giovedì 14 aprile 2016

Intervista a David Moretti

Gli anni 90 sono stati un decennio d'oro per il rock italiano e tra i vari gruppi che la nostra penisola ha prodotto spiccano qualitativamente su tutti gli altri i milanesi Karma. La band guidata dal frontman David Moretti ha pubblicato solo due album tra il 94 e il 96 che spaziano dal grunge al rock psichedelico arricchiti di suoni etnici e tribali. Chiusa l'avventura dei Karma e dopo oltre dieci anni di lontananza dalle scene nel 2007 lo stesso gruppo di musicisti tornò in studio sotto il nome di Juan Mordecai per registrare un unico album dalle sonorità molto varie.

Oggi David Moretti è direttore creativo di Wired a San Francisco e ha accettato la nostra proposta di un'intervista per raccontarci qualcosa di più sul suo profilo musicale e su come sono nati i tre album che ha inciso.

Ringraziamo David Moretti per la sua cortesia e disponibilità.


125esima Strada: Ciao David, e anzitutto grazie del tempo che ci dedichi. Parliamo come prima cosa dei Karma, come vi è venuta nei primi anni 90 l'idea di portare il grunge in Italia?

David Moretti: In realtà non ci siamo resi mai conto di essere “grunge”, forse fino alla produzione del primo album in italiano. I Karma nascono verso la fine degli anni 80 come cover band: Hendrix, Led Zeppelin, Pink Floyd, Rolling Stones, Beatles, Jefferson Airplaine… Ognuno di noi veniva da generi diversi: metal, punk rock, prog, hardcore, rock psichedelico. Il classic rock è stata la base sulla quale abbiamo costruito il nostro suono. Nel 1991 iniziammo a comporre musica nostra e a registrare il nostro primo “disco” in inglese sotto il nome di Circle of Karma. Fu Fabrizio Rioda dei Ritmo Tribale a convincerci a riscrivere i testi in italiano e nel 1992 abbreviammo il nome in Karma e iniziammo a farci conoscere come prodotto italiano. L’album omonimo uscì nel 1994 per Ricordi/Ritmi Urbani. Volevamo un suono contemporaneo e molte band dell’epoca avevano le nostre stesse radici: Pearl Jam, Mother Love Bone, King’s X, Alice in Chains, Soundgarden. Ma fu la stampa ad etichettarci come grunge.


125esima Strada: Come vi è venuta l'idea di mischiare il grunge e il rock con sonorità tribali ed etniche?

David Moretti: E’ difficile crederlo ascoltando il primo album, ma la vena acustica è sempre stata molto forte, tanto quanto quella psichedelica. Iniziammo a suonare con Pacho, il nostro percussionista, qualche mese prima dell’inizio delle registrazioni dell’album. Iniziammo a portare in giro uno spettacolo con percussioni industriali, lamiere, bidoni, perfino una lavatrice (!). Con lui fu amore a prima nota. Condivideva inoltre la mia “passione” per l’India e le filosofie orientali ed era (ed e’) un suonatore di tablas formidabile. Io suonicchiavo il sitar e una delle nostre jam finì come intro del nostro primo singolo La Terra. Il nostro secondo lavoro, Astronotus, nato come una lunga jam session di quasi 2 ore, e’ il frutto di questa miscela decisamente atipica.


125esima Strada: Personalmente trovo il tuo cantato in questa prima fase della tua carriera molto simile a quello di Layne Staley. Sei d'accordo con questa similitudine?

David Moretti: Grazie del complimento! Layne aveva una voce strepitosa. Ho sempre cantato in inglese, fin da giovanissimo. Amo molto le voci potenti ma versatili come Glenn Hughes, Doug Pinnick, Demetrio Stratos. Avendo una voce molto bassa e una discreta estensione mi è venuto naturale impostare i miei cantati su quei modelli. Layne e anche Vedder sono stati molto importanti nella mia fase di passaggio tra inglese e italiano. Il primo album è decisamente Alice in Chains, soprattutto nelle armonizzazioni dei cori.


125esima Strada: Parliamo invece degli Juan Mordecai, come è nato questo progetto e come ti è tornata da voglia di tornare in studio e sul palco a oltre dieci anni dall'avventura dei Karma?

