domenica 25 febbraio 2018

Visions of Atlantis - The Deep & The Dark

A due anni di distanza dall'EP Old Routes - New Waters tornano gli austriaci Visions of Atlantis con il primo album in studio realizzato con i due nuovi cantanti Siegfried Samer e Clémentine Delauney. Il nuovo album si intitola The Deep & The Dark ed è composto da dieci tracce che ripropongono la formula classica dei Visions of Atlantis con un symphonic metal melodico e ricco di venature di AOR ottantiano basato su un sapiente accostamento tra la forza delle chitarre e il suono morbido delle tastiere a cui si uniscono le voci dei due vocalist, con il canto di Siegfried in tipico stile power metal e Clémentine a fare da vero punto di forza di questo insieme.

L'album si apre con la potente title track cantata interamente dalla soprano francese che dà subito prova della potenza ed estensione della sua voce. Tra i brani più energici troviamo anche Ritual Night in cui di nuovo Clémentine sfoggia il meglio della sua forza vocale, Dead Reckoning e Words of War che è la traccia del disco in cui i rimandi agli anni 80 sono più netti. Restando sui brani forti spiccano anche The Silent Mutiny che è il pezzo più duro del disco il cui le chitarre prendono il sopravvento sulle tastiere e Book of Nature che presenta sonorità mediorientali che tendono verso l'oriental metal, genere nel quale Clémentine si era già cimentata partecipando come ospite all'album Tales of the Sand dei tunisini Myrath.

Il disco contiene anche tre pezzi più melodici. Il primo di essi è l'epica Return to Lemuria che riprende in parte la melodia di Lemuria dall'album Cast Away del 2004 quando i vocalist del gruppo erano Mario Plank e la compianta Nicole Bogner. Tra i brani più melodici troviamo anche The Grand Illusion che è uno dei pezzi migliori dell'album anche perché Clémentine fa un uso più esteso del canto lirico che è quasi assente nel resto dell'album e oltre che in questo brano compare solo nei ritornelli di Return to Lemuria e Dead Reckoning. Nel disco sono presenti anche due ballad: The Last Home, cantata dalla sola Clémentine e realizzata con voce e tastiera fino all'ultimo ritornello in cui si aggiunge il resto della strumentazione, e Prayer to the Lost, anch'essa cantata solo dalla soprano.


Con The Deep & The Dark i Visions of Atlantis realizzano un altro ottimo album, il sesto della loro carriera, che prosegue degnamente la scia dei precedenti e che dà una lezione tanto importante quanto semplice: se si ha nel gruppo un talento naturale come quello di Clémentine Delauney diventa tutto facile e il disco che ne risulta non può che essere di ottima qualità. Il gruppo esce da questa prova a testa altissima, realizzando il loro ennesimo album memorabile.

lunedì 19 febbraio 2018

Demon Eyes - Rites Of Chaos

Rites Of Chaos del 1984 è il primo album dei parigini Demon Eyes, band formata da Thierry Masson e Philippe Chastagnol alle chitarre, Philippe Masson alla voce, Remy Bertelle al basso e Bob Snake alla batteria. Quest'ultimo negli stessi anni militava anche in un'altra band francese, i ben più noti Sortilège che realizzarono il loro primo LP nello stesso anno in cui uscì Rites Of Chaos. Questo album segue di un anno la realizzazione di un demo nel 1983 che si intitola con il nome stesso del gruppo ed è composto da otto tracce di sano metal diretto, sanguigno e con pochi fronzoli.

La musica dei Demon Eyes è chiaramente ispirata ai mostri sacri della NWOBHM degli anni 80, ricca di riff e assoli di chitarra graffianti a cui si somma la potente voce del cantante che si lancia spesso in scream e acuti. Inoltre, il canto in francese aggiunge un tocco di originalità rispetto alle sonorità tipiche degli altri gruppi della stessa decade. Gli otto pezzi sono tutti energici e veloci e compongono un album divertente, in cui non ci sono momenti di noia, che intrattiene senza sosta.

