mercoledì 7 settembre 2016

Da dove nasce il termine heavy metal?

L'heavy metal è uno dei generi musicali più importanti al mondo e dagli anni 70 è tra quelli che ci hanno regalato alcuni dei più importanti capolavori musicali di ogni tempo. Ciò che però è poco noto è come sia nato l'uso di questo termine per descrivere un genere musicale.

Il primo utilizzo del termine heavy metal al di fuori del contesto chimico si trova nella trilogia di romanzi dello scrittore americano William Burroughs nota come The Nova Trilogy (pubblicata tra il 1961 e il 1968) e composta dai libri The Soft Machine (tradotto in italiano come La Macchina Morbida), The Ticket That Exploded (Il Biglietto che Esplose) e Nova Express (pubblicato in italiano con lo stesso titolo) in cui compare il personaggio di Uranian Willy the Heavy Metal Kid (chiamato in italiano L'Uraniano Willy il ragazzo del Metallo Pesante). Nei tre romanzi sono presenti anche gli heavy metal boys e si parla di heavy metal addict e heavy metal peril. Come è abbastanza evidente, però, il termine non ha alcun legame con la musica e al contrario vuole designare la dipendenza da droghe, di cui soffriva lo stesso Burroughs.

Il primo uso del termine heavy metal in campo musicale risale al brano Born to be Wild tratto dal primo ed eponimo album degli Steppenwolf uscito nel 1968 che recita all'inizio della seconda strofa I like smoke and lightning, heavy metal thunder, ma di nuovo non descrive un genere musicale, piuttosto potrebbe essere ispirato a quanto scritto nella trilogia di Burroughs.

Secondo una popolare leggenda metropolitana l'espressione heavy metal riferita a un ramo del rock particolarmente energico risalirebbe a una recensione del New York Times di un album di Jimi Hendrix in cui il recensore avrebbe scritto sounds like heavy metal falling from the sky. La leggenda nasce da quanto dichiarato da Chas Chandler nella quinta puntata, intitolata Crossroads (minuto 50, immagine accanto), della serie di documentari della PBS Rock & Roll del 1995 che menziona appunto il presunto articolo del New York Times. Per quanto la similitudine con del metallo che cade dal cielo sia affascinante, basta cercare nell'archivio del New York Times per verificare che tale testo non esiste, come confermato anche da altri ricercatori che si sono avventurati senza successo in questa ricerca; l'articolo più vecchio in cui compaiono le parole Jimi Hendrix ed heavy metal risale al 1975 e parla di come la musica rock stesse perdendo la propria parte danzante in favore di suoni più duri o più seri.

Secondo un'altra teoria l'inventore del termine sarebbe lo scrittore Lester Bangs che nella sua carriera ha scritto sia per Creem sia per Rolling Stone; vengono citati come testi nei quali l'avrebbe usato un suo articolo sui Black Sabbath o una sua recensione di Kick Out The Jams degli MC5, ma né il primo (disponibile solo su Archive.org, prima parte e seconda parte) né il secondo contengono l'espressione heavy metal. Altre fonti riportano invece che il primo scrittore ad utilizzare questo termine fu Sandy Pearlman nel descrivere la canzone Artificial Energy all'interno della recensione dell'album The Notorious Byrd Brothers dei Byrds, ma l'articolo di Pearlman in questione, pubblicato sul numero di maggio del 1968 della rivista Crawdaddy! (disponibile a questo indirizzo, pagina 2 della rivista) non contiene il termine heavy metal.

