giovedì 20 giugno 2019

Def Leppard + Whitesnake - Assago, 19/6/2019

Tra i miei gruppi preferiti che non avevo mai visto dal vivo ce n'era uno che occupava un posto particolare, perché il desiderio di vedere un live del leopardo sordo guidato da Joe Elliot era veramente molto alto. E quindi appena uscito il calendario dei concerti del 2019 è partito l'assalto alla pagina web di TicketOne per assicurarsi un posto nel parterre, quello dove fa caldo e non c'è neanche un centimetro per respirare, ma da dove il concerto si vive appieno vicino al palco. La locandina riportava che ci sarebbero stati anche i Whitesnake come very special guest perché ovviamente non si tratta di un gruppo di apertura e quindi il concerto in realtà ha un doppio headliner.

Causa un incidente in tangenziale il percorso che ci conduce al Forum è particolarmente impervio tra la periferia milanese più degradata, ma poco male: arriviamo in anticipo e senza fretta. Appena entriamo ci troviamo immersi nella folla che quando alle otto precise vede i Whitesnake aprire lo spettacolo è già accalcata per accogliere i propri idoli. La band di Coverdale parte fortissimo con Bad Boys dal loro album più famoso e prosegue subito dopo con Slide It In, per poi procedere attingendo principalmente dai loro album della fase hair metal.

Coverdale esegue quasi tutta la sua performance sulla parte di palco che si estende in mezzo al pubblico, stando quindi vicino ai fan e lontano dal resto della band. Nonostante gli anni che passano il vocalist tiene la scena alla grande, e la sua voce trova riposo solo dopo mezz'ora quando i due chitarristi Reb Beach e Joel Hoekstra si cimentano in un guitar duel e quando poco dopo Tommy Aldridge regala un assolo di batteria, dapprima con le bacchette e poi a mani nude. La band esegue solo due pezzi dall'ultimo album Flesh & Blood, quali Shut Up & Kiss Me e Hey You, e tiene sapientemente le ballad come Is This Love e Here I Go Again per la chiusura dello show.

Quando Coverdale presenta la band il pubblico esulta per il nostrano Michele Luppi alle tastiere, e anche quando il sestetto saluta il pubblico prima di lasciare il palco ai Def Leppard la folla scandisce ancora il nome di Michele a rimarcare che l'eccellenza italiana va apprezzata e sostenuta.

Dopo un'ora sembra di aver appena assistito a un concerto fantastico, ma forse non sappiamo che ciò che sta per arrivare sarà ancora meglio. Perché se i Whitesnake sono grandiosi, i Def Leppard sono di un altro pianeta.

Il gruppo di Elliot parte subito con due grandi classici come Rocket e Animal e il tuffo nel passato prosegue con Let It Go e When Love and Hate Collide. Anche i Def Leppard si concentrano principalmente sulla fase AOR della loro carriera eseguendo ben sei pezzi da Hysteria e tre da High 'n' Dry.

La performance della band è stellare dall'inizio alla fine, con i quattro musicisti che non sbagliano un colpo nelle musiche e nei cori, e con le inquadrature sui maxischermi che indugiano spesso sull'eroico batterista Rick Allen che viene accolto da applausi ogni volta che appare sui video.

Joe Elliot coinvolge il pubblico tantissimo, invitandolo a cantare con lui e a eseguire i cori, tanto che non sembra di essere il pubblico che assiste a uno spettacolo, ma parte dello spettacolo stesso. La band è semplicemente perfetta per tutte le quasi due ore del concerto in cui il meglio del proprio repertorio più la cover di Rock On di David Essex e uno snippet di "Heroes" di David Bowie all'interno di Hysteria (e qualcuno accanto a noi commenta che il pezzo del Duca Bianco è talmente inflazionato che una cover di "Heroes" l'ha fatta anche mia nonna).

L'energia della musica si ferma solo per Two Steps Behind eseguita in acustico, per la quale anche Elliot imbraccia la chitarra. Il concerto termina con Pour Some Sugar on Me, Rock of Ages e Photograph e al termine dell'encore il pubblico applaude unanime la band che saluta Milano dopo un concerto strepitoso.