La versione in vinile dell'album riporta sul retro di copertina i titoli dei pezzi in inglese, con tra parentesi il titolo in francese. Tra i brani migliori troviamo sicuramente la veloce L'orgie Des Damnés, che tende verso lo speed metal, la più melodica L'Invincible Force De La Mort e la grintosa Les Deux Maudites.

La versione in CD dell'album è notevolmente più lunga e contiene quindici tracce, i cui titoli sono scritti sul retro in francese; oltre alle otto originale contiene infatti tre brani dal demo Demon Eyes, tre b-side e due incisioni dal vivo.

L'unico difetto che si può trovare a questo album è che effettivamente il suono è poco pulito e molto grezzo, anche il cantato di Philippe Masson, per quantio potente, è piuttosto ruspante. Nell'album successivo, Garde à Vue del 1987, la band proporrà infatti un suono altrettanto duro e diretto ma più pulito e patinato, sia nelle basi sia nel canto. I Demon Eyes registreranno un terzo album nel 1990 intitolato Out Of Control, con un vocalist diverso, e cantato in inglese, che prosegue sulla strada del precedente, con un metal sempre più pulito senza rinunciare all'impatto sonoro dei pezzi.

Purtroppo la carriera dei Demon Eyes durò solo pochi anni, ma i loro tre album sono altrettanti capolavori del metal francese e della musica degli anni 80 in generale. Per quanto siano poco noti al di fuori dei confini nazionali, i Demon Eyes restano per noi una piccola perla da riscoprire.

lunedì 12 febbraio 2018

Metallica WorldWired Tour - Torino, 10/2/2018

Nota: questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per la collaborazione.

Una volta erano headliner a qualche festival costosissimo e avevo il sospetto suonassero poco tempo, vuoi che una volta erano lontani, una volta mi sono pure svegliato tardi e i biglietti erano andati, ma stavolta i Metallica non me li sono fatti scappare. Nella serata della finale del Festival di Sanremo, io e altre 14000 persone di tutte le età che il frontman ha definito 'The Metallica's family' abbiamo letteralmente riempito il Pala Alpitour per vedere Hetfield e altri 3 'old men' che da ben 37 anni picchiano duro con il loro metal grezzo, veloce e violento al punto giusto, thrash appunto.

Dopo l'apertura dei norvegesi Kvelertak, il palco sembrava una banale piattaforma quadrata in mezzo al campo centrale, ma sulle note di Ecstasy of Gold di Morricone, luci, proiettori cubici mobili e piccoli droni lucciole non hanno per nulla fatto sentire la mancanza degli oramai tradizionali megaschermi.

Il tour si chiama WorldWired e la band ha iniziato con i due singoli dell'ultimo disco (un ottimo disco, secondo me stanno ancora cercando di farsi perdonare St. Anger), le mitragliate di doppia cassa di Hardwired e Atlas, Rise! aprono le danze prima che James annunci che faranno sia nuove canzoni che vecchie. La band attacca quindi con il riff iniziale di Seek and Destroy, dal primo album del 1983, per molti il vero concerto inizia solo ora. Sulla via della nostalgia Leper Messiah e Welcome Home anticipano una tripletta pezzi recenti come Now We Are Dead, la più melodica HardWired, e Spit Out the Bone e Halo on Fire; in mezzo a questi For Whom the Bell Tolls, altro classicone direttamente da Ride The Lightning degli anni 80.

Sorpresona del concerto è stato un duetto Hammet-Trujillo che a sorpresa partono con C'è Chi Dice No, di Vasco Rossi come tributo alla nazione ospitante del concerto; ho apprezzato moltissimo il gesto, ma come molti altri ho pareri contrastanti.

Unici due pezzi tratti dagli album meno apprezzati dei Metallica sono stati la cover di Blitzkrieg, mi piace talmente tanto che non ho mai nemmeno cercato la versione originale, e The Memory Remains, dall'album Reload. Si prosegue poi con Moth Into Flame, Sad But True, la mitica One e la devastante Master Of Puppets, un vero pezzo di storia della musica heavy metal.