Secondo quanto riportato da Wikipedia, nel maggio del 1968 Barry Gifford usò il termine heavy metal nel recensire l'album A Long Time Comin' degli Electric Flag su Rolling Stone, la frase dell'autore fu Nobody who's been listening to Mike Bloomfield—either talking or playing—in the last few years could have expected this. This is the new soul music, the synthesis of white blues and heavy metal rock. Premesso che non siamo riusciti a verificare questa informazione perché l'articolo è irreperibile in rete, gli Electric Flag sono comunque un gruppo di musica soul e quindi questo uso del temine heavy metal (se confermato) non può essere considerato il primo che descriva ciò che poi è diventato l'heavy metal che oggi conosciamo. Che le intenzioni di Gifford fossero diverse è stato confermato dallo stesso autore secondo quanto riportato dal libro Louder Than Hell di Jon Wiederhorn e Katherine Turman, Gifford commentò infatti il suo stesso neoconio dicendo I was just describing the sound of the band, who, of course, bore no resemblance to what later became popularly known as heavy metal.

Nel gennaio del 1970, Lucian Truscott usò il termine heavy in una recensione dell'album Led Zeppelin II per definire la musica del gruppo di Robert Plant e Jimmy Page se confrontata con quella dei Blue Cheer o dei Vanilla Fudge. Tuttavia, di nuovo non si parla di heavy metal.

In realtà il primo autore ad usare il termine heavy metal per descrivere un genere di musica rock ricco di distorsioni e di suoni sostenuti (anche se non in termini del tutto positivi) fu Mike Saunders sulle pagine di Rolling Stone. Lo usò una prima volta nel recensire il disco As Safe as Yesterday Is degli Humble Pie nel novembre del 1970 scrivendo nel proprio articolo Here they were a noisy, unmelodic, heavy metal-leaden shit-rock band, with the loud and noisy parts beyond doubt. Un'immagine dell'articolo originale è mostrato dal documentario Heavy: The Story of Metal del 2006 (minuto 12, immagine accanto), il testo integrale è disponibile anche su Archive.org. In seguito ancora Saunders usò di nuovo il termine heavy metal nella sua recensione dell'album Kingdom Come dei Sir Lord Baltimore sul numero di maggio del 1971 di Creem nella quale scrisse Sir Lord Baltimore seems to have down pat most all the best heavy metal tricks in the book. Saunders spiegò anche alla scrittrice Deena Weinstein come l'idea gli venne, inventandola di sana pianta e non attingendo da Burroughs né dagli Steppenwolf.

Nessuno di noi attualmente definirebbe i Sir Lord Baltimore o gli Humble Pie come heavy metal, ma oggi siamo tutti profondamente debitori a Mike Saunders per aver coniato un'espressione entrata nel lessico mondiale e molto probabilmente l'autore non era cosciente che prendendo in prestito un termine dalla chimica avrebbe creato un'espressione destinata a durare in eterno e a condizionare la musica e il linguaggio.

mercoledì 31 agosto 2016

An interview with Myrath

An Italian translation is available here.

Thanks to their distinctive sound made of a mixture of typical metal sounds and Arabic tunes, Tunisian Myrath is the best known metal band in their own country and one of the most relevant realities of the oriental metal scene. The band released four studio albums so far between 2007 and 2016 and their most recent work called Legacy was released at the beginning of this year.

Myrath kindly accepted our request for an interview that we are offering our readers. We would like to thank Myrath for their kindness and availability.


125esima Strada: Hi everyone, first of all thanks for the time you are giving us. Let's talk about the music of Myrath, how did you guys have the idea of mixing Arabic music with power metal?

Elyes: In the beginning we started as a cover band, playing several shows in our home country, Tunisia, yet we all shared a desire to create a unique sound which combines all the elements we are passionate about, both in metal and folkloric music. In Tunisia there is an abundance of captivating folk tunes and interesting melodies, and we wanted to integrate that into metal music. And I must add that our producer Kevin Codfert encouraged us to venture unto this route, as we weren’t very sure how it will all shape up in the beginning, but he was very supportive of the idea of mixing Tunisian oriental tunes with metal.


125esima Strada: What are your thoughts about oriental metal and do you guys consider Myrath an oriental metal band?

Malek: We definitely like oriental metal, as a genre that has a great room for creativity and renewal. We have been labelled under several different genres of metal throughout our career: oriental, power, progressive and so on, yet I think the music is not one or the other. Our music is influenced by Tunisian and North African music, so perhaps Tunisian metal would be a more accurate label.