David Moretti: Non ho mai smesso di comporre. Quando sei un musicista non vai mai in pensione. Mi sono così ritrovato dopo quasi dieci anni di distanza ad avere moltissimi brani archiviati. La vita ci aveva fatto prendere strade differenti, ma la persona con la quale mi vedevo più spesso era Andrea Viti che nel frattempo era entrato in pianta stabile negli Afterhours. Ognuno dei due si era attrezzato con un piccolo studio mobile casalingo e così iniziammo a scambiarci file audio. Alcuni pezzi erano talmente in sintonia che fu facile farne una playlist. Poi iniziammo a coinvolgere gli altri Karma, chi per una linea di chitarra, chi per le percussioni. In realtà gran parte del disco fu suonata e registrata da me ed Andrea tra il 2004 e il 2007. Ma ricontattare gli altri Karma fu l’inizio di un processo che ci riportò poi dal vivo per i due anni successivi.


125esima Strada: Cioè che stupisce del disco degli Juan Mordecai è l'incredibile varietà dei suoni proposti, a quali artisti vi siete ispirati per comporre i pezzi?

David Moretti: Juan Mordecai è un disco bastardo. Nel vero senso della parola. Tom Waits, Johnny Cash, ma anche MC5, Stooges potrei citarti migliaia di nomi. Siamo sempre stati onnivori musicalmente. Quando hai a disposizione 10 anni e poi fai una selezione, l’unico modo di tenere tutto insieme è farne un frullato. Per di più nessuno dei due ha mai avuto il controllo della cosa. “Mi serve una linea di basso”, “Ho bisogno di una melodia”, “ Ho aggiunto un solo, che dici?”… Questo è stato il modo con cui abbiamo messo insieme dieci pezzi. Anche la lunghissima jam finale è frutto di sovraincisioni a “distanza”. Quando uno di noi aveva il tempo aggiungeva qualcosa e passava all'altro. Per cucinare il tutto poi ci è servita una persona terza che prendesse le decisioni: il grande Taketo Gohara.


125esima Strada: Nei Karma cantavi in italiano e negli Juan Mordecai in inglese. Nella tua esperienza personale quali sono le caratteristiche e i pregi di ciascuna di queste due lingue da un punto di vista musicale e canoro?

David Moretti: Non sono mai stato un poeta, non è quello che sono. Amo la poesia, ma ho sempre trovato ingenua e banale ogni cosa che abbia fatto in quella direzione. Molte delle liriche dei Karma sono cut-and-paste di manuali di meditazione, saggi di filosofia, citazioni, fiabe orientali… Con l’inglese ho un rapporto più diretto, suona in me subito giusto. Almeno questa è la mia esperienza.


125esima Strada: Quali sono i tuoi musicisti preferiti di tutti i tempi?

David Moretti: Non riesco a fare una classifica. Ti direi i Led Zeppelin perché hanno ossessionato la mia adolescenza, perché trovo in loro molto dei suoni che amo dal rock britannico alle sonorità orientali. Ma è davvero molto difficile.


125esima Strada: Nella scena musicale attuale invece chi sono i tuoi preferiti?

David Moretti: Questa è ancora più’ difficile. Ti dico quello che ho aggiunto recentemente su Spotify: Iggy Pop – Post Pop Depression (con Josh Homme), Black Mountain – IV, Bee Caves – Animals with Religion. Adesso che vivo in California ascolto tantissima musica indipendente. Gli unici italiani che ascolto con molto piacere sono i Verdena. Per il resto sono completamente sconnesso.


125esima Strada: Essere un musicista ed essere direttore creativo di Wired sono profili professionali molto diversi, come riesci a coniugare questi due aspetti così all'apparenza distanti?

David Moretti: Nella mia vita ho sempre alternato grafica a musica e musica a grafica. A volte queste due cose si sono sovrapposte. Facevo il grafico per pagarmi l’università e il “vizio” della musica, poi mi sono ritrovato musicista “professionista” e quando la “professione” non mi ha più consentito di viverci sono tornato a fare il grafico.


125esima Strada: Ti rivedremo mai il sala di registrazione o su un palco?