Pausa minima prima della strumentale Orion e finale più che epico con due pezzi tratti dall'album eponimo; oltre a vendere 16 milioni di copie solo negli Stati Uniti, lancia i Metallica nel circuito un po' più commerciale consacrandoli davvero come fenomeno planetario. L'arpeggio di Nothing Else Matters fa cantare tutti, un tempo ci sarebbero stati gli accendini al cielo, e la famosissima Enter Sandman chiude le oltre due ore di concerto.

Hanno passato i 50 e hanno i capelli bianchi, ma diamine se spaccano dal vivo...

mercoledì 7 febbraio 2018

RavenBlack Project - Breaking Through The Mist

Nel 2015 il progetto RavenBlack Project, guidato dal chitarrista e compositore Riccardo Bacchi, ha pubblicato il proprio primo, e fin'ora unico, album intitolato Breaking Through The Mist. Il disco è composto da nove tracce che attingono dall'hard rock melodico degli anni '70 ispirandosi a band come i Rainbow e i Deep Purple, ricco di basi energiche e potenti a cui si unisce la voce degli eccezionali vocalist chiamati a far parte del progetto.

Già da un primo ascolto, ciò che colpisce di questo disco è la forza del suono che offre un metal puro, energico e carico di riff di chitarra dello stesso Bacchi; infatti sui nove pezzi del disco ne troviamo cinque dalle sonorità dure e graffianti. Due di queste sono interpretate dal bassista e cantante Mark Boals. Il primo è il brano di apertura My New Revelations, sostenuto dal suono della chitarra e nel quale la voce di Boals dà grande prova della sua potenza, Il secondo brano cantato dall'ex bassista dei Dokken è The Road to Hell Paso che unisce sonorità AOR ottantiane a venature southern, Boals chiude il pezzo con un acuto potentissimo con cui dimostra che nel pezzo precedente aveva solo dato un piccolo assaggio delle sue qualità.

Tra i pezzi veloci troviamo anche One-Night Stand affidata alla voce dell'ex cantante dei Rainbow Doogie White, e due brani interpretati da altrettanti vocalist italiani d'eccezione: Redemption Blaze, puro hard rock anni 70 ricco del suono dell'organo Hammond, cantata da Alberto Bollati, e Your Load of Lies che è il pezzo più metallico dell'intero disco, grazie anche alla graffiante voce di Franco Campanella.

Oltre a queste nell'album troviamo quattro brani più raccolti tra cui la toccante The Faithless and The Dreamer, brano lento dedicato alle vittime dell'11/9 cantato da Andre Matos, ex vocalist degli Angra, con Jon Oliva dei Savatage, e la power ballad in stile ottantiano Wasting Memories cantata da James Christian degli House of Lords. Tra i brani lenti spiccano due splendidi gioielli di musica interpretati dalla sempre straordinaria Amanda Somerville. Il primo di essi si intitola The Ancestral Call e vede Amanda duettare con Doogie White; il pezzo è una sorta di ballata celtica medievale ricca di flauti, chitarre e percussioni acustiche. Il brano mostra un lato di White ben diverso da quello grintoso di One-Night Stand e l'aspetto migliore del pezzo è proprio la parte canora dei due straordinari vocalist che nell'ultimo ritornello duettano con Doogie a fare la voce bassa e Amanda quella alta. Il secondo pezzo cantato da Amanda Somerville è la splendida e onirica Lullaby for a Wolf, che si apre con un vocalizzo della cantante e che è realizzata con soli voce, piano e chitarra acustica.

Nella versione fisica del disco è presente come bonus track la cover di Tarot Woman dei Rainbow (a rimarcare qual è la fonte di ispirazione principale di questo progetto) che lascia invariata la melodia originale, ma la rende molto più aggressiva affidandola alle voci di Bolas e Campanella.