125esima Strada: I think the video for Believer is striking and resembles Prince of Persia a lot. How did you guys have the idea for the video?

Zaher: Indeed, the video is inspired by Prince of Persia, as we are all fans of that game, in addition to One Thousand and One Nights tales, and such, we found that the general atmosphere or scenery of those stories goes very well with Myrath’s musical identity, and so we decided to create a storyline inspired by those imageries.


125esima Strada: In my opinion Tales of the Sands is the album with the greatest influence of Arabic music. Do you  guys agree and if so how do you guys explain that?

Elyes: I don’t quite agree, perhaps Tunisian and North African elements in Tale of the Sands were more present than in the albums preceding it, but I believe Legacy is the one with the most diversified elements of our Tunisian heritage and metal. In Legacy we managed to balance the roles of each instrument so that guitars, strings or percussions have equal appearances, depending on each song of course, but overall I think Legacy is our signature album so far.


125esima Strada: Five years passed between Tales of the Sands and Legacy. How come? I mean, five years is a very long time.

Anis: Circumstances were not very favourable for us to work on a new album during the past five years. We have sadly lost our manager, Malek’s father, our country, Tunisia, was in political turmoil and we had to break a curfew on some days to make it to the studio and thus many different aspects delayed the production process of the album! Although this has contributed in a way to shaping Legacy; we had the time to reflect on what we wanted our fourth album to be, and renew our inspiration through several tours that took us from USA to India!


125esima Strada: Do you guys think the unstable situation in Tunisia is somehow having an influence on your music?

Malek: Definitely. From a technical perspective as we told you in the previous question it made it a bit difficult for us to write and produce our songs in due time, and musically speaking it has inspired us to write songs and melodies from the spirit of what was going on at the time. Get Your Freedom Back is dedicated to the Tunisian people of the revolution and inspired by them.


125esima Strada: What can you guys tell us about the rock and metal scene in Tunisia? Is Myrath the only valuable band?

Anis: There is a solid metal scene in Tunisia, with its own challenges. It became a little underground post the revolution, but it is advancing too and developing.

We have several metal or rock bands like Carthagods, Persona, Nawather, to name a few. And we are all supported by our fans and community, although there is no governmental or state support for the music, they tend to focus more on pop and mainstream music. As for us, we were the first Tunisian metal band to be signed on a label and gain momentum internationally.


125esima Strada: And what about the metal scene in Africa? Are there interesting scenes in other African countries?

Elyes: Of course. I am aware of several bands in Algeria and Egypt and I am sure other African countries have a metal scene too. Although it is not as thriving as the European scene for example, due to lack of support, it is basically still developing.


125esima Strada: Who are the bands and musicians that influenced you guys most?

Morgan: Many bands, but to name a few it would be Symphony X, Death, Dream Theatre, Pantera, Metallica, Iron Maiden, Black Sabbath and Judas Priest.


125esima Strada: Apart from these ones, who are your favorite bands or musicians in general?

Elyes: Textures, Muse, Periphery, Meshuggah, Ghost, and many more. But those are who come to mind now!

Intervista ai Myrath

L'originale inglese è disponibile qui.

Grazie al loro suono distintivo fatto della fusione tra sonorità tipicamente metal e musica della loro terra, i tunisini Myrath sono la band più nota del panorama metal del loro paese e una delle principali realtà dell'oriental metal. Il gruppo ha all'attivo quattro album pubblicati tra il 2007 e il 2016 e il loro ultimo lavoro è intitolato Legacy ed è stato pubblicato all'inizio di quest'anno.

La band ha cortesemente accettato la nostra proposta per un intervista che pubblichiamo di seguito. Ringraziamo i Myrath per la loro cortesia e disponibilità.


125esima Strada: Ciao ragazzi, anzitutto grazie per il tempo che ci state dedicando. Parliamo della musica dei Myrath, come vi è venuta l’idea di mischiare musica araba e power metal?