Mentre usciamo dal Forum e ci infiliamo nel trafficatissimo parcheggio riflettiamo sul fatto che i Def Leppard sono stati davvero fenomenali: suono pulito e potente e coinvolgenti come nessun altro. Magari qualche pezzo dal primo album On Through the Night (quello dal suono un po' più metallico degli altri) ci sarebbe stato bene, ma va bene anche così! Perché in realtà questa sera è andato bene tutto e ora on through the night ci tuffiamo davvero consapevoli che quella che abbiamo appena visto è una delle migliori band al mondo e che dal vivo sono una vera forza della natura.

lunedì 10 giugno 2019

I b-side dei Doors

Durante la loro carriera discografica, che si estende tra il 1967 e il 1978, i Doors hanno pubblicato nove album in studio e oltre venti singoli, e tra i b-side che hanno accompagnato le loro hit più famose su vinile solo tre non sono mai stati pubblicate all'interno degli album.

Il primo di essi risale al 1969 e si intitola Who Scared You, b-side di Wishful Sinful tratto dal The Soft Parade. Il brano è stato scritto da Jim Morrison e Robby Krieger ed è un pezzo di rock psichedelico ricco di contaminazioni di jazz fusion, come nello stile di The Soft Parade di cui è coevo, nel brano non mancano infatti lunghe parte strumentali tra i ritornelli e le strofe.

Il secondo b-side mai pubblicato su un album risale invece al 1971 ed è la cover di (You Need Meat) Don't Look No Further di Willie Dixon incisa per la prima volta da Muddy Waters nel 1956 con il titolo Don't Go No Farther. La versione dei Doors è stata pubblicata come b-side di Love Her Madly dall'album L.A. Woman ed è l'unica registrazione in studio della band ad essere cantata da Ray Manzarek prima della morte di Jim Morrison, il quale in questo caso non ha avuto alcun ruolo nelle registrazioni.

L'esecuzione canora di Manzarek non ha comunque nulla da invidiare al suo più noto collega (come in futuro avrebbe ampiamente dimostrato negli album registrati dopo la morte di Morrison), rispetto all'esecuzione di Muddy Waters il pezzo mantiene le atmosfere blues, ma aggiunge le stesse connotazioni di blues rock che contraddistinguono L.A. Woman rendendolo in generale un po' più grintoso e ovviamente Manzarek canta su note più alte rispetto a quelle di Muddy Waters.

Il terzo e ultimo dei tre brani mai pubblicati in album è Treetrunk del 1972, pubblicato come b-side di Get Up and Dance tratto da Full Circle, secondo e ultimo album pubblicato dalla band con Manzarek e Krieger alla voce dopo la prematura scomparsa di Jim Morrison. Il pezzo è sorprendentemente pop e orecchiabile ed è stato escluso dal disco proprio per l'approccio diverso rispetto a quello di ogni altra registrazione del gruppo.

Who Scared You e (You Need Meat) Don't Look No Further comparvero per la prima volta in un 33 giri nel 1972, nella compilation Weird Scenes Inside the Gold Mine. In seguito Who Scared You fu inserita nel cofanetto quadruplo The Doors: Box Set del 1997 (anche se in una versione accorciata), mentre (You Need Meat) Don't Look No Further trovò la sua prima pubblicazione in CD nella raccolta Perception composta da 12 dodici dischi che raccolgono i primi sei album della band con l'aggiunta di outtakes e tracce extra.

Treetrunk fu invece pubblicata in un album solo nel 2010, nell'edizione in CD a doppio disco di Other Voices e Full Circle e da allora è stata inclusa solo in un altra compilation: il cofanetto The Singles Box destinato al mercato giapponese del 2013.

Questi tre sono sicuramente brani meno noti della ricca discografia dei Doors, tuttavia il fatto che si tratti di pezzi di gran livello conferma il fatto che anche i brani scartati da Doors sono capolavori di rock dallo stile inconfondibile così come le loro tracce più note.

lunedì 3 giugno 2019

B.B. King - In London

Seguendo l'esempio della Chess Records, che nei primi anni 70 per quattro volte realizzò album unendo la musica del blues di Chigago a quella della swinging London, anche la ABC Records tentò la stessa strada registrando un album nel vecchio continente per il loro bluesman più importante, nonché uno dei più famosi al mondo quale il leggendario B.B. King.