Due anni dopo l'uscita dell'album è stata pubblicata anche una versione acustica di Wasting Memories con alla voce Giacomo Voli, uno dei migliori cantanti italiani rock di ogni epoca, che rallenta notevolmente il pezzo condendolo con una strumentazione acustica di grande atmosfera.

Ascoltando Breaking Through The Mist si capisce fin da subito che si tratta di una perla di grande valore, che purtroppo non gode della notorietà che meriterebbe. Questo album di Riccardo Bacchi è semplicemente perfetto e non deluderà le aspettative degli amanti del rock e del metal che si accingeranno ad ascoltarlo. Bacchi mischia con grande maestria elementi musicali diversi, con una strumentazione molto varia e avvalendosi di cantanti che contribuiscono alla realizzazione dell'opera ognuno con il proprio stile. L'album nel suo complesso offre una varietà di suoni veramente notevole a comporre un disco che offre tantissime emozioni diverse.

Non resta che augurarsi che Breaking Through The Mist non resti un esperimento isolato e che Riccardo Bacchi torni presto in studio con questa o un'altra squadra di musicisti a registrare un altro capolavoro di questo calibro. Anche nella speranza che magari le prossime incisioni di questo progetto riescano a guadagnare le posizioni in classifica che la loro musica merita.

sabato 3 febbraio 2018

I primi tre album di Buddy Holly

Nonostante la sua carriera sia stata brevissima, essendo morto a soli 22 anni il 3 febbraio del 1959, Buddy Holly è uno dei giganti del rock and roll degli anni 50; uno dei pochissimi che insieme a Chuck Berry, Elvis Presley, Little Richard e Ritchie Valens ha forgiato la nuova musica che stava nascendo e che influisce tuttora su tutto ciò che ascoltiamo. Basti pensare che proprio a Buddy Holly si deve la formazione tipica dei gruppi rock con doppia chitarra, basso (o contrabbasso) e batteria.

Durante la sua vita Buddy Holly pubblicò solo tre album, usciti nell'arco complessivo di cinque mesi. Il primo di essi è intitolato The "Chirping" Crickets, dal nome del gruppo fondato dallo stesso Buddy Holly, che oltre a cantare suonava la chitarra solista, con Jerry Allison alla batteria, Joe B. Mauldin al contrabbasso e Niki Sullivan alla chitarra ritmica. Il disco, pubblicato nel novembre del 1957, contiene dodici tracce, tra pezzi usciti precedentemente in 45 giri ed altri registrati apposta per l'album. Già da questo primo LP troviamo il suono distintivo di Buddy Holly fatto di un rock and roll divertente, ai confini con il rockabilly, e ricco di suoni incredibilmente innovativi che lo pongono qualitativamente nettamente al di sopra degli altri musicisti della sua epoca. Nell'album troviamo capolavori assoluti del rock and roll come Oh, Boy!, Not Fade Away (che vanterà innumerevoli cover, tra cui quella dei Rolling Stones nel 1964), Maybe Babe e That'll Be The Day. Il disco contiene anche la bellissima You've Got Love scritta da Roy Orbison appositamente per Buddy Holly. Tra i pezzi più melodici, che nel disco non mancano, ne troviamo alcuni in cui il gruppo sconfina anche nel doo-wop come Send Me Some Lovin' e Last Night.

Il secondo album uscì nel febbraio del 1958, a soli tre mesi di distanza dal primo, ed è firmato con il solo nome di Buddy Holly nonostante la formazione che lo ha realizzato sia la stessa del precedente e veda di nuovo i Crickets al completo. L'album porta il nome stesso del cantante e riesce nella difficile impresa di superare il primo in qualità: le undici tracce sono altrettanti gioielli di rock and roll che meriterebbero di finire in una raccolta dei migliori brani di ogni tempo. Troviamo infatti pezzi come l'incalzante I'm Gonna Love You To, il lento Peggy Sue, ed Everyday. Tra i brani veloci troviamo anche (You're So Square) Baby I Don't Care, che l'anno precedente fu incisa anche da Elvis Presley, e Rave On! che ad oggi vanta innumerevoli cover tra cui quella di John Cougar Mellencamp del 1988.

