giovedì 24 maggio 2018

Perché i Black Sabbath si chiamano così?

I Black Sabbath sono una delle band più note al mondo essendo stati tra i gruppi che negli anni 70 hanno forgiato il suono del rock dei decenni successivi, gettando anche le basi dell'heavy metal, che in quel periodo muoveva i primi passi. Se la loro carriera è notissima a chiunque e se la band non ha certo bisogno di presentazioni, è invece poco noto da dove il quintetto di Birmingham abbia tratto il proprio nome.

Come raccontato dal chitarrista Tony Iommi nella sua autobiografia intitolata Iron Man: My Journey Through Heaven and Hell with Black Sabbath pubblicata nel 2011 e anche da Ozzy Osbourne in I Am Ozzy del 2009, la band in origine si chiamava Earth, ma si vide costretta a cambiare nome dopo che in un concerto a Carlisle, vicino a Manchester, nel 1969 furono scambiati per un'altra band con lo stesso nome. Dopo che salirono sul palco e iniziarono a suonare, l'organizzatore li interruppe costringendoli ad abbandonare la scena, perché in realtà si aspettavano il gruppo omonimo che avrebbe dovuto interpretare pezzi pop come Mellow Yellow o California Dreamin'.

La band capitanata da Ozzy e Iommi decise quindi di assumere come proprio nome il titolo di quello che era, nelle esibizioni dal vivo, il loro pezzo di maggior successo, ovvero Black Sabbath, che l'anno dopo sarebbe anche diventato il titolo del primo LP.

Iommi e Ozzy spiegano che il pezzo nacque da un'idea del bassista Geezer Butler che trasse l'ispirazione dalla locandina di un film che veniva proiettato in un cinema che si trovava nelle vicinanze della loro sala prove. Il film in questione era I Tre Volti Della Paura del regista italiano Mario Bava e interpretato da Boris Karloff che i distributori d'oltremanica tradussero appunto con il titolo di Black Sabbath.


Come è abbastanza evidente la traduzione del titolo è molto libera. Il motivo per cui usarono un titolo così diverso dall'originale e slegato dal film è che i distributori inglesi tentarono di sfruttare il successo di un altro film di Bava, La Maschera Del Demonio, che nel Regno Unito era stato distribuito come Black Sunday, ma ovviamente i due film non hanno alcun legame se non il fatto di essere opera dello stesso regista.

Curiosamente i Black Sabbath non furono l'unico gruppo a pubblicare un pezzo intitolato Black Sabbath in quegli anni. Infatti nel 1969, cioè l'anno prima dell'uscita del primo album della band di Ozzy, gli americani Coven incisero un pezzo intitolato Black Sabbath per il loro primo album Witchcraft Destroys Minds & Reaps Souls. Gli strani incroci del destino tra le due band non si esauriscono qui; infatti il bassista dei Coven si chiama Greg Osbourne e usa da sempre il soprannome di Oz Osbourne. Tuttavia le sonorità delle due band sono molto diverse, basti pensare che la voce principale dei Coven è una donna, e Ozzy utilizza tale soprannome dalla scuola elementare (come spiegato nella già citata autobiografia), pertanto le presunte somiglianze tra le due band sono solo un caso.

Tuttavia all'uscita del primo album della band di Ozzy, il celebre critico Lester Bangs lo stroncò con un duro articolo su Rolling Stone che, in riferimento alle tematiche trattate e ai rimandi all'occultismo, definisce i Black Sabbath "England's answer to Coven".

Ma nonostante la grandezza dell'autore, le sue previsioni si rivelarono abbondantemente sbagliate. I Black Sabbath sono tuttora universalmente riconosciuti come una delle band più influenti del pianeta, mentre i Coven restano una buona band con pochi album all'attivo e ben lontani dalla fama di Ozzy, Iommi e dei loro soci.

sabato 19 maggio 2018

Giacomo Voli - Monticelli d'Ongina, 18/5/2018

Il cortile del palazzo Tredicini-Archieri di Monticelli d'Ongina è la location perfetta per un concerto in una fresca serata di primavera. Se poi l'artista che si esibisce è una delle migliori voci del panorama rock mondiale, il concerto diventa un evento imperdibile e la fortuna che sia vicino a casa fa sì che ci si metta in macchina volentieri per partecipare a quella che sarà una serata di grande musica.