L'album che nacque da questa sperimentazione si intitola In London ed è stato pubblicato nell'autunno del 1971. Il disco è composto da nove tracce a cui B.B. King presta la voce e la chitarra; oltre a B.B. la formazione dell'album vede nomi di spicco della scena inglese tra cui Ringo Starr (che lo stesso anno partecipò anche a The London Sessions di Howlin' Wolf), Alexis Korner, Steve Winwood e Greg Ridley, Steve Marriott e Jerry Shirley degli Humble Pie.

Il disco contiene cinque cover di brani classici tratti dal repertorio storico della black music americana reinterpretati nello stile del white blues di Londra oltre a quattro inediti scritti per l'occasione da alcuni dei musicisti coinvolti nelle sessioni di registrazione. La traccia di apertura è la cover di Caldonia di Louis Jordan, originariamente pubblicata nel 1945, di cui mantiene lo stile del jump blues condendolo con sonorità più moderne. Nel disco è presente una seconda cover di Louis Jordan dello stesso anno, ovvero la ballad We Can't Agree. Le seconda traccia dell'album è la cover di Blue Shadows di Lowell Fulson del 1950 che B.B. King accelera notevolmente e canta con uno stile più vicino al rock and roll allontanandosi dalla atmosfere jazz del pezzo originale. Nel disco è presente anche una cover di Part Time Lover di Clay Hammond del 1963 e anche in questo caso King stravolge il pezzo donando una grinta e una velocità del tutto assenti nella ballad soul originale. L'ultima cover è la traccia di chiusura Ain't Nobody Home di Howard Tate del 1966 di cui King mantiene le atmosfere R&B a cui aggiunge suoni più patinati e un tocco di gospel grazie al coro sul ritornello.

Il primo dei quattro inediti è la ballad Ghetto Woman, che come suggerisce il titolo stesso è il pezzo dell'intero disco che più attinge dal blues d'oltreoceano. Tra i pezzi nuovi troviamo anche la strumentale Alexis Boogie scritta dal chitarrista Alexis Korner che vede una massiccia presenza dell'armonica suonata da Steve Marriott, la veloce ed energica Power of Blues in cui B.B King dà sfoggio più che altrove della sua potenza vocale e la strumentale Wet Hayshark.

Nonostante In London non sia tra i dischi più celebri di B.B. King è sicuramente uno dei migliori della sua discografia grazie alla sua capacità di mischiare i classici a uno stile più moderno e di interpretare pezzi scritti appositamente per lui da alcuni dei migliori musicisti europei del tempo. In London merita sicuramente di essere riscoperto, perché tutte le tracce sono di altissimo livello, alternano stili musicali molto diversi tra loro e mostrano come un grande musicista come B.B. King si sia adattato a situazioni diverse con grande disinvoltura.

lunedì 27 maggio 2019

Myrath - Shehili

I tunisini Myrath sono una delle realtà più fresche e creative del panorama metal attuale sin dalla pubblicazione del loro primo album Hope del 2007. A maggio di quest'anno la band capitanata da Zaher Zorgati è tornata con un nuovo album intitolato Shehili che segue il precedente Legacy del 2016.

L'uscita dell'album è stata preceduta dalla pubblicazione del video del primo singolo Dance. E se il video di Believer di Legacy era ispirato a Prince of Persia, il nuovo video è ispirato al gioco da tavolo Tales of Arabian Nights e vede la band ricorrere alla stessa macchina del tempo di Believer per liberare la città di Samarcanda dalla dittatura del Sultano Omar e riportare nel mondo reale un ragazzino rimasto intrappolato in quel mondo fantastico. Dal punto di vista musicale Dance dà un primo assaggio di ciò che si troverà all'interno dell'LP: da un lato la band ripropone la propria mescolanza di power metal e suoni etnici della propria terra, ma questa volta perfeziona la formula, rinunciando a molte delle venature prog che contraddistinguevano Legacy e atterrando su un suono più semplice e di più facile ascolto, in cui le sonorità folk hanno un ruolo maggiore.