Il terzo e ultimo album pubblicato da Buddy Holly in vita si intitola That'll Be The Day ed è composto da incisioni che temporalmente precedono gli altri due, in quanto risalgono al 1956. La formazione dei musicisti è molto varia e gli strumentisti coinvolti sono diversi e cambiano da brano a brano; dei Crickets compare solo Jerry Allison e non in tutti i pezzi. Come ci si può aspettare, le registrazioni sono più grezze e il disco non contiene tracce memorabili nonostante contenga comunque brani validi, come una versione della title track antecedente alla stessa pubblicata sul primo album, Midnight Shift e Love Me.

Tra l'uscita del suo terzo album e il giorno in cui Buddy Holly trovò la morte insieme a Ritchie Valens e The Big Popper riuscì a incidere molti singoli, ma non a confezionare un album intero. Il materiale di certo non gli mancava, visto che le incisioni postume di Buddy Holly sono molte di più di quelle che ha pubblicato in vita e la qualità delle stesse è assolutamente in linea con la musica meravigliosa dei primi tre album.

Resta l'enorme rimpianto di non sapere dove sarebbe arrivato questo straordinario musicista se non fosse morto così giovane. Non sapremo mai se avrebbe avuto una carriera leggendaria come quella di Elvis che spaziò tra innumerevoli generi musicali o se sarebbe rimasto fedele agli stili originari come Chuck Berry. Ma sappiamo che nonostante la brevità della sua vita la musica che ci ha lasciato lo proietta a pieno titolo nell'olimpo dei più grandi innovatori di ogni genere.

lunedì 29 gennaio 2018

Depeche Mode Global Spirit Tour - Assago, 27/1/2018

Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il prezioso contributo.

Wikipedia li etichetta come synth pop, genere del quale i Depeche Mode sono stati gli iniziatori; partendo dal sud dell'Inghilterra negli anni 80 e conquistando letteralmente il mondo con numeri da capogiro. 100 milioni di dischi venduti, carriera quasi quarantennale, hanno influenzato moltissimo la scena musicale, innumerevoli cover, e sopratutto palazzetti e stadi stracolmi ogni volta che mettono il becco fuori casa.

Il Global Spirit Tour, che accompagna l'omonimo studio album nel 2017, prevedeva due date a Milano i cui biglietti sono letteralmente volati via. Un Mediolanum Forum così pieno non l'ho mai visto, tutti pronti ad ammirare, inizialmente, la strepitosa scenografia fatta da uno schermo gigante usato durante il concerto per proiettare veri e propri cortometraggi ad accompagnamento dei 20 pezzi di una scaletta piena di pietre miliari della carriera della band inglese.

Revolution dei Beatles mandata on air prepara il pubblico all'ingresso di Dave, Martin e Andrew che attaccano con Going Backwards, tratta dall'ultimo album. Seguono It's No Good e Barrel of a Gun, primi pezzi tratti dall'album Ultra del 1997, dal quale verranno tratti molti pezzi di questo concerto. Prima bomba della serata è Precious, tratta da Playing the Angel del 2005, seguono pezzi tratti da altri album come Violator (World in my Eyes) e Songs of Faith and Devotion (In Your Room) prima di tornare su Where's The Revolution tratta sempre dal recente Spirit.

Everything Counts e Stripped preparano la folla al cambio di marcia del concerto con l'immortale Enjoy the Silence. "All I ever wanted all I ever needed is here in my arms", questo ritornello lo conoscono anche i muri e la folla milanese l'ha cantata a squarciagola; vanta innumerevoli reinterpretazioni come ad esempio quella dei Lacuna Coil, ma l'originale è immensamente meglio. Never Let Me Down Again precede la piccola pausa e, subito dopo Martin prende il microfono e canta una bellissima versione acustica di Strangelove.