Mentre per le strade del paese, che nonostante sia poco noto è di una bellezza mozzafiato, si svolge l'annuale Festa dei Fiori, il cortile ospita il live di Giacomo Voli con la sua band rinnovata che è solo alla seconda esibizione dal vivo con questo straordinario vocalist che alterna la sua attività solista a quella di frontman dei Rhapsody of Fire.

La serata è stata aperta dal Quartetto Bazzini che ha scaldato il pubblico interpretando alcuni classici del rock dei decenni scorsi, attingendo dalla discografia di gruppi come Metallica e Queen, con due violini, viola e violoncello, senza rinunciare a un tocco di classicità con il Canone di Pachelbel, prima di lasciare la scena al quintetto di Giacomo Voli.

La GV Band è salita sul palco poco prima delle 23 per regalare al pubblico un'altra serata di rock indimenticabile. La voce di Voli è semplicemente perfetta e inarrivabile per potenza ed estensione, e a Monticelli d'Ongina ha dato anche prova di incredibile versatilità spaziando tra generi e decenni diversi come pochissimi sanno fare. Anche la band si muove alla perfezione e nonostante sia alle prime esibizioni insieme sembra avere l'intesa delle band più navigate. Il gruppo ha interpretato i pezzi dei primi due dischi del cantante di Correggio, Ancora Nell'Ombra del 2015 e il nuovissimo Prigionieri Liberi, con l'aggiunta di alcune cover reinterpretate nel loro stile, qualche sperimentazione tra medley e mash-up e tanta simpatia da parte del cantante che alterna al canto un po' di umorismo che non guasta e rende il tutto più divertente.

Il concerto si apre con la travolgente Un Capitale e poco dopo l'inizio Voli propone la prima rielaborazione con un medley tra Segni di Tregua e Charlie Big Potato degli Skunk Anansie. Circa a metà dell'esibizione Giacomo mostra il lato più "dolce" (come lui stesso l'ha definito) della propria musica con un momento in acustico in cui si accompagna da solo alla chitarra per qualche pezzo più raccolto, come Il Libro dell'Assenza, Ridi Nel Tuo Caffè e The Magic of The Wizard's Dream dei Rhapsody of Fire.

Nella seconda parte de concerto il gruppo interpreta anche le cover di Ti Sento dei Matia Bazar e Impressioni di Settembre della PFM che Voli ha inciso anche nei propri dischi in studio. Poco prima della chiusura il quintetto omaggia la cantante Elisa con due sue cover. La prima è Luce che la GV Band trasforma in un pezzo hard rock mostrando lati inediti di un pezzo famosissimo e risvolti a cui neppure gli autori originali avevano pensato, l'esperimento è riuscito alla grande e il pubblico lo apprezza anche se Giacomo definisce scherzosamente la propria versione "un abominio". La seconda è Labyrinth che si apre con un bellissimo vocalizzo iniziale, che Voli impreziosisce con le sue doti canore, e che qui viene eseguita in un'inedita versione in un mash-up con Kashmir dei Led Zeppelin.

Giacomo chiude il live con tre pezzi proprio del quartetto capitanato da Robert Plant che esegue in rapida successione. Si parte con Black Dog per poi passare a Rock And Roll, che interpretata da Voli dà sempre un'emozione particolare perché rimanda la memoria alla Blind Audition di The Voice of Italy di quattro anni fa che cambiò la storia del rock del nostro paese, e si chiude con Whole Lotta Love.

Al termine del concerto Giacomo non si fa attendere e gira nel pubblico scambiando battute, strette di mano e concedendosi alle foto di chi le chiede, dimostrando il lato umano di un talento straordinario che nonostante il successo e le capacità ineguagliate mantiene un'umiltà davvero unica. Che una leggenda del rock venga a ridere e scherzare con il pubblico non succede tutti i giorni, ma Giacomo Voli è così.

Purtroppo il concerto è finito, e la notte è piuttosto fredda per essere metà maggio, per non lasciare le emozioni del cortile di Monticelli sulla strada verso casa girano ancora nell'autoradio Ancora Nell'Ombra e Prigionieri Liberi, perché la serata è stata memorabile e almeno facciamo finta che prosegua fino a casa.