David Moretti: Il bello di stare negli Stati Uniti e’ che qui suonano TUTTI. Molti dei miei colleghi hanno band e ogni tanto spariscono per una settimana girando in piccoli tour. Qui i locali ci sono, la gente va ai concerti e a nessuno gliene frega niente se hai 50 o 16 anni. Diciamo che sto scaldando l’ugola :)

giovedì 7 aprile 2016

Francess - Apnea

Il 2015 ha visto il debutto discografico della della giovanissima cantante italiana Francess, all'anagrafe Francesca English nata a New York nel 1989 da padre giamaicano e madre italiana, con il suo primo album intitolato Apnea. Nonostante la nota biografica sulla pagina di Facebook della cantante descriva la sua musica come soul, blues e jazz a noi sembra invece che questa afferisca all'R&B e sia più vicina a modelli come Erikah Badu, Monica o Blu Cantrell piuttosto che ad Alicia Keys o Norah Jones.

Ma a parte le etichette quello che importa è la caldissima voce di Francess offre dell'ottima musica di grande qualità e porta una ventata di sonorità nere in un paese che troppo spesso si ferma al pop di facile consumo. Di norma i dischi R&B presentano una predominanza di brani lenti, ma Apnea contrariamente alle aspettative offre un buon equilibrio tra brani lenti e altri più energici. L'album parte alla grande con la bellissima traccia di apertura intitolata Cool, proposta anche in chiusura in versione acustica, sostenuta dal forte giro di basso e di tastiere; anche il secondo brano In My Veins è piuttosto energico ed in questo sono i fiati ad avere il ruolo principale nell'accompagnare la voce di Francess.

Tra i brani lenti spiccano le bellissime Ashes Flesh and Bones, No Hero e The Other Half of Me affidate alla voce sensuale della cantante che riesce a creare l'atmosfera con grande efficacia. Mentre tra i pezzi più veloci meritano una menzione particolare anche le allegre e trascinanti Notes and Words, che chiude il disco prima della versione acustica di Cool, e Holding Your Breath. Tra gli altri brani veloci troviamo Never Know, caratterizzata da un insolito ritmo sincopato, e Upside Down, uptempo piuttosto tradizionale.

Tutte le undici tracce del disco sono comunque di altissimo livello, l'album non conosce un attimo di noia e offre oltre un'ora di R&B che mette in mostra il raro talento della cantante e della sua voce suadente che si dimostra all'altezza sia dei pezzi più trascinanti che di quelli più intimistici.

La voce e lo stile di Francess non hanno eguali nel nostro paese. Mentre in UK cantanti R&B come Shola Ama, Ms. Dynamite o Jamelia (che in realtà mancano dalle classifiche da almeno un decennio, lasciando il posto a cantanti bianchi che interpretano gli stessi stili) hanno portato l'R&B nel vecchio continente e in Germania Xavier Naidoo ha tradotto questo stile nella propria lingua così come ha fatto Nell Evans in Francia, in Italia l'R&B è stato interpretato poche volte e da musicisti e vocalist ben sotto il livello dei colleghi esteri che spesso sfiorano il ridicolo e alle volte lo centrano in pieno. Francess al contrario esce a testa alta dal confronto con gli interpreti migliori, ma purtroppo la musica di qualità nel nostro paese quasi mai affiora in superficie.

giovedì 31 marzo 2016

Taj Mahal - The Natch'l Blues

Basta il nickname del grande bluesman Taj Mahal, all'anagrafe Henry Saint Clair Fredericks, a suggerire che ci troviamo di fronte a un musicista atipico che non attinge solo dalla tradizione americana, ma che negli anni ha arricchito la propria musica di sonorità provenienti da terre lontane. E anche prima che iniziassero le sue sperimentazioni con la world music Taj Mahal non si accontentò di fermarsi al blues della tradizione di Muddy Waters o Howlin' Wolf ma aggiunse alla propria musica suoni che vengono dal soul e dal rhythm and blues.

Dopo il suo primo ed eponimo album di blues grintoso ma tradizionale pubblicato nel 1968, Taj Mahal pubblicò il suo secondo lavoro intitolato The Natch'l Blues nello stesso anno del precedente. Il disco è composto da nove brani di cui sei inediti scritti dallo stesso Taj Mahal, due standard della tradizione nera come You Don't Miss Your Water e Ain't That a Lot of Love e il brano folk The Cuckoo.

Tutti i brani sono piuttosto allegri e sono sostenuti dalla chitarre del nativo americano Jesse Ed Davis oltre che dal cantato di Taj Mahal. Il brano più forte del disco è sicuramente She Caugh the Katy che anni dopo fu usata dai Blues Brothers nel loro celeberrimo film.

