sabato 27 agosto 2016

Strane somiglianze: The Banana Splits vs Bob Marley

Chiunque sia cresciuto negli anni 70 o 80 ricorda con piacere il programma televisivo The Banana Splits Adventure Hour (trasmesso anche in Italia con il titolo Lo Show dei Banana Splits), spettacolo per bambini creato da Hanna-Barbera che aveva come protagonisti un fittizio gruppo musicale composto da cinque animali di peluche. Lo show andò in onda per la prima volta dal 68 al 70 e fu poi replicato numerose volte. Il brano più famoso tra quelli cantati dallo strano gruppo e per il quale è tuttora ricordato è senza dubbio la sigla del programma intitolata The Tra La La Song (One Banana, Two Banana).

Come è ovvio la sigla del programma fu trasmessa per la prima volta nel 1968 e può quindi stupire un po' che il brano Buffalo Soldier di Bob Marley, pubblicato postumo nel 1983 nell'album Confrontation, le somigli così tanto perché è difficile credere che uno dei più grandi musicisti di sempre abbia copiato uno spettacolo televisivo per bambini. Ma basta un breve ascolto per constatare che il ponte del pezzo di Marley che dice Woy yo yo, wo, yo, yo, yo è molto simile all'inizio del brano dei Banana Splits laddove questi cantano Tra la la, la la la la.

Secondo un articolo della BBC, le somiglianze tra i due pezzi sono effettivamente oltre i limiti del plagio, la questione da chiarire resta pertanto se Marley possa aver ascoltato il brano dei Banana Splits prima di scrivere Buffalo Soldier. Il portavoce della Bob Marley Foundation Paul Kelly ha negato che Marley conoscesse lo show dei Banana Splits e che ne avesse copiato la sigla, anche perché Buffalo Soldier ha un testo molto serio che parla della deportazione degli schiavi africani e non può essere ispirato da una canzone per bambini senza senso.

In realtà le parole di Kelly non provano nulla perché per il suo ruolo non potrebbe ammettere il plagio nemmeno se ne fosse sicuro, inoltre né Kelly né nessun'altro potevano entrare nella testa di Marley per sapere da dove prendeva ispirazione: il cantante avrebbe potuto attingere dai Banana Splits e non raccontarlo a nessuno. Del resto Marley viaggiò molto durante tutta la sua carriera e trascorse lunghi periodi negli USA e in UK ed è pertanto perfettamente plausibile che abbia visto in TV lo show dei Banana Splits.

Comunque sia andata, non conosceremo mai la verità perché gli autori dei Banana Splits non hanno mai avviato alcuna azione legale verso gli eredi di Marley né contro il coautore Noel George Williams (deceduto nel 2015). Possiamo quindi avanzare ipotesi e congetture, ma non sapremo mai se il re del reggae ha copiato intenzionalmente la sigla di uno show per bambini.

mercoledì 24 agosto 2016

Limp Bizkit - Sesto San Giovanni 22/8/2016

Nota: Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il suo prezioso aiuto.

Testi rappati e chitarre distorte sono il marchio distintivo del nu-metal, un sottogenere alternativo del metal che ha spopolato nel decennio attorno al 2000. Dopo mostri sacri come Korn, Deftones e Rage Against The Machine, anche i Limp Bizkit si sono ritagliati il loro posto come esponenti di questo genere in un ventennio di carriera e con oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo.

La loro storia è fatta di alti e bassi. Inizia tutto nel 1995 a Jacksonville, in Florida, ma pubblicano il loro primo disco Three Dollar Bill, Yall$ solamente nel 1997. Il disco non ottiene il successo sperato ma i numerosi tour, l'appoggio dei Korn e del loro produttore, i video passati su MTV e i travestimenti di Wes Borland iniziano a dare alla band un po' di notorietà. Il 1999 è l'anno della svolta, Significant Other lancia la band ai primi posti della classifica e Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water conferma il successo l'anno successivo, grazie anche alla presenza di Take a Look Around tratta dalla colonna sonora di Mission: Impossible 2. Quest'ultimo disco segna un cambio di stile della band verso sonorità più rock.

Successivamente Wes Borland lascia il gruppo e la band si trova un po' musicalmente disorientata, i due lavori successivi Results May Vary e The Unquestionable Truth (Part 1) passano un po' inosservati; il rientro del chitarrista e l'ultimo lavoro in studio Gold Cobra sembrano aver risollevato lievemente il gruppo.

Ma veniamo alla parte divertente.