Elyes: All'inizio eravamo una cover band e facevamo molti spettacoli nella nostra nazione di origine, la Tunisia, ma tutti avevamo comunque il desiderio di creare un suono distintivo che combinasse gli elementi di cui eravamo appassionati, sia nel metal sia nella musica folk. In Tunisia c’è molta musica folk accattivante e molte melodie interessanti, e volevamo integrarle nel metal. E devo aggiungere che il nostro produttore Kevin Codfert ci ha incoraggiati ad avventurarci per questa strada, mentre noi all'inizio non sapevamo che forma avrebbe avuto, ma lui ci ha supportato molto nell'idea di mischiare le musiche orientali della Tunisia con il metal.


125esima Strada: Cosa pensate dell’oriental metal e considerate i Myrath una band di oriental metal?

Malek: Ci piace molto l’oriental metal, come genere dà molto spazio alla creatività e all'innovazione. Siamo stati etichettati sotto molti generi diversi di metal durante la nostra carriera: oriental, power, progressive e altri ancora, eppure io credo che la nostra musica non appartenga a nessuno di questi. La nostra musica è influenzata dalla musica tunisina e nordafricana, quindi forse metal tunisino sarebbe l’etichetta più corretta.


125esima Strada: Credo che il video di Believer sia molto bello e ricordi molto Prince of Persia. Come vi è venuta l’idea per questo video?

Zaher: Vero, il video è ispirato a Prince of Persia, perché siamo tutti fan di questo gioco, oltre ai racconti come quelli di Le Mille e Una Notte, quindi pensammo che l’atmosfera generale e gli scenari di quelle storie fossero adeguati all'identità musicale dei Myrath e quindi decidemmo di creare una storia ispirata e quegli immaginari.


125esima Strada: Trovo che Tales of the Sands sia l’album con la maggiore influenza di musica araba. Siete d’accordo e se sì come lo spiegate?

Elyes: Non sono d’accordo, forse gli elementi tunisini e nordafricani in Tales of the Sands erano più presenti che negli album precedenti, ma credo che Legacy sia quello con elementi più vari del nostro retaggio tunisino e del metal. In Legacy siamo riusciti a bilanciare i ruoli di ciascuno strumento così che le chitarre, gli archi e le percussioni hanno la stessa presenza, variando da brano a brano ovviamente, ma nel complesso penso che Legacy sia il nostro album più rappresentativo fin qui.


125esima Strada: Sono passati cinque anni da Tales of the Sand a Legacy? Perché? Voglio dire, cinque anni sono un periodo molto lungo.

Anis: Le circostanze non erano molto favorevoli perché potessimo lavorare a un nuovo album negli ultimi cinque anni. Purtroppo abbiamo perso il nostro manager, il padre di Malek, e la nostra nazione, la Tunisia, era in un periodo di instabilità politica e in alcuni giorni abbiamo dovuto violare il coprifuoco per arrivare in studio e quindi molti aspetti diversi hanno causato ritardi nella produzione dell’album! Tuttavia questo ha contribuito in qualche modo a dare una forma a Legacy; abbiamo avuto tempo di riflettere su come volevamo che fosse il nostro quarto album, e rinnovare la nostra ispirazione attraverso i vari tour che abbiamo fatto dagli USA all’India!


125esima Strada: Credete che la situazione instabile della Tunisia abbia influenzato la vostra musica?

Malek: Sicuramente. Da un punto di vista tecnico come ti abbiamo detto nella domanda precedente ci ha reso un po’ difficile scrivere e produrre le nostre canzoni in tempo, e musicalmente ci ha ispirato a scrivere brani e melodie nello spirito di ciò che stava succedendo in quel tempo. Get Your Freedom Back è dedicato al popolo tunisino della rivoluzione e ispirata da loro.


125esima Strada: Cosa ci dite della scena rock e metal della Tunisia? I Myrath sono l’unica band di valore?