Contestualmente all'uscita dell'album è stato pubblicato il video del secondo singolo No Holding Back che prosegue nella narrazione del video precedente con la band su un vascello ad aiutare il bambino nella fuga dai messi del Sultano che lo vogliono imprigionare, il video termina con il gruppo che porta il Sultano nel mondo reale e lascia il dubbio se la storia si sia conclusa oppure no.


L'album è composto da dodici pezzi che si lasciano ascoltare divertendo e convincendo sotto ogni aspetto dal primo all'ultimo pezzo, regalando una mistura sonora dagli ottimi risultati. Trattandosi di un disco che rasenta la perfezione è difficile individuare brani migliori di altri; in ogni caso la parte migliore delle melodie sembra essere stata lasciata dalla band sapientemente nella seconda metà del disco in cui troviamo la bellissima Monster In My Closet che è forse quella in cui le sonorità si fanno più dure che altrove. Appena dopo si trova un altro pezzo di ottima fattura, quale la ballad Lili Twil in cui il cantante Zaher Zorgati dà sfoggio delle proprie doti canore più che altrove alternando il canto in stile arabo a quello più tradizionale con grande maestria. Sonorità simili si trovano anche in Darkness Arise, mentre momenti più melodici caratterizzano le ballad Stardust, più tradizionale, e Mersal ricchissima di suoni orientali e in cui Zorgati (così come nella già citata Lili Twil) canta parte delle strofe in arabo.

Il disco si chiude con la title track che aggiunge anche chitarre da flamenco e flauti al potente intreccio di power metal e musica araba in un capolavoro musicale che trascende generi e tradizioni. La versione giapponese dell'album è impreziosita, come spesso accade, dalla presenza di una bonus track quale una diversa versione di Monster In My Closet cantata in giapponese.

Se fino ad ora i Myrath avevano composto ottimi album senza mai sbagliarne uno, con Shihili superano sé stessi, realizzando il miglior disco della propria carriera musicale contraddistinta da un suono unico al mondo e incredibilmente ricco. Il panorama dell'oriental metal vede altre band che realizzano esperimenti simili a quelli dei Myrath (tra cui ad esempio gli israeliani Orphaned Land) ma il suono della band di Ez-Zahra è sicuramente il più vario e versatile e grazie a questo nuovo disco il quintetto si proietta a pieno titolo tra i migliori del pianeta, non solo nell'ambito dell'oriental metal, ma del metal di ogni genere.

sabato 18 maggio 2019

Giacomo Voli - Cremona, 17/5/2019

Data fissata in calendario già da più di un mese, appena dopo aver letto tra gli eventi di Giacomo Voli che il 18 maggio si sarebbe fermato a Cremona. Non sapevo dove fosse il Nelson Pub, per me è un po' fuori dal giro, ma imposto il navigatore e si parte tra il freddo e la pioggia di questo strano mese di presunta primavera.

Il locale è piccolo è raccolto, con un bellissimo soffitto a volta con mattoni a vista che trasuda il rock and roll delle cantine americane tanto che viene voglia di voltarsi per vedere se appoggiati al bancone a bere una birra non ci siano anche Jim Morrison e Ray Manzarek.

Prima che inizi il live Giacomo gira tra il pubblico che si fa sempre più numeroso, come se non fosse il vocalist della band metal più blasonata del nostro paese ma un amico che ha organizzato una festa e invitato un po' di altri amici. Il live inizia verso le 22:30; si parte con Don't Stop Me Now  dei Queen, si procede con Hold the Line dei Toto e Eye of the Tiger dei Survivor che lascia un po' sorpresi, non essendo uno di quei pezzi che di norma si ascoltano agli acustici, ma il Re Mida della musica che abbiamo davanti riesce alla grande ad trasformare in questo stile uno dei brani di AOR più iconici di sempre. Tra un pezzo e l'altro Giacomo condisce la musica con qualche racconto personale, spiegando perché è legato ai pezzi che esegue e proprio per Eye of the Tiger narra come il giro di chitarra così aggressivo lo abbia colpito fin da bambino.