Il concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni inizia con la violenza di Rollin' tratta dal terzo disco, che conterrà la maggior parte dei pezzi suonati. Seguono a ruota Sad But True (cover dei Metallica) e l'ultimo singolo Gold Cobra, per poi continuare con My Generation fino a Faith (cover di George Michael che la band aveva inciso anche nel proprio primo album) per dare un tocco danzante a una serata intervallata anche da qualche mini siparietto della band.

Poker di successi per la chiusura della performance con Nookie, Smells Like Teen Spirit (altra cover, stavolta dei Nirvana, ma spero lo sappiano tutti), Break Stuff e Take a Look Around.

Fred Durst, oramai a 46 anni, e soci hanno fatto un bel concerto nonostante non facciano uscire nulla degno di nota da quasi 15 anni e il genere sia oramai sulla via del tramonto.

Speriamo però che Stampede of the Disco Elephants, disco in lavorazione la cui uscita è prevista per il 2017 ci riservi qualche bella sorpresa.

martedì 9 agosto 2016

Tarja - The Shadow Self

A due mesi dall'uscita di The Brightest Void, che era stato definito the prequel, esce il nuovo album di inediti della soprano finlandese Tarja Turunen che dà così alle stampe il suo quarto lavoro in poco più di un anno.

L'album è intitolato The Shadow Self e si apre con il brano Innocence di cui era stato pubblicato il video a giugno; il pezzo di apertura chiarisce subito quale sarà la qualità complessiva dell'album perché è semplicemente grandioso, caratterizzato da una base sostenuta dal piano e dalla voce di Tarja che mostra già in avvio tutta la sua estensione. Il brano è già stupendo di suo ed è anche impreziosito da un inciso musicale di circa un minuto guidato ancora dal piano prima che Tarja attacchi a cantare il ritornello l'ultima volta. Con il secondo pezzo intitolato Demons in Me, purtroppo, abbiamo una brutta caduta di stile: il pregio dei Nightwish è di Tarja da solista è sempre stato quello di proporre del symphonic metal privo di growl che è solo una stupidaggine adatta ai gruppi che devono ricorrere a questa tecnica cacofonica per ovviare alla carenza di idee e capacità. Sul growl si espresse bene Rob Halford: I like to hear a singer sing. Quindi, tornando a Tarja, i produttori dovrebbero spiegarci i motivi della presenza della cantante canadese Alissa White-Gluz che con il suo growl rende brutto e fastidioso un brano che senza di lei sarebbe sicuramente stato migliore.

Ma fortunatamente la delusione dura poco e come terza traccia ritroviamo No Bitter End che era già contenuta in The Brightest Void ma che in questa versione dura quasi un minuto in più; il brano ha sancito una virata di Tarja verso il pop ma la qualità della sua musica resta notevole nonostante il brano sia decisamente di easy listening. Il quarto pezzo è intitolato Love to Hate ed è una maestosa e onirica ballad in cui Tarja di nuovo mette a frutto la sua voce cristallina regalando un altro brano di grande effetto. A seguire troviamo la cover di Supremacy dei Muse proposta in versione simile originale ma con la voce di Tarja che raggiunge ovviamente vette ben più acute di quella di Matthew Bellamy; il brano è talmente simile alla versione dei Muse che viene naturale sognare un bel duetto tra Tarja e Bellamy.

La sesta traccia intitolata The Living End è una lenta ballad leggera ed eterea di nuovo basata sulla musica del piano suonato proprio dalla cantante e dalla sua voce che qui suona angelica e leggiadra, il pezzo è arricchito da una bellissima seconda voce sul ritornello eseguita dal fratello di Tarja, Toni Turunen. Segue Diva che come suggerisce il titolo è un brano maestoso e dal sapore operistico in cui Tarja dà la migliore performance dell'intero disco per potenza ed estensione accompagnata da una imponente musica orchestrale. L'ottavo brano è Eagle Eye già presente su The Brightest Void e qui proposta in versione leggermente più breve, una ballad piuttosto tradizionale ma comunque di grande valore che vede ancora la presenza del fratello Toni Turunen.

Alla nona traccia troviamo Undertaker, brano veloce e aggressivo dal sapore anni 80 nelle cui strofe Tarja dimostra di saper cantare alla grande anche note insolitamente basse per poi risalire nel ritornello verso le tonalità che conosciamo. La decima traccia è intitolata Calling From the Wild ed è quella che più ricorda le produzioni passate di Tarja, il brano parte come una ballad per poi accelerare grazie alle poderose chitarre che lo riportano su panorami a cui la cantante ci ha abituato.