Grazie Giacomo, grazie GV Band. Alla prossima!

martedì 15 maggio 2018

Francess - Submerge

Il 2018 vede il ritorno dell'italo-giamaicana Francess, la voce più calda dell'R&B nostrano, con un nuovo album di inediti che esce a un solo anno di distanza dal precedente A Bit of Italiano del 2017 e a tre dal precedente disco di pezzi nuovi intitolato Apnea del 2015. Il nuovo album si intitola Submerge ed è composto da dieci tracce ispirate alla black music degli anni 90, ma anche ricche di contaminazioni di altri stili, generi e decenni.

L'album si apre con la title track, pubblicata in digitale il mese prima del resto dell'album, che offre un tuffo nel passato con sonorità che richiamano gli anni d'oro dell'R&B con un midtempo patinato e d'atmosfera in cui la cantante mette in mostra da subito le straordinarie doti della sua voce. Ma basta passare al pezzo successivo per capire come questo album sia ricco di sperimentazioni in ogni angolo della musica nera e non solo. In Follow Me troviamo infatti un'ottima mescolanza di suoni e ritmi tipici della canzone italiana degli anni 50 misti al groove dell'hip hop newyorkese di fine millennio.

Submerge offre anche molte derive nella musica dance con l'energica Ready Set Go e con la successiva Evolution che mischia soul, funk e disco nello stile dei maestri del genere del Regno Unito dei primi anni 80. Sonorità ottantiane da eurodisco si trovano anche nella bellissima e ritmata Moon.

Il disco è ricco anche di momenti più raccolti e intimistici con le ballad Memory Lane e Until Dawn che sarebbero splendide già in sé stesse dal punto di vista autorale e che la suadente voce della cantante rende semplicemente mozzafiato.

Completano il disco il midtempo Ivory e The Show Must Go Wrong con delle venature pop più marcate. Menzione a parte merita il pezzo di chiusura: conclude l'album la cover di The Man I Love di George Gershwin che regala un altro stupendo viaggio nel tempo direttamente nei primi anni del dopoguerra e basta chiudere gli occhi ascoltandolo per ritrovarsi a immaginare Francess che la canta a fianco delle altre dive dell'epoca che l'hanno interpretata come Billie Holiday, Ella Fitzgerald o Sarah Vaughan.

Giunti al termine di questo ascolto l'unica considerazione che si può fare è che questa giovane cantante sforna album con una frequenza impressionante e che la qualità di tutte le sue incisioni non ha nulla da invidiare a quello delle regine del genere più blasonate. E se oltre oceano i fan e la critica si dividono su chi sia la migliore interprete dell'R&B, dalle nostre parti non serve alcuna discussione in merito: perché Francess non ha eguali, né nessuno che le si possa avvicinare.

venerdì 11 maggio 2018

The Dead Daisies Burn It Down Tour - Trezzo sull'Adda, 9/5/2018

Non ero mai stato al Live Club di Trezzo sull'Adda, nonostante sia uno dei locali più famosi del milanese tra quelli in cui passano le leggende del rock nei loro tour europei. Il 9 maggio del 2018 il programma prevedeva il live dei Dead Daisies, uno dei gruppi più interessanti del panorama hard rock mondiale e l'occasione era ghiotta per vedere questo leggendario posto e per vedere dal vivo questo quintetto straordinario.

Credit: Tino
In una giornata passata da un caldo africano alla pioggia battente nel giro di poche ore, lo show è stato introdotto da un gruppo di apertura di altissimo livello, con i tedeschi New Roses che hanno regalato alla folla un'ora di ottimo rock dal buon equilibrio tra sonorità dure, melodia e qualche sfumatura di southern.

Poco dopo le 21 è salito sul palco il gruppo guidato da John Corabi che ha aperto con Resurrected, dal nuovo album Burn It Down, per iniziare due ore di rock folle e forsennato, fatto da una sana combinazione di energia e allegria senza sosta. Il gruppo ha scelto sapientemente la scaletta attingendo dagli ultimi tre album (quelli che vedono Corabi alla voce) e prendendo solo i pezzi più energici, quelli che infiammano la folla come Make Some Noise, Can't Take It With You e Song and a Prayer. Mexico, proposta come sesta, è il pezzo che accende di più la folla e l'energia non si spegne mai, fino al finale introdotto da Long Way To Go.

Il gruppo sul palco si muove con una maestria che pochi hanno, la macchina musicale si muove alla perfezione e l'esecuzione è impeccabile in ogni momento dell'esibizione. Del resto questo quintetto è composto da musicisti di grandissima esperienza e successo, e se la definizione di supergruppo inizia ad andare stretta a un combo di musicisti che sforna (tra registrazioni in studio e live) un album all'anno possiamo dire con sicurezza che i Dead Daisies sono un vero dream team dell'hard rock.