Il nostro vocalist alterna tastiera e chitarra mentre esegue pezzi presi dal repertorio rock di ogni genere dagli anni 60 ad oggi, passando con disinvoltura dai Beatles agli U2 e dai Deep Purple a Gethsemane di Jesus Christ Superstar per la quale racconta di essere più legato alla versione di Ian Gillian che a quella più celebre di Ted Neeley

Vorrei un caffè e mi volto per vedere se riesco a chiamare il cameriere, ma il pubblico dietro di me è molto più nutrito di quanto avessi capito e forma una barriera umana. Ottimo! Questo grande talento che si sta esibendo merita un pubblico numeroso, e pazienza se il caffè dovrà aspettare. Anzi, il locale è talmente gremito che un ragazzo mi chiede se si può sedere in un posto vuoto al mio tavolo e ça va sans dire che la risposta sia positiva, perché il rock unisce, aggrega e un gesto di amicizia non si nega a nessuno.

Intanto sul palco Giacomo non sbaglia un colpo, l'esecuzione è perfetta sia musicalmente che vocalmente e ogni pezzo è condito con un po' di gusto personale del nostro Voli che adatta i brani all'acustico con grande maestria. Gli assoli vengono spesso sostituiti da vocalizzi, ed essendo Giacomo uno dei migliori vocalist del pianeta il risultato è sorprendente quanto interessante e viene da chiedersi se forse i pezzi non siano più belli così di come erano in origine.

Tra i pezzi in scaletta ne troviamo anche I Don't Want To Miss a Thing e Dream On degli Aerosmith e Black Hole Sun dei Soundgarden e Giacomo non può trattenere un ringraziamento a Steven Tyler e Chris Cornell per il loro contributo alla storia della musica e per le loro composizioni.

Circa mezzora dopo la mezzanotte il mixerista fa segno che c'è tempo solo per altri due pezzi. Peccato, dobbiamo rinunciare a Rock And Roll, il brano di Giacomo Voli di cui anche i Led Zeppelin hanno fatto una cover (...okay, forse non è proprio così, ma fa niente... o forse non era così fino a qualche anno fa e adesso sì).

Finito il concerto il pubblico ancora gremito non accenna ad allontanarsi ed attornia Giacomo per scambiare due parole o magari sentire qualche aneddoto da questo ragazzo che nonostante la giovane età ha esperienza da vendere.

Risaliamo in macchina, maltempo e freddo non se ne sono andati, ma ripartiamo con la consapevolezza che valeva la pena sfidare ogni goccia di pioggia per assistere al concerto di un grande artista, in una bellissima location e con un pubblico caldissimo che in questa serata non poteva mancare.

martedì 30 aprile 2019

Intervista a Sandro Di Pisa

Sandro Di Pisa è uno dei principali jazzisti del nostro paese e da decenni alterna l'attività di musicista a quella di divulgatore. Per parlare dei suoi ultimi dischi e della sua lunga carriera musicale, Di Pisa ha accettato la nostra proposta di un'intervista che pubblichiamo di seguito.

Ringraziamo Sandro Di Pisa per la sua cortesia e disponibilità.


125esima Strada: Ciao Sandro e grazie per il tempo che ci stai dedicando. Partiamo dal tuo nuovo album Tutto (da) solo, essendo tu un jazzista è strano che tu abbia deciso di fare un album di canzoni. Come è nato questo disco?

Sandro Di Pisa: L'estate scorsa ho avuto un'improvvisa esplosione creativa di tipo cantautorale che ha sorpreso anche me. Ero a casa per un periodo di convalescenza e quasi ogni mattina mi svegliavo con una nuova canzone in testa, praticamente quasi già completa di testo e musica. In pochissimo tempo ne realizzavo l'arrangiamento orchestrale, poi registravo e mixavo. Tutto senza l'aiuto di altri musicisti o produttori, come si può intuire dal titolo dell'album. Ci ho preso così tanto gusto che ho deciso di completare anche alcune mie idee giovanili che non si erano mai concretizzate, e arrivato a dodici brani ho sentito l'esigenza di pubblicare. Sentivo che dovevo farlo e subito, che dovevo assolutamente raccontarmi con queste canzoni. Ora capisco cosa intendono i critici quando parlano di "urgenza espressiva dell'artista".


125esima Strada: Il mio pezzo preferito del disco è Daunizzeuèi per via delle influenze da soft rock. Che storia c'è dietro a questo pezzo?