Chiude il disco un altra ballad melodica intitolata Too Many, anch'essa piuttosto tradizionale e anch'essa influenzata dagli anni 80, ma che conferma di nuovo quali sono le capacità canore della nostra soprano. La traccia contiene anche una ghost track del tutto trascurabile in cui Tarja dice This Is a Hit Song su una base dance che stona fortemente con il resto dell'album.

The Shadow Self è bellissimo anche a livello di packaging. Mentre il CD di The Brightest Void era interamente bianco, questo è interamente nero su entrambe le facciate e quella superiore riporta disegnati i solchi del vinile: ottimo lavoro anche dal punto di vista grafico.

A parte Demons in You l'album è un vero capolavoro che propone dieci ottimi brani dalle sonorità molto varie. Con questo album e con il suo prequel Tarja si sta forse avvicinando a sonorità meno dure di quanto ha fatto in precedenza virando leggermente verso il pop, ma questo non deve ingannare: la qualità delle sue produzioni non cala minimamente e al contrario con questi nuovi dischi Tarja sta dimostrando di saper ampliare il proprio repertorio in modo molto convincente e di non essere ancorata ad alcun modello. The Shadow Self è in sintesi un gran disco che aggiunge una pietra importante alla discografia della soprano e che dimostra ancora una volta, e non che ce ne fosse bisogno, che Tarja non ha eguali nel panorama rock e metal a livello mondiale.

domenica 7 agosto 2016

The Dead Daisies - Make Some Noise

Ci sono supergruppi che si limitano a incidere album in studio, e poi ci sono quelli che fanno anche tournée e suonano dal vivo. E' questo il caso degli australoamericani Dead Daisies che oltre ad avere il merito di suonare nelle arene e negli stadi hanno anche quello di essere incredibilmente prolifici, visto che il loro nuovo album Make Some Noise esce a poco più di un anno di distanza dal precedente Revolución.

Rispetto al lavoro precedente la formazione del gruppo ha visto qualche cambio con la fuoriuscita di Richard Fortus e Dizzy Reed e l'ingresso di Doug Aldrich alla chitarra. Gli altri membri del gruppo restano David Lowy alla chitarra ritmica, Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria e John Corabi (ex vocalist dei Mötley Crüe) alla voce.

Se la formazione cambia, non cambia invece lo stile musicale del gruppo. Come dice il titolo stesso dell'album, Make Some Noise offre del sano hard rock festaiolo e divertente con forti venature blues soprattutto nei riff di chitarra; del resto l'amore dei Dead Daisies per il blues non sorprende visto che Revolución conteneva una cover di Evil di Howlin' Wolf. La band infatti si ispira chiaramente ai mostri sacri del passato, come gli Aerosmith o i Van Halen degli inizi, che hanno fatto dal proprio marchio di fabbrica il connubio tra rock e blues. Ma la vera peculiarità della musica dei Dead Daisies sta nella forte e graffiante voce di Corabi che anche questa volta mette in campo tutta la sua esperienza e capacità ed è proprio Corabi, va riconosciuto, che ha concesso alla band di fare un vero salto di qualità quando tra il primo e il secondo album ha preso il posto del pur bravo ma inferiore Jon Stevens.

Il brano di apertura del disco, intitolato Long Way to Go, era stato pubblicato in video a giugno e dà subito una bella scarica di energia che si ritrova in tutti gli altri pezzi. Tra i brani migliori troviamo anche Song And a Prayer in cui lo stile degli Aerosmith si sente forte e Corabi sembra imitare Tyler anche nel cantato; spiccano anche le energiche Mainline e Freedom che si contendono il titolo del brano più veloce dell'intero disco, la festaiola e coinvolgente Last Time I Saw the Sun, la trascinante title track la cui strumentazione musicale ricorda We Will Rock You e l'allegra All The Same.

L'album contiene anche due preziose cover. La prima è Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, riproposta in versione molto simile all'originale ma resa più energica dal suono delle chitarre; la seconda è Join Together degli Who che viene trasformata in un inno travolgente mantenendone ovviamente il coro sul ritornello che anche in questa versione ne è il punto di forza.