Anis: C’è una scena metal solida in Tunisia, con le sue difficoltà. E’ diventata un po’ underground dopo la rivoluzione, ma sta anche facendo progressi e si sta sviluppando.

Abbiamo molte band metal o rock come i Carthagods, i Persona, i Nawather solo per nominarne alcune. E siamo tutti sostenuti dai nostri fans e dalle nostre community, anche se non c’è alcun supporto statale o governativo per la musica, tendono a concentrarsi più sul pop e sulla musica mainstream. Per quanto ci riguarda, siamo stati la prima band tunisina a firmare un contratto con un etichetta e ad avere un'attività internazionale.


125esima Strada: E cosa dite della scena metal in Africa? Ci sono scene interessanti in altre nazioni africane?

Elyes: Si, certo. So di molte band in Algeria e in Egitto e sono sicuro che altre nazioni africane abbiano una scena metal. Anche se non è fiorente come la scena europea ad esempio, per via dello scarso supporto, praticamente si sta ancora sviluppando.


125esima Strada: Quali band vi hanno influenzato di più?

Morgan: Molte band, per nominarne alcune direi Symphony X, Death, Dream Theatre, Pantera, Metallica, Iron Maiden, Black Sabbath e Judas Priest.


125esima Strada: Oltre a queste, quali sono le vostre band o i vostri musicisti preferiti in generale?

Elyes: Textures, Muse, Periphery, Meshuggah, Ghost, e molti altri. Ma questi sono quelli che mi vengono in mente ora!

sabato 27 agosto 2016

Strane somiglianze: The Banana Splits vs Bob Marley

Chiunque sia cresciuto negli anni 70 o 80 ricorda con piacere il programma televisivo The Banana Splits Adventure Hour (trasmesso anche in Italia con il titolo Lo Show dei Banana Splits), spettacolo per bambini creato da Hanna-Barbera che aveva come protagonisti un fittizio gruppo musicale composto da cinque animali di peluche. Lo show andò in onda per la prima volta dal 68 al 70 e fu poi replicato numerose volte. Il brano più famoso tra quelli cantati dallo strano gruppo e per il quale è tuttora ricordato è senza dubbio la sigla del programma intitolata The Tra La La Song (One Banana, Two Banana).

Come è ovvio la sigla del programma fu trasmessa per la prima volta nel 1968 e può quindi stupire un po' che il brano Buffalo Soldier di Bob Marley, pubblicato postumo nel 1983 nell'album Confrontation, le somigli così tanto perché è difficile credere che uno dei più grandi musicisti di sempre abbia copiato uno spettacolo televisivo per bambini. Ma basta un breve ascolto per constatare che il ponte del pezzo di Marley che dice Woy yo yo, wo, yo, yo, yo è molto simile all'inizio del brano dei Banana Splits laddove questi cantano Tra la la, la la la la.

Secondo un articolo della BBC, le somiglianze tra i due pezzi sono effettivamente oltre i limiti del plagio, la questione da chiarire resta pertanto se Marley possa aver ascoltato il brano dei Banana Splits prima di scrivere Buffalo Soldier. Il portavoce della Bob Marley Foundation Paul Kelly ha negato che Marley conoscesse lo show dei Banana Splits e che ne avesse copiato la sigla, anche perché Buffalo Soldier ha un testo molto serio che parla della deportazione degli schiavi africani e non può essere ispirato da una canzone per bambini senza senso.

In realtà le parole di Kelly non provano nulla perché per il suo ruolo non potrebbe ammettere il plagio nemmeno se ne fosse sicuro, inoltre né Kelly né nessun'altro potevano entrare nella testa di Marley per sapere da dove prendeva ispirazione: il cantante avrebbe potuto attingere dai Banana Splits e non raccontarlo a nessuno. Del resto Marley viaggiò molto durante tutta la sua carriera e trascorse lunghi periodi negli USA e in UK ed è pertanto perfettamente plausibile che abbia visto in TV lo show dei Banana Splits.