Corabi domina la scena e caratterizza ogni pezzo con la sua potenza vocale e con gli stessi acuti dei tempi in cui militava nei Mötley Crüe. Marco Mendoza interpreta appieno il ruolo di vice frontman ed è consapevole di essere quello che raccoglie più attenzione insieme al cantante. Il bassista lancia decine di plettri tra la folla che fa a gara per raccoglierli, scende dal palco e passeggia in mezzo al pubblico mentre suona (tanto che io stesso gli ho toccato una spalla e una ragazza poco distante gli ha stampato un bacio su una guancia) e soprattutto ricopre il ruolo principale nelle seconde voci in cui di solito esegue la voce alta lasciando a Corabi quella bassa.

I Dead Daisies chiudono la serata con la cover di Highway Star dei Deep Purple che non hanno mai inciso in studio ma che eseguono spesso dal vivo a coronare una serata memorabile, con tanto rock di altissimo livello, fresco e divertente, eseguito come meglio non si potrebbe.

Nel frattempo fuori ha smesso di piovere, ma il caldo del pomeriggio ha lasciato il posto a una notte piuttosto fredda per la stagione, e mentre lasciamo il Live Club verso l'autostrada resta il ricordo di un concerto superlativo e la consapevolezza di avere appena visto in azione cinque tra i migliori musicisti di ogni epoca.

Grazie Live Club, grazie New Roses e soprattutto grazie Dead Daisies. Alla prossima!

lunedì 7 maggio 2018

La morte di Chester Bennington

Dopo soli due mesi dal suicidio di Chris Cornell, un'altra grande voce dell'alternative rock ha trovato la morte in circostanze molto simili a quelle del cantante dei Soundgarden. La mattina del 20 luglio del 2017, proprio nel giorno di quello che sarebbe stato il cinquantatreesimo compleanno di Cornell, Chester Bennington, voce dei Linkin Park, fu trovato morto nella sua villa al numero 2842 di Via Victoria (le strade di quell'area si chiamano proprio via anche in originale) di Palos Verdes Estates, nella contea di Los Angeles, che aveva comprato meno di due mesi prima.

La scelta della data non sembra essere stata casuale, visto che Bennington e Cornell erano legati da una profonda amicizia. Bennington era anche il padrino del figlio di Cornell e aveva cantato Hallelujah di Leonard Cohen al funerale dell'amico e collega.

Nel dicembre del 2017 il sito di informazione sul mondo dello spettacolo TMZ ha ottenuto e pubblicato numerosi documenti, tra cui il rapporto dell'autopsia e quello del medico legale intervenuto sulla scena, e l'audio della chiamata al 911 dai quali emerge piuttosto chiaramente la dinamica degli eventi. Dal materiale rilasciato si apprende che l'ultima persona a vedere Bennington in vita fu la sua governante, che lavorava per lui già da due anni. Fino al giorno precedente Bennington era in vacanza in Arizona con la famiglia, ma tornò in anticipo per via di un impegno di lavoro il giorno seguente. Arrivò a casa intorno alle 22:30 mentre la governante, che si stava apprestando ad andare via, era in bagno; la donna non lo sentì entrare e lo vide solo dopo che era salito al piano superiore e aveva messo via i bagagli con cui era tornato. Bennington disse alla governante, di cui non viene rivelato il nome, che la mattina dopo sarebbe andato via alle 4:30 e che lei avrebbe potuto svolgere il suo lavoro anche in sua assenza. La donna riferì comunque che Bennington era sereno e che non c'era nulla di strano nel suo comportamento.

La mattina dopo la governante arrivò alle 8:30 ed entrò in casa con la propria copia delle chiavi, pensando di essere sola nell'edificio. Alle 8:45 vide un autista di Uber arrivare sul vialetto di ingresso, salì quindi al piano di sopra per vedere se Bennington era in casa e lo trovò morto impiccato, appeso alla porta dello sgabuzzino. Bennington scelse un metodo di impiccagione molto simile a quello adottato da Chris Cornell, facendosi passare una cintura di Hugo Boss (mentre Cornell aveva scelto una banda elastica per esercizi ginnici) attorno al collo e bloccando la stessa tra il traverso della porta e il battente. Il rapporto dell'autopsia spiega chiaramente che il cantante aveva entrambi i piedi che poggiavano a terra; sulle prime può sembrare strano che questo sia possibile, ma abbiamo già spiegato nella trattazione della morte di Cornell come invece non è necessario che l'intero corpo sia sospeso affinché sopraggiunga la morte per impiccagione.