Il nuovo album dei Dead Daisies conferma le aspettative regalando dodici tracce di puro rock sanguigno con forti influenze blues come nella tradizioni delle band che li hanno ispirati. Del resto se una delle caratteristiche distintive dei Dead Daisies è la loro solerte attività dal vivo la band ha raggiunto il proprio scopo incidendo dodici pezzi che si prestano tantissimo ad essere suonati davanti alla folla. Un altro merito indiscusso di questa band è di dare finalmente il giusto spazio alla voce di John Corabi, uno dei cantanti più sottovalutati della storia, che troppo spesso viene considerato solo sostituto temporaneo di Vince Neil. L'unica critica che può essere mossa a Make Some Noise è che i suoni proposti sono effettivamente un po' troppo simili tra loro e l'album non brilla per varietà; ma è anche vero che dai supergruppi non ci si aspetta innovazione o sperimentazione, ma piuttosto che regalino della musica divertente che sappia coniugare immediatezza e qualità. E questo disco sicuramente centra l'obiettivo.

venerdì 5 agosto 2016

Angeles del Infierno - Pacto con el Diablo

Pacto con el Diablo è il primo album in studio inciso dai baschi Angeles del Infierno, una delle band più rappresentative della scena metal spagnola. L'album fu pubblicato nel 1984, quando la band era ancora composta dalla propria formazione originale che vedeva Juan Gallardo alla voce, Robert Alvarez e Manu Garcia alle chitarre, Santi Rubio al basso e Iñaki Munita alla batteria.

Come suggeriscono il nome del gruppo, il titolo dell'album e i colori dello stesso, la band si ispira a tematiche luciferine e infernali e gli stessi temi sono ripresi in tutte le loro produzioni successive. L'album è composto da dieci brani e già dalle prime note del primo pezzo si capisce quale direzione la band voglia prendere; il suono degli Angeles del Infierno è infatti caratterizzato da un metal classico di ispirazione anglosassone che vira a tratti verso lo speed metal; la musica della band è caratterizzata dall'onnipresente suono robusto delle chitarre e dalla voce tonante di Gallardo che canta quasi unicamente note molto alte, riuscendo comunque a estendere ulteriormente verso l'alto il proprio cantato con numerosi acuti come nella tradizione dei migliori vocalist del genere.

Tra i brani migliori troviamo l'iconica traccia di apertura Maldito sea tu Nombre che a distanza di trent'anni è ancora uno dei pezzi più noti del gruppo. Oltre a questa spiccano anche El Principio del Fin che si apre con il suono di un martello pneumatico per poi esplodere in un metal energico e penetrante e Condenados a Vivir contraddistinta da un potente riff di chitarra in apertura. Dei dieci brani nove sono forti e veloci, oltre a questi c'è un'unica ballad intitolata Sangre in cui il ritmo rallenta senza perdere il vigore che contraddistingue l'intero disco.

Pacto con el Diablo è un vero capolavoro del metal che non ha nulla da invidiare ai dischi delle band più blasonate del genere. Lo stile degli Angeles del Infierno resterà invariato anche nell'album successivo del 1985 intitolato Diabolicca. Dall'uscita del secondo album la band vide numerosi cambi di formazione che hanno lasciato i soli Gallardo e Alvarez come membri fissi e contestualmente il gruppo ha gradualmente abbandonato il metal per un rock più tradizionale; del resto ripetendo gli stessi suoni avrebbe finito per produrre album tutti uguali o simili. Purtroppo il gruppo ha realizzato solo sei LP dal 1986 al 2003, ma aver limitato il numero delle incisioni ha concesso alla band di creare sempre musica di ottimo livello ritagliandosi un posto di rilievo nella ricca scena iberica.

venerdì 29 luglio 2016

I veri luoghi di Morrison Hotel

Morrison Hotel è uno degli album più noti e rappresentativi della carriera dei Doors, non solo per la presenza di alcuni dei brani storici come Roadhouse Blues e Peace Frog, ma anche perché segnò l'inizio del cambio di rotta dal rock psichedelico al blues rock verso cui la band avrebbero virato con più decisione nell'album successivo L.A. Woman.

Oltre alla musica ciò che dall'uscita del disco attira l'attenzione di fan e critici sono le foto di copertina che ritraggono due luoghi di Los Angeles che da allora sono diventati storici.

L'album è diviso in due metà: il primo lato del vinile è intitolato Hard Rock Cafe, mentre il secondo porta il nome dell'album intero, Morrison Hotel. A ciascuno dei due lati corrisponde una delle immagini di copertina: la foto frontale ritrae infatti la band al Morrison Hotel, mentre il retro mostra l'ingresso del locale chiamato Hard Rock Cafe.

