Wonder riusciva a realizzare nel 1976 fossero decenni avanti rispetto alla musica mainstream del periodo; infatti di moltissimi pezzi di questo album sono state realizzate cover che hanno lasciato la musica originale pressoché inalterata e molti altri sono stati utilizzati come campioni per pezzi hip-hop degli anni successivi. Nel 1990 gli A Tribe Called Quest usarono un campione di Sir Duke nella loro Footprints e cinque anni dopo Coolio realizzò la celeberrima Gangsta's Paradise con un campione di Pastime Paradise, tratta proprio da questo album. Inoltre nell'estate del 1999 ben due canzoni di questo album furono portate in classifica da altrettanti artisti di livello internazionale: Will Smith utilizzò I Wish per la sua Wild Wild West e George Michael realizzò una cover di As insieme a Mary J. Blige.

Il motivo per cui Wonder ha pubblicato questo album come doppio è fin troppo ovvio: non bastava un disco solo per contenere tutta la creatività di questo straordinario musicista. Del resto alcuni outtakes sono stati pubblicati su un EP a parte intitolato Something Extra, le cui quattro tracce attualmente sono stampate su tutte le edizioni in CD.

Songs in the Key of Life è in sintesi un capolavoro, non del soul ma della musica di ogni genere, Ma è solo una delle stelle della fantastica galassia costituita dalla discografia di Stevie Wonder.