Alla vista del cadavere la governante scappò fuori, dove l'auto di Uber, che era stata inviata dal management della band, aspettava ancora. Fu proprio l'autista dell'auto a chiamare il 911 perché la donna era in stato di shock e non riusciva a parlare. L'audio della chiamata è pubblicamente disponibile, e mentre l'autista parla con l'operatore si sente chiaramente la donna che piange e urla in sottofondo. I pompieri della contea di Los Angeles arrivarono sulla scena in pochi minuti, ma il capitano non poté fare altro che riscontrare che Bennington era morto.

Molte immagini interne della casa di Palos Verdes Estates sono disponibili su diversi siti di annunci immobiliari, come Realtor.com o Real Estate Edge (che ne mostra anche le planimetrie); altre foto della casa con l'arredamento di Bennington sono disponibili negli articoli online che il Dailymail e Alternative Nation hanno dedicato alla morte del cantante.


Come in ogni caso di morte prematura di un personaggio famoso, anche nel caso di Chester Bennington si trovano in rete teorie della cospirazione secondo cui il cantante sarebbe stato ucciso perché stava indagando sulla morte di Chris Cornell e stava scoprendo cose che sarebbero dovute rimanere nascoste. Ma queste teorie si basano completamente sul nulla. Nel rapporto dell'autopsia di Bennington non emergono ferite da difesa o segni di lotta e la casa non presenta segni di scasso, né la governante ha segnalato evidenze di effrazioni. Del resto anche la moglie di Bennington, Talinda Ann Bentley, ha confermato che il marito soffriva di depressione e aveva manifestato in passato tendenze suicide.

Inoltre se un ipotetico gruppo di cospiratori avesse voluto eliminare Bennington in quanto stava conducendo indagini pericolose, non avrebbe scelto proprio la data del compleanno di Cornell per farlo, né modalità così simili, in modo da non indirizzare i sospetti proprio nella direzione della morte del cantante dei Soundgarden.

Purtroppo quanto accaduto il 20 luglio del 2017 a Palos Verdes Estates è estremamente ovvio: Chester Bennington si è tolto la vita volontariamente, schiacciato dallo stress e dalla depressione.

lunedì 30 aprile 2018

Phantom Elite - Wasteland

Il primo album dei Phantom Elite ha avuto una gestazione molto lunga, con il primo singolo Siren's Call pubblicato nell'estate del 2016 e il secondo Wasteland un anno dopo; per ascoltare l'album per intero è stato però necessario aspettare fino all'aprile del 2018 quando l'LP che porta il titolo del secondo singolo è stato finalmente pubblicato.

Nonostante la band sia un nome nuovo nel panorama metal mondiale, i suoi membri non sono certo degli esordienti. Il gruppo è stato infatti fondato dal chitarrista olandese degli After Forever Sander Gommans con i musicisti che compongono la band che segue dal vivo gli HDK (una delle formazioni collaterali della lunga e varia attività di Gommans) composta dai chitarristi Goof Veelen e Ted Wouters e dal batterista Eeelco van der Meer. Alla voce i Phantom Elite possono vantare la presenza della brasiliana Marina La Torraca, che è una delle migliori interpreti del metal sinfonico di ogni tempo e che dà un tocco personale e unico all'ottimo primo album di questa inedita formazione. Oltre che essere la voce dei Phantom Elite, Marina milita anche nel supergruppo vocale Exit Eden ed è anche la cantante dei rumeni Highlight Kenosis, e se con questi ultimi mostra il lato più delicato della sua voce, nei Phantom Elite tira fuori tanta grinta e tanta rabbia.

Il disco è composto da dodici tracce che offrono un symphonic metal che unisce la durezza del suono delle chitarre alla straordinaria voce della vocalist che (non che ce ne fosse bisogno) dimostra le due doti incredibili traccia per traccia confermandosi a pieno titolo una delle regine del genere. Il disco vede una preponderanza di brani energici, ma non mancano momenti più raccolti. L'album parte fortissimo proprio con Siren's Call in cui Marina attacca a cantare a secco per essere subito raggiunta da poderosi riff di chitarra; il secondo pezzo Rise With The Dawn continua su ritmi sostenuti con il suolo martellante delle chitarre che apre il brano prima che Marina attacchi la prima strofa.