Comunque sia andata, non conosceremo mai la verità perché gli autori dei Banana Splits non hanno mai avviato alcuna azione legale verso gli eredi di Marley né contro il coautore Noel George Williams (deceduto nel 2015). Possiamo quindi avanzare ipotesi e congetture, ma non sapremo mai se il re del reggae ha copiato intenzionalmente la sigla di uno show per bambini.

mercoledì 24 agosto 2016

Limp Bizkit - Sesto San Giovanni 22/8/2016

Nota: Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il suo prezioso aiuto.

Testi rappati e chitarre distorte sono il marchio distintivo del nu-metal, un sottogenere alternativo del metal che ha spopolato nel decennio attorno al 2000. Dopo mostri sacri come Korn, Deftones e Rage Against The Machine, anche i Limp Bizkit si sono ritagliati il loro posto come esponenti di questo genere in un ventennio di carriera e con oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo.

La loro storia è fatta di alti e bassi. Inizia tutto nel 1995 a Jacksonville, in Florida, ma pubblicano il loro primo disco Three Dollar Bill, Yall$ solamente nel 1997. Il disco non ottiene il successo sperato ma i numerosi tour, l'appoggio dei Korn e del loro produttore, i video passati su MTV e i travestimenti di Wes Borland iniziano a dare alla band un po' di notorietà. Il 1999 è l'anno della svolta, Significant Other lancia la band ai primi posti della classifica e Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water conferma il successo l'anno successivo, grazie anche alla presenza di Take a Look Around tratta dalla colonna sonora di Mission: Impossible 2. Quest'ultimo disco segna un cambio di stile della band verso sonorità più rock.

Successivamente Wes Borland lascia il gruppo e la band si trova un po' musicalmente disorientata, i due lavori successivi Results May Vary e The Unquestionable Truth (Part 1) passano un po' inosservati; il rientro del chitarrista e l'ultimo lavoro in studio Gold Cobra sembrano aver risollevato lievemente il gruppo.

Ma veniamo alla parte divertente.

Il concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni inizia con la violenza di Rollin' tratta dal terzo disco, che conterrà la maggior parte dei pezzi suonati. Seguono a ruota Sad But True (cover dei Metallica) e l'ultimo singolo Gold Cobra, per poi continuare con My Generation fino a Faith (cover di George Michael che la band aveva inciso anche nel proprio primo album) per dare un tocco danzante a una serata intervallata anche da qualche mini siparietto della band.

Poker di successi per la chiusura della performance con Nookie, Smells Like Teen Spirit (altra cover, stavolta dei Nirvana, ma spero lo sappiano tutti), Break Stuff e Take a Look Around.

Fred Durst, oramai a 46 anni, e soci hanno fatto un bel concerto nonostante non facciano uscire nulla degno di nota da quasi 15 anni e il genere sia oramai sulla via del tramonto.

Speriamo però che Stampede of the Disco Elephants, disco in lavorazione la cui uscita è prevista per il 2017 ci riservi qualche bella sorpresa.

martedì 9 agosto 2016

Tarja - The Shadow Self

A due mesi dall'uscita di The Brightest Void, che era stato definito the prequel, esce il nuovo album di inediti della soprano finlandese Tarja Turunen che dà così alle stampe il suo quarto lavoro in poco più di un anno.