Il Morrison Hotel si trovava al numero 1246 di South Hope Street, a Los Angeles, a poca distanza dallo Staples Center. L'hotel è oggi chiuso e in stato di abbandono. Confrontando le immagini disponibili su Google Street View con scatti risalenti al periodo in cui l'hotel era ancora attivo (ad esempio quelle pubblicate da FeelNumb o da PopSpots) si riconosce anche il portone a destra dell'hotel. Non ci è dato di sapere quando l'esercizio abbia chiuso, sappiamo però che nel 2004 era ancora aperto (come risulta da questo articolo del Los Angeles Time) e che nel 2008 era già chiuso, come si può verificare dalla più vecchia immagine disponibile su Google Street View, pertanto l'attività si è interrotta in quel periodo.

L'Hard Rock Cafe si trovava invece al 300 East 5th Street, a Los Angeles. dove oggi c'è un negozio di alimentari chiamato Green Apple Market. Secondo il fotografo Henry Diltz, autore di entrambe le foto, l'Hard Rock Cafe dei Doors avrebbe ispirato il nome dell'omonima catena di ristoranti, alberghi e casinò; in realtà la sua è solo una congettura perché nella storia ufficiale della catena nata a Londra nel 1971 non c'è alcuna menzione al disco dei Doors.

domenica 24 luglio 2016

Pino Scotto Bubbles Fest - Pavia, 23/7/2016

Credit: Silvio Piccinini
Come sarà vedere Pino Scotto dal vivo? mi chiedevo in attesa di vedere per la prima volta il rocker napoletano in concerto. Del resto la sua carriera è stata così lunga e varia che non sapevo se avrei dovuto aspettarmi una maggioranza di pezzi dei Vanadium, dei Fire Trails o della sua carriera solista.

Prima di trovare una risposta a queste domande, appena entrato nel fossato del castello Visconteo di Pavia mi sono trovato immerso nella festa: quella del Bubbles Fest! Il Bubbles Fest non è solo un festival di quattro giorni di musica, ma è anzitutto una grande festa organizzata alla perfezione da un gruppo di volontari in cui si respira l'aria delle grigliate tra amici di mezza estate, in allegria, serenità e con tanta buona musica.

I gruppo di supporto hanno suonato fino a poco prima delle 23, quando Pino e la sua band sono saliti sul palco dando inizio a oltre un'ora di rock forsennato e carico di energia. La risposta ai miei dubbi è arrivata ben presto: Pino ha ricoperto tutta la sua carriera aprendo il concerto con alcuni pezzi dei Fire Trails, per poi passare ad alcuni tratti dal repertorio dei Vanadium e dedicando la seconda metà dello spettacolo alla sua carriera da solista, compresi i due inediti tratti dal suo ultimo album Live for a Dream. Il rock e l'energia della sua musica sono intervallati solo dai coloriti commenti socio-politici di Pino a cui il suo pubblico è ben abituato.

La band di Pino è stellare e la loro esecuzione è perfetta in ogni pezzo. Il batterista Marco Di Salvia resterà impresso nella mente degli spettatori tanto quanto Pino per la sua esecuzione energica e coinvolgente; non da meno sono il bassista Dario Bucca e il chitarrista Steve Angarthal a cui Pino cede il microfono a metà concerto per potersi concedere qualche minuto di pausa e per poter dar modo al chitarrista di eseguire un pezzo dal suo nuovo album solista intitolato Uranus And Gaia.

Credit: Silvio Piccinini
Ma oltre alla musica anche la voce di Pino conquista il pubblico, nonostante abbia passato i sessant'anni la potenza vocale non l'ha abbandonato così come l'estensione che gli consente degli scream che farebbero impallidire molti colleghi trentenni.

Al termine del concerto Pino si ferma sotto al palco a salutare i suoi fan a cui racconta di voler essere una persona vera prima ancora di essere un musicista, perché nonostante una carriera quasi quarantennale è ancora incredibilmente vicino al suo pubblico e molto più umano di tanti altri che hanno meno della metà della sua capacità e qualità.

Come recitava la scritta sullo sfondo del palco, durante la serata è stata più volte ricordato il leggendario Lemmy Kilmster recentemente scomparso. Perché il rock è anzitutto voglia di stare insieme e anche di ricordare chi ne ha scritto la storia ma ora non c'è più.

Grazie Pino e grazie Bubbles Fest per la bella serata. A presto!