Altra pietra miliare Walking In My Shoes, insieme alla più movimentata A Question of Time precedono il grandissimo finale con Personal Jesus, altro pezzo eterno che vanta un numero elevatissimo di reinterpretazioni, inclusa quella di Marilyn Manson.

Le due ore di concerto sono state visivamente spettacolari, il pubblico numerosissimo e partecipe, la scaletta è stata eccezionale, la band inceppibile e la voce di Dave semplicemente perfetta.

Per chi si fosse incuriosito i Depeche Mode suoneranno ancora in Italia tra non molto, a luglio a Barolo (CN)

Piccola riflessione personale, era da un po' che ci pensavo e ora vorrei condividerla. Tempo fa un amico mi disse, scherzando, 'ma ti capita di andare anche a vedere band di gente che ha meno di 50 anni?' La mia risposta è ovviamente sì, ma quello che mi chiedevo è perché queste band di 'vecchietti', dopo così tanto tempo riempiono ancora gli stadi, i palazzetti, le piazze?

Forse perchè oggi, tra social, YouTube e talent show vari basta un motivetto orecchiabile, un Despacito o un Andiamo a Comandare qualsiasi può facilmente rubare la scena musicale (commerciale, ovvio); ma tanto veloce la ruba, tanto veloce la scena viene rubata dal tormentone successivo.

Non sto dicendo che i dischi che escono ora fanno schifo, anzi; però forse 20 o 30 anni fa senza tutti questi mezzi di comunicazione, solamente quelli bravi, ma davvero bravi, riuscivano a emergere. E solo quelli ancora migliori riuscivano a sopravvivere con le vendite dei dischi visto che prima Spotify non c'era. Rimango dell'idea che i Depeche Mode, insieme a molte altre band del passato, continueranno a occupare le nostre playlist, sicuramente per molti anni a venire.

Nel caso vi avessi annoiato con questa divagazione scusate, ma se non l'avessi scritta ora l'avreste letta nella recensione del concerto dei Metallica tra due settimane.

lunedì 22 gennaio 2018

Northern Kings: il supergruppo dei re finlandesi

Nel 2007 quattro tra le migliori voci maschili del panorama symphonic metal finlandese hanno formato un supergruppo vocale per reinterpretare alcuni classici dei decenni passati. Il quartetto porta il nome di Northern Kings ed è composto da Jarkko Ahola (cantante tra gli altri dei Teräsbetoni e degli Ahola), Marco Hietala (Nightwish), Tony Kakko (Sonata Arctica) e Juha-Pekka Leppäluoto (Charon e Harmaja).

Il primo album dei Northern Kings si intitola Reborn ed è composto da cover di pezzi rock anni 80 (con la sola aggiunta di Creep dei Radiohead che appartiene al decennio successivo) reinterpretati in chiave symphonic metal; lo scopo principale di queste revisioni è mettere in luce le notevoli capacità canore dei quattro interpreti, con Leppäluoto, unico basso della formazione, ad eseguire le voci più basse mentre i tre tenori eseguono quelle più alte ognuno nel proprio stile distintivo. Ogni pezzo è cantato principalmente da uno dei quattro, con gli altri tre che eseguono i cori. In questo primo album fa eccezione solo la cover di We Don't Need Another Hero di Tina Turner che è invece cantata da tutti e quattro; il brano è aperto con le sonorità basse di Leppäluoto a cui si aggiungono gli altri tre, di particolare effetto è il duetto tra lo stesso Leppäluoto e Kakko nella seconda strofa con il secondo a fare la voce alta e il primo quella inferiore.