Oltre a questa tra i brani di spicco troviamo le già citate Ain't That a Lot of Love grazie alla potente linea di basso ripresa poi in Gimme Some Lovin' degli Spencer Davis Group, anch'essa usata dei Blues Brothers, e You Don't Miss Your Water che sconfina decisamente verso il soul con un cantato che richiama lo stile di Otis Redding che pure interpretò lo stesso standard pochi anni prima.

Nella versione in CD pubblicata nel 2000 si trovano tre bonus track: una versione più energica e veloce di The Cuckoo, la lenta New Stranger Blues e la vibrante Things Are Gonna Work Out Fine condotta principalmente dall'armonica suonata dallo stesso Taj Mahal.

Dai suoi primi passi fino a pochi anni fa la carriera di Taj Mahal è proseguita a una velocità impressionante, sfornando album nuovi ogni pochi anni e soprattutto senza mai ripetere due volte lo stesso esperimento di mescolanza di stili diversi, e ogni volta che si cimenta in qualcosa di nuovo crea album memorabili: così come lo è The Natch'l Blues.

giovedì 24 marzo 2016

National Symphony Orchestra - Jesus Christ Superstar

La versione più celebre del leggendario musical Jesus Christ Superstar è senza dubbio quella dell'omonimo film del 1973 interpretato dal Ted Neeley e Carl Anderson, ma il fatto che sia la più nota non implica necessariamente che si tratti anche della migliore. Nel 1995 ne è stata infatti pubblicata la versione della National Symphony Orchestra diretta dal maestro Martin Yates e interpretata da Dave Willetts nel ruolo di Gesù e da Clive Rowe in quello di Giuda registrata negli Abbey Road Studios di Londra tra giugno del 1993 e novembre del 1994 e basta davvero poco a capire che questa versione è nettamente superiore ad ogni altra.

Bastano infatti pochi secondi dopo l'inizio di Heaven on Their Minds affinché già dalle prime parole My mind is clearer now si capisca che la potenza vocale di Clive Rowe surclassa ampiamente tutti i Giuda che lo hanno preceduto e pochi istanti dopo in than the things you say appare chiaro che anche l'estensione della voce di Rowe è notevolmente superiore e al confronto Carl Anderson sembra stridulo e immaturo; inutile il confronto con quello che è forse il secondo Giuda più famoso della storia, Jérôme Pradon nella versione uscita in DVD nel 2000 diretta da Gale Edwards e Nick Morris, che si dimostrò completamente incapace di raggiungere le note più alte. La prova di Rowe è semplicemente grandiosa e la sua interpretazione di Heaven on Their Minds supera in espressività anche la versione dei Queensrÿche contenuta nell'album di cover Take a Cover del 2007.

Maestosa anche la prova di Dave Willetts, potente e sicura, e nella sua interpretazione supera notevolmente Ted Neeley per forza, espressività e precisione. Lo stesso si può dire di tutti gli altri interpreti, da Paul Collins nel ruolo di Simone lo Zelota fino a Ethan Freeman in quello di Erode. Anche l'unica interprete femminile di rilievo, Issy Van Randwyck nel ruolo della Maddalena, offre una prestazione che coniuga dolcezza a potenza ed una notevole estensione nei suoi pezzi principali: Everything's Alright e I Don't Know How to Love Him.

Un ruolo fondamentale ha anche il coro a supporto dei solisti che si dimostra all'altezza della migliore esecuzione di sempre del musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice che si esprime con precisione ma al contempo lasciando apprezzare tutte le voci sia nei brani più energici come Simon Zealotes che in quelli più riflessivi come The Last Supper eseguita con la solennità di un canto liturgico.

Questa versione di Jesus Christ Superstar è impreziosita anche, come spesso succede, da alcuni adattamenti del testo. In Strange Thing, Mystifying Giuda dice infatti To let her stroke you and kiss your hair is hardly in your line mentre la versione originale direbbe To let her kiss you and stroke your hair, that's hardly in your line. Questa pratica è comunque piuttosto comune, anche nella già citata versione del 2000 in Heaven on Their Minds Giuda canta and our conquerors object to another noisy sect invece di I am frightened by the crowd because we are getting much too loud.