Sandro Di Pisa: L'idea di Daunizzeuei è la più antica di tutte: nasce quando ero un adolescente che cominciava a strimpellare la chitarra. A quei tempi ascoltavo anche gruppi e cantautori britannici, o della west coast americana, e mi divertivo a cantare scimmiottando le sonorità della lingua anglosassone. Ora ho rielaborato il testo in "finto inglese" e ho realizzato delle armonie più raffinate, mantenendo però quelle sonorità tipicamente "anni '70".


125esima Strada: Un paio di anni fa hai deciso di reinterpretare Jesus Christ Superstar sostituendo le chitarre alle voci. Come è nato il tuo Jesus Christ Superguitar?

Sandro Di Pisa: Anche Jesus Christ Superstar è una componente del mio DNA musicale primordiale. Da ragazzino per molti mesi non feci altro che ascoltare questa sublime opera rock, anche perché era l'unica audio cassetta che possedevo. Perciò ricordo a memoria ogni dettaglio delle orchestrazioni. Siccome mi piacciono le imprese folli e impossibili, ho trasferito integralmente l'opera sulle corde di una o di più chitarre, identificando ogni personaggio con uno strumento diverso: Gesù=chitarra jazz, Giuda=chitarra rock, Maddalena=chitarra classica, Apostoli=guitar synth e così via.


125esima Strada: Tu sei noto anche per il tuo canale YouTube e per la tua tecnica di divulgazione nota come Ri-didattica. Come ti è venuta l'idea di divulgare la teoria musicale in questo modo?

Sandro Di Pisa: Insegno da tanti anni - non solo chitarra moderna, ma anche armonia, teoria musicale e storia del jazz - e l'ho sempre fatto con la stessa passione e lo stesso approccio "umoristico" che metto quando faccio concerti dal vivo. Perciò è stato naturale ideare le "Canzoni che spiegano se stesse" che hanno avuto tanto successo in rete: un modo divertente e immediato per comprendere le strutture e gli stili musicali, che tra l'altro è diventato anche uno spettacolo live. Così ho teorizzato questa nuova disciplina, la "Ri-didattica musicale", che non significa solo didattica per ridere, ma anche nuova didattica. Col progetto, forse un po' folle e utopistico, di riscrivere in questa chiave tutta la storia e la teoria musicale.


125esima Strada: Come è nata la tua passione per il jazz?

Sandro Di Pisa: Nei primi anni '80, un concerto al mitico Capolinea di Milano. Un quartetto di bravissimi jazzisti afroamericani dei quali non saprei assolutamente dirti i nomi, perché ero lì quasi per caso e non sapevo ancora niente di jazz. Rimasi fulminato: capii la grande varietà e libertà creativa consentita dall'improvvisazione e dall'ascolto reciproco tra i suonatori. Dopo quella sera mi buttai a capofitto nel jazz e cominciai a studiare musica seriamente. Non ho più smesso.


125esima Strada: Il jazz ha molte sfaccettature e stili diversi, il tuo sembra essere vicino al cool jazz. Ti riconosci in questa definizione?

Sandro Di Pisa: Non amo molto le etichette applicate agli stili di musica, anche perché mi piace mischiarli. Potrei definirmi come un chitarrista traditional/swing/be-bop-/cool/latin/mediterranean/fusion... Comunque sì, se per cool intendi "rilassato", mi piace.


125esima Strada: Chi sono i musicisti che ti hanno influenzato di più durante la tua carriera?

Sandro Di Pisa: Come si fa a dirlo? Ci vorrebbero duecento pagine. Da ragazzo mi piaceva il prog-rock, soprattutto i Genesis. Ricordo anche il primo Pino Daniele, che per me è stato un anello di congiunzione tra la canzone pop e le sonorità jazz-blues. Poi tra i chitarristi jazz uno su tutti: Wes Montgomery. Ma anche tutti gli altri grandi del novecento, da Django Reinhardt a Jim Hall a Pat Metheny. E i grandi del jazz di ogni periodo e di ogni strumento, da Duke Ellington a Mingus, da Miles Davis a Bill Evans e mille altri. E le centinaia di musicisti con cui ho suonato. E Bach, Chopin, Rossini, Jobim, Frank Zappa, Stevie Wonder, Fred Buscaglione... Tutti quelli che ho ascoltato in qualche modo mi sono entrati dentro, per questo quando compongo o mentre improvviso ogni tanto ne cito qualcuno.