I pezzi vengono spesso reinterpretati cambiandone la melodia o la natura stessa. La linea vocale del ritornello della già citata We Don't Need Another Hero è infatti diversa da quella originale. Rebel Yell di Billy Idol, qui cantata da Leppäluoto, diventa una lunga ballata gotica di quasi otto minuti; I Just Died in Your Arms dei Cuttin Crew qui interpretata da Jarkko Ahola è trasformata invece in una power ballad. In The Air Tonight di Phil Collins, eseguita dalla ruggente voce di Hietala, rispecchia la struttura della versione originale con la prima metà più lenta della seconda, ma in questa occasione l'ultimo ritornello è molto più graffiante di come interpretato dall'ex batterista dei Genesis.

Anche Hello di Lionel Ritchie, in origine un melodico brano soul, diventa qui veloce e aggressivo guidato dalla forte voce di Ahola con un bellissimo coro degli altri vocalist in sottofondo. Fallen on Hard Times dei Jethro Tull, interpretata da Hietala, trasforma un folk progressivo un pezzo di potente metal, il rock elettronico di Don't Bring Me Down degli Electric Light Orchestra qui cantato da Ahola viene riletto in una versione particolarmente veloce che rasenta lo speed metal; mentre altri brani come Sledgehammer di Peter Gabriel (affidata alla voce di Tony Kakko) e Don't Stop Believing dei Journey (cantata da Hietala) si mantengono più simili alle melodie originali.

Inoltre la Special Edition di Reborn include anche la versione orchestrale di We Don't Need Another Hero, in cui le voci dei quattro spiccano ancora di più, e un remix più cupo di Creep.

L'anno seguente i Northern Kings hanno realizzato il loro secondo, e fino a ora ultimo, album intitolato Rethroned. L'album ripropone la formula del precedente, con una serie di brani presi principalmente dagli anni 80 reinterpretati in stile symphonic metal, ma a differenza del primo album in Retrhoned sono cinque i pezzi cantanti dai quattro vocalist insieme. Tra questi troviamo Kiss From a Rose di Seal che qui diventa un pezzo veloce e grintoso, A View to Kill dei Duran Duran, Take On Me degli A-Ha e Killer di Adamski che da sommesso brano trip hop diventa molto energico, con i quattro cantanti che tirano fuori una potenza vocale nel ritornello che sarebbe inaspettata conoscendo il pezzo originale.

Tra i brani migliori di questo secondo disco troviamo Nothing Compares 2 U cantata da Jarkko Ahola che rielabora il pezzo di Prince (anche se qui siamo sicuramente più vicini alla versione di Sinead O'Connor) in una power ballad in cui di nuovo sfodera la sua potenza vocale modificando anche la linea vocale in modo da adeguarla alle sue caratteristiche. Lo stesso Ahola interpreta anche My Way in uno stile magistrale dando di nuovo sfoggio delle sue straordinarie doti vocali e trasformando il pezzo in uno ruvido e graffiante ricco di riff di chitarra.

Il quartetto chiude l'edizione standard del disco con Róisín Dubh (Black Rose): A Rock Legend dei Thin Lizzy, ovvero un medley di quattro brani folk americani e britannici realizzando così il pezzo più melodico e raccolto dell'album dalla notevole durata di oltre sette minuti.

L'edizione giapponese dell'album contiene anche la cover di They Don't Care About Us di Micheal Jackson cantato dall'intero quartetto, lo stesso pezzo è disponibile in versione orchestrale solo sull'edizione dell'album venduta su iTunes.

Oltre ai due album, i Northern Kings realizzarono un solo singolo nel 2010 con una cover di Lapponia di Monica Aspelund, brano con cui la Finlandia partecipò all'Eurovision Song Contest del 1977. Il pezzo è ovviamente cantato da tutti e quattro e mantenendo fede al brano originale ha un approccio molto più allegro e leggero di quanto registrato dai quattro nei loro due album.

Purtroppo la sperimentazione dei Northern Kings è durata molto poco ed è difficile che dopo otto anni di inattività il gruppo si possa riunire. Queste incisioni di facile ascolto, trattandosi di cover, possono però aiutare anche i non appassionati a conoscere questi quattro straordinari vocalist e le loro band che producono dell'ottimo metal sinfonico che pone molta cura alla qualità delle parti vocali.