Purtroppo di questa versione esiste solo la versione su CD e non ne esiste una registrazione video che ne avrebbe garantito una diffusione molto maggiore. Ma proprio per questo serve a dimostrare che alle volte i prodotti di nicchia sono qualitativamente migliori di quelli più famosi.

giovedì 17 marzo 2016

Muro - Telon de Acero

I madrileni Muro nacquero nel quartiere Vallecas della capitale spagnola nel 1984 e la loro carriera discografica iniziò in modo atipico. Dopo la realizzazione di alcuni demo (nell'83, nell'84 e nell'86) pubblicarono il loro primo album live intitolato Acero y Sangre nel 1986 e solo nel 1988 diedero alle stampe il loro primo album in studio intitolato Telon de Acero. Con i loro primi dischi i Muro furono i primi a portare lo speed metal di stampo aglosassone, sul modello di Motorhead o Judas Priest, in Spagna e il loro esempio fu poi seguito da altre band iberiche come gli Angeles del Infierno o i baschi Su Ta Gar.

Il primo album in studio del gruppo è caratterizzato da un robusto speed metal basato sul suono veloce e forte delle chitarre e della sezione ritmica che ricorda molto il periodo di Ram It Down dei Judas Priest ed è contraddistinto dalla potente voce del cantante Silverio Solorzano, detto Silver, dotata di una notevole estensione. Inoltre nella maggioranza dei brani i ritornelli sono arricchiti da massicci cori eseguiti dall'intera band che rendono i brani stessi particolarmente energici e trascinanti. Tra i pezzi migliori spiccano la title track che si trova in apertura e che si apre con chitarra e campana a morto e poco dopo da un notevole scream di Silver che mostra le sue doti canore già dai primi giri del disco. Oltre a questa spiccano anche Extraño Poder, Juicio Final e Holocausto. Tra i brani notevoli va segnalata anche Solo en la Oscuridad che dura oltre cinque minuti e che inizia come una ballad con un arpeggio di chitarra ad accompagnare la voce del cantante per poi riprendere la strada dello speed metal dopo un minuto e mezzo.

Dopo Telon de Acero la band incise nel 1989 l'album Metal Hunter in cui ripropose i pezzi di Acero y Sangre tradotti in inglese, ma rinunciando alla loro lingua madre i brani persero un po' della loro originalità. Da allora la carriera dei Muro è continuata lungo la strada dello speed metal per oltre tre decenni e nonostante la band abbia visto numerosi cambi di formazione è ancora pienamente attiva. Dopo l'uscita dell'ultimo album nel 2013 intitolato El Cuarto Jinete anche Silver dovette lasciare il gruppo ed essendo sostanzialmente insostituibile la band prese la coraggiosa decisione di assoldare una donna, Rosa Pérez (ex cantante dei Black Shark), come vocalist in modo che ogni tipo di confronto con il passato fosse impossibile. La Perez ha già intrapreso con la band alcune esibizioni da vivo e la sua voce potente e graffiante suona decisamente adatta alla musica dei Muro. Attendiamo quindi i prossimi album, le premesse per credere che la nuova cantante sarà all'altezza del passato sono molto buone.

giovedì 10 marzo 2016

Capital Inicial - Rosas e Vinho Tinto

I Capital Inicial nacquero nel 1982 a Brasilia e pubblicarono il loro primo ed eponimo album quattro anni più tardi. Dopo due album di stampo new wave e post-punk il suono della band si spostò verso il pop tipico di quel decennio con l'album Você Não Precisa Entender e in seguito verso un rock più robusto, in cui le tastiere venivano sostituite dal suono delle chitarre, a partire da Todos os Lados del 1990. I cambi di rotta portarono alla band a un calo del consenso riscosso tra i fan e del volume delle vendite, lo scarso successo portò anche il cantante Dinho Ouro Preto a lasciare il gruppo. Con il nuovo cantante Murilo Lima la band incise un solo album in studio intitolato Rua 47 nel 1995 dalle sonorità più grunge e hard rock rispetto al passato, ad esso seguì il live Capital Inicial: Ao Vivo e nel 1998 anche Lima lasciò il gruppo e il posto di cantante venne di nuovo preso da Dinho Ouro Preto. Con il rientro del cantante storico il gruppo svoltò di nuovo verso un rock-pop che a tratti tende verso l'hard rock e la scelta si rivelò vincente perché i Capital Inicial tornarono anche al successo commerciale e di pubblico.

Il secondo album successivo al ritorno di Ouro Preto segnò anche il ritorno del gruppo a una major con il passaggio dalla brasiliana Abril Music alla Sony, uscì nel 2002 ed è intitolato Rosas e Vinho Tinto. Il disco si apre con la graffiante 220 Volts, uno dei pezzi più duri della produzione dei Capital Inicial, e prosegue con l'ottima À Sua Maneira, cover di De Música Ligera dei Soda Stereo tradotta in portoghese; il brano dei Soda Stereo è proposto anche in versione originale con il testo in spagnolo come bonus track in alcune edizioni del CD. Il resto dell'album è caratterizzato da un pop rock veloce, allegro e divertente e tra i pezzi spiccano Quatro Vezes Você, Mais e Como Devia Estar. Nel disco troviamo anche due ballad: Olhos Vermelhos presente anche in versione acustica come bonus track e la bellissima e sognante Isabel che chiude il disco.

A distanza di oltre trentanni dalla loro fondazione i Capital Inicial continuano a sfornare album in studio e live, l'ultimo dei quali registrato in acustico a New York è stato pubblicato nel 2015, e non sono un caso isolato nel panorama rock brasiliano che con gruppi come i Barão Vermelho o i Legião Urbana (band sorella dei Capital Inicial in quanto entrambi nati dalle ceneri degli Aborto Elétrico) è davvero ricco ma purtroppo poco noto al di fuori della propria nazione per via delle barriere linguistiche.

giovedì 3 marzo 2016

Anthrax - For All Kings

Il 2016 segna il ritorno del newyorkesi Anthrax che non hanno certo bisogno di presentazioni essendo tra i più celebri, e forse i migliori in assoluto, esponenti del thrash metal. Il nuovo album For All Kings è il secondo dopo il rientro nella formazione del cantante storico Joey Belladonna ed è stato anticipato dall'uscita di due singoli nei mesi precedenti la pubblicazione dell'album intero. Il primo di essi Evil Twin, ispirato agli attentati terroristici e alle sparatorie di massa avvenuti nel 2015, è stato pubblicato nell'ottobre dello scorso anno e con il suo suono graffiante e tipicamente thrash si ricollega molto alle sonorità del precedente Worship Music; ma è con il secondo singolo Breathing Lightning, pubblicato a gennaio, che la band ha dato una prova distintiva del proprio cambio di rotta che avrebbe trovato conferma nel resto dell'album. For All Kings è infatti incredibilmente melodico se paragonato a tutti gli album precedenti degli Anthrax.

Che il gruppo di Scott Ian fosse coraggioso e che spesso sconfinasse in altri generi è noto da tempo: sono stati tra i precursori del rap metal nel 1991 con Bring the Noise in collaborazione con i Public Enemy e due anni dopo si sono cimentati con successo nel grunge con l'album Sound of White Noise, e ora nel 2016 a oltre trent'anni dall'esordio sembrano volersi cimentare con il prog. Infatti brani come You Gotta Believe, con i suoi incredibili e imprevedibili cambi di tempo, Monster at the End, Defend Avenge o All of Them Thieves sono molto più ricchi di melodie e virtuosismi di ogni altra produzione passata degli Anthrax. Tra gli altri brani spiccano anche Blood Eagle Wings che è notevolmente lento rispetto a ciò a cui la band ci ha abituato e sembra voler riportare alla sonorità grunge del 1993 e Zero Tolerance che insieme alla già citata Evil Twin è la più tradizionale tra le tracce del disco con il suo ritmo tipico del thrash. In tutte le tracce Joey Belladonna dimostra di essere ancora al vertice delle proprie capacità vocali, sia per potenza che per estensione, o forse di averlo appena raggiunto perché dal punto di vista vocale questo album non è secondo a nessuno tra gli altri della discografia degli Anthrax.

For All Kings è stato stampato anche in versione deluxe con l'aggiunta di quattro pezzi storici della band, Fight 'Em 'Til You Can't, A.I.R., Caught in a Mosh e Madhouse, registrati dal vivo.

In ultimo va notata la bellissima e scherzosa copertina realizzata da Alex Ross che in turbinio di colori proveniente dal logo illuminato sullo sfondo vede le band ritratta come statue di santi o profeti adorati dai propri fans.

For All Kings è un grande album ed sicuramente uno dei migliori dischi che la band newyorkese abbia mai realizzato, che metterà d'accordo i fan del thrash ma anche chi si aspettava dal gruppo sonorità nuove, e soprattutto mostra che a trentadue anni da Fistful of Metal la qualità della musica degli Anthrax e la loro creatività non sembrano minimamente calare.