Perché no? Persino... Orietta Berti.


125esima Strada: E chi sono invece i tuoi preferiti di oggi?

Sandro Di Pisa: Devo ammettere che non saprei farti dei nomi. Più vado avanti, più ascolto cose sempre più antiche. Ci trovo dentro molte più novità.


125esima Strada: Il jazz oggi in Italia è relegato a una nicchia e sommerso da altri generi musicali più popolari. Quale pensi potrebbe essere una strategia per aumentarne la diffusione?

Sandro Di Pisa: Non solo in Italia, purtroppo. Il jazz è musica di nicchia, anche se io da anni tento di spiegare che non è poi così difficile capirlo, basterebbe avere un po' di cultura e di abitudine ad usare le orecchie. I media però ci spingono ad ascoltare la musica in modo sempre più superficiale e frettoloso, abbinandola quasi sempre a un video, il che ci fa perdere la magia di poterci immaginare quello che vogliamo mentre ascoltiamo.

Generi come il rap poi stanno abituando i giovanissimi a percepire la musica solo come "base", cioè come sottofondo ritmico a un testo e non come componente essenziale di una composizione. Anche gli mp3, lo streaming, la facilità di poter scaricare qualsiasi brano in qualsiasi momento sono cose che rischiano di banalizzare il momento dell'ascolto che, quando ero giovanissimo era un momento sacro: chiudersi in camera, accendere lo stereo hi-fi, mettere sul piatto il vinile faticosamente acquistato con la paghetta settimanale, adagiare la puntina sul primo solco (scccrrrscciach), leggere le note di copertina, ascoltare in religioso silenzio. E poi riascoltare il disco infinite volte fino a conoscerlo in ogni dettaglio.

Oggi invece i supporti per ascoltare sono virtuali, sta scomparendo persino il CD e il mercato della musica riprodotta sembra destinato a morire.

Eppure forse il jazz suonato dal vivo, proprio per la sua peculiarità di evento sempre diverso e irripetibile, potrebbe dar nuova linfa al mercato della musica riprodotta. La tecnologia attuale consente di registrare un concerto dal vivo e di ottenere in pochi minuti copie della registrazione da vendere al pubblico prima che esca dal locale. Gli acquirenti potranno ricevere un gradito ricordo della serata, magari insieme all'autografo o a un selfie con i musicisti . Oltretutto le improvvisazioni e il repertorio ogni sera cambiano per cui ogni registrazione assume il valore di un esemplare unico. In questo modo un po' più di gente potrebbe essere attratta ad ascoltare musica creativa dal vivo e un gruppo di jazz che suona spesso probabilmente venderebbe più dischi del vincitore del festival di Sanremo.

È un'idea, pensiamoci.

mercoledì 17 aprile 2019

Tin Idols - Jesus Christ Supernova

Nel 2013 gli hawaiani Tin Idols hanno realizzato la loro interpretazione personale dello storico musical Jesus Christ Superstar di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, il titolo di questa rivisitazione è Jesus Christ Supernova e così come nel titolo la superstar viene trasformata in una supernova, anche la musica all'interno dell'album subisce una trasformazione che la rende potente ed esplosiva trasformando l'opera di rock progressivo originale in una heavy metal.

L'album dei Tin Idols è composto ovviamente da tutte le ventisette tracce del celebre musical e già da Heaven On Their Minds, il primo pezzo dopo l'intro, si coglie come la batteria e la distorsione delle chitarre abbiano un ruolo molto maggiore rispetto al passato. Le melodie del brani vengono lasciate pressoché inalterate, anche se le linee vocali vengono adattate alle caratteristiche canore degli interpreti. Ad esempio in Superstar, il pezzo più noto dell'intera opera, Mark Kaleiwahea, che nell'opera ha il doppio ruolo di vocalist e chitarrista, che interpreta Giuda pone più attenzione sull'asprezza della sua interpretazione piuttosto che sull'estensione, come riscontrabile quando canta if you'd come today you would have reached a whole nation nel quale resta su note molto più basse rispetto ad altri interpreti che lo hanno ricevuto