Tra i pezzi migliori troviamo sicuramente i due singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album, in particolare la title track mostra al meglio la potenza e l'estensione della voce della cantante. Tra i momenti più energici spiccano anche Every Man For Himself ricca di sonorità vicine al grunge e Spectrum of Fear che offre qualche influenza di rock ottantiano. Una menzione particolare merita anche anche la bellissima e unica Revelation che si distingue dalla restanti tracce per il poderoso coro che accompagna la voce della cantante e che avvicina i Phantom Elite a sonorità più affini a quelle di gruppo come gli Xandria. Tra i pezzi più raccolti troviamo la ballad Above The Crowd e due lenti acustici fatti con solo voce e chitarra quali Astray e la traccia di chiusura Serenade Of The Netherworld, che mostrano un lato più dolce e meno aggressivo della voce dell'ottima cantante di questa band.

L'album di esordio dei Phantom Elite ripaga appieno la lunga attesa, realizzando quello che sarà uno dei migliori dischi di metal sinfonico di quest'anno. Del resto basta guardare il curriculum del fondatore e quello della cantante per non restare sorpresi: basta anche solo la voce di Marina La Torraca a trasformare una buona idea in un album memorabile.

lunedì 23 aprile 2018

Link Wray - Link Wray & the Wraymen

Tra i grandi pionieri del rock and roll ce n'è uno che non gode della fama che meriterebbe, perché nonostante sia uno dei chitarristi più influenti della storia Link Wray non viene di solito annoverato tra i più famosi fondatori del genere. Eppure le sue influenze si sentono notevolmente in alcuni dei chitarristi più importanti di ogni tempo (come Jimmy Page, Pete Townsend e Neil Young), essendo Wray uno dei progenitori del power chord e della distorsione che vengono oggi largamente utilizzate negli stili musicali più aggressivi come l'heavy metal e il punk.

Il primo album di Link Wray è stato pubblicato nel 1960 ed è intitolato Link Wray & the Wraymen dal nome della sua band che al tempo era formata da Vernon Wray alla chitarra ritmica, Doug Wray alla batteria e Brantley Moses Horton al basso, oltre ovviamente a Link Wray alla chitarra solista. In alcune edizioni il nome del gruppo è scritto Raymen, senza la W, ma la discografia ufficiale sul sito di Link Wray riporta la grafia Wraymen, è quindi probabile che la grafia alternativa sia frutto di un errore.

Il disco è composto da dodici tracce strumentali (il primo pezzo cantato di Link Wray sarà la cover di Ain't That Lovin' You Babe di Jimmy Reed uscita nell'ottobre dello stesso anno) tra cui cinque singoli usciti tra il 1958 e il 1959 e sette inediti. L'album offre un rock and roll divertente ai confini con il rockabilly e ricco di contaminazioni di altri stili provenienti principalmente dal sud degli Stati Uniti. Troviamo infatti assaggi di dixieland nel brano Dixie-Doodle (che non è l'omonimo pezzo folk, ma una produzione inedita di Wray) e sonorità caraibiche in Rendezvous. Il quartetto si lancia anche in contaminazioni blues con il pezzo di chiusura Studio Blues e in qualche mescolanza con il country, come nella traccia di apertura Caroline.

Tra i pezzi migliori troviamo anche Ramble e Rawhide (da non confondere con l'omonimo Them From The Rawhide portata al successo tra gli altri dai Blues Brothers), entrambe rielaborazioni di un singolo di Link Wray intitolato Rumble che resta ad oggi il suo pezzo di maggior successo, e la più lenta e melodica Lillian che dà un tocco più d'atmosfera a un album di rock e roll grintoso e veloce.

Purtroppo Link Wray e la sua band sono semisconosciuti al grande pubblico, nonostante il suo stile abbia rivoluzionato il suono dei chitarristi che sono venuti dopo di lui, e dischi come questo sono noti solo agli appassionati più esperti. Non possiamo che sperare che l'ascolto dei suoi album, a partire da questa sua prima incisione, serva a ridare la giusta considerazione che questo straordinario musicista merita.