L'album è intitolato The Shadow Self e si apre con il brano Innocence di cui era stato pubblicato il video a giugno; il pezzo di apertura chiarisce subito quale sarà la qualità complessiva dell'album perché è semplicemente grandioso, caratterizzato da una base sostenuta dal piano e dalla voce di Tarja che mostra già in avvio tutta la sua estensione. Il brano è già stupendo di suo ed è anche impreziosito da un inciso musicale di circa un minuto guidato ancora dal piano prima che Tarja attacchi a cantare il ritornello l'ultima volta. Con il secondo pezzo intitolato Demons in Me, purtroppo, abbiamo una brutta caduta di stile: il pregio dei Nightwish è di Tarja da solista è sempre stato quello di proporre del symphonic metal privo di growl che è solo una stupidaggine adatta ai gruppi che devono ricorrere a questa tecnica cacofonica per ovviare alla carenza di idee e capacità. Sul growl si espresse bene Rob Halford: I like to hear a singer sing. Quindi, tornando a Tarja, i produttori dovrebbero spiegarci i motivi della presenza della cantante canadese Alissa White-Gluz che con il suo growl rende brutto e fastidioso un brano che senza di lei sarebbe sicuramente stato migliore.

Ma fortunatamente la delusione dura poco e come terza traccia ritroviamo No Bitter End che era già contenuta in The Brightest Void ma che in questa versione dura quasi un minuto in più; il brano ha sancito una virata di Tarja verso il pop ma la qualità della sua musica resta notevole nonostante il brano sia decisamente di easy listening. Il quarto pezzo è intitolato Love to Hate ed è una maestosa e onirica ballad in cui Tarja di nuovo mette a frutto la sua voce cristallina regalando un altro brano di grande effetto. A seguire troviamo la cover di Supremacy dei Muse proposta in versione simile originale ma con la voce di Tarja che raggiunge ovviamente vette ben più acute di quella di Matthew Bellamy; il brano è talmente simile alla versione dei Muse che viene naturale sognare un bel duetto tra Tarja e Bellamy.

La sesta traccia intitolata The Living End è una lenta ballad leggera ed eterea di nuovo basata sulla musica del piano suonato proprio dalla cantante e dalla sua voce che qui suona angelica e leggiadra, il pezzo è arricchito da una bellissima seconda voce sul ritornello eseguita dal fratello di Tarja, Toni Turunen. Segue Diva che come suggerisce il titolo è un brano maestoso e dal sapore operistico in cui Tarja dà la migliore performance dell'intero disco per potenza ed estensione accompagnata da una imponente musica orchestrale. L'ottavo brano è Eagle Eye già presente su The Brightest Void e qui proposta in versione leggermente più breve, una ballad piuttosto tradizionale ma comunque di grande valore che vede ancora la presenza del fratello Toni Turunen.

Alla nona traccia troviamo Undertaker, brano veloce e aggressivo dal sapore anni 80 nelle cui strofe Tarja dimostra di saper cantare alla grande anche note insolitamente basse per poi risalire nel ritornello verso le tonalità che conosciamo. La decima traccia è intitolata Calling From the Wild ed è quella che più ricorda le produzioni passate di Tarja, il brano parte come una ballad per poi accelerare grazie alle poderose chitarre che lo riportano su panorami a cui la cantante ci ha abituato.

Chiude il disco un altra ballad melodica intitolata Too Many, anch'essa piuttosto tradizionale e anch'essa influenzata dagli anni 80, ma che conferma di nuovo quali sono le capacità canore della nostra soprano. La traccia contiene anche una ghost track del tutto trascurabile in cui Tarja dice This Is a Hit Song su una base dance che stona fortemente con il resto dell'album.

The Shadow Self è bellissimo anche a livello di packaging. Mentre il CD di The Brightest Void era interamente bianco, questo è interamente nero su entrambe le facciate e quella superiore riporta disegnati i solchi del vinile: ottimo lavoro anche dal punto di vista grafico.

A parte Demons in You l'album è un vero capolavoro che propone dieci ottimi brani dalle sonorità molto varie. Con questo album e con il suo prequel Tarja si sta forse avvicinando a sonorità meno dure di quanto ha fatto in precedenza virando leggermente verso il pop, ma questo non deve ingannare: la qualità delle sue produzioni non cala minimamente e al contrario con questi nuovi dischi Tarja sta dimostrando di saper ampliare il proprio repertorio in modo molto convincente e di non essere ancorata ad alcun modello. The Shadow Self è in sintesi un gran disco che aggiunge una pietra importante alla discografia della soprano e che dimostra ancora una volta, e non che ce ne fosse bisogno, che Tarja non ha eguali nel panorama rock e metal a livello mondiale.

domenica 7 agosto 2016

The Dead Daisies - Make Some Noise

Ci sono supergruppi che si limitano a incidere album in studio, e poi ci sono quelli che fanno anche tournée e suonano dal vivo. E' questo il caso degli australoamericani Dead Daisies che oltre ad avere il merito di suonare nelle arene e negli stadi hanno anche quello di essere incredibilmente prolifici, visto che il loro nuovo album Make Some Noise esce a poco più di un anno di distanza dal precedente Revolución.

Rispetto al lavoro precedente la formazione del gruppo ha visto qualche cambio con la fuoriuscita di Richard Fortus e Dizzy Reed e l'ingresso di Doug Aldrich alla chitarra. Gli altri membri del gruppo restano David Lowy alla chitarra ritmica, Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria e John Corabi (ex vocalist dei Mötley Crüe) alla voce.

Se la formazione cambia, non cambia invece lo stile musicale del gruppo. Come dice il titolo stesso dell'album, Make Some Noise offre del sano hard rock festaiolo e divertente con forti venature blues soprattutto nei riff di chitarra; del resto l'amore dei Dead Daisies per il blues non sorprende visto che Revolución conteneva una cover di Evil di Howlin' Wolf. La band infatti si ispira chiaramente ai mostri sacri del passato, come gli Aerosmith o i Van Halen degli inizi, che hanno fatto dal proprio marchio di fabbrica il connubio tra rock e blues. Ma la vera peculiarità della musica dei Dead Daisies sta nella forte e graffiante voce di Corabi che anche questa volta mette in campo tutta la sua esperienza e capacità ed è proprio Corabi, va riconosciuto, che ha concesso alla band di fare un vero salto di qualità quando tra il primo e il secondo album ha preso il posto del pur bravo ma inferiore Jon Stevens.

Il brano di apertura del disco, intitolato Long Way to Go, era stato pubblicato in video a giugno e dà subito una bella scarica di energia che si ritrova in tutti gli altri pezzi. Tra i brani migliori troviamo anche Song And a Prayer in cui lo stile degli Aerosmith si sente forte e Corabi sembra imitare Tyler anche nel cantato; spiccano anche le energiche Mainline e Freedom che si contendono il titolo del brano più veloce dell'intero disco, la festaiola e coinvolgente Last Time I Saw the Sun, la trascinante title track la cui strumentazione musicale ricorda We Will Rock You e l'allegra All The Same.

L'album contiene anche due preziose cover. La prima è Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, riproposta in versione molto simile all'originale ma resa più energica dal suono delle chitarre; la seconda è Join Together degli Who che viene trasformata in un inno travolgente mantenendone ovviamente il coro sul ritornello che anche in questa versione ne è il punto di forza.

Il nuovo album dei Dead Daisies conferma le aspettative regalando dodici tracce di puro rock sanguigno con forti influenze blues come nella tradizioni delle band che li hanno ispirati. Del resto se una delle caratteristiche distintive dei Dead Daisies è la loro solerte attività dal vivo la band ha raggiunto il proprio scopo incidendo dodici pezzi che si prestano tantissimo ad essere suonati davanti alla folla. Un altro merito indiscusso di questa band è di dare finalmente il giusto spazio alla voce di John Corabi, uno dei cantanti più sottovalutati della storia, che troppo spesso viene considerato solo sostituto temporaneo di Vince Neil. L'unica critica che può essere mossa a Make Some Noise è che i suoni proposti sono effettivamente un po' troppo simili tra loro e l'album non brilla per varietà; ma è anche vero che dai supergruppi non ci si aspetta innovazione o sperimentazione, ma piuttosto che regalino della musica divertente che sappia coniugare immediatezza e qualità. E questo disco sicuramente centra l'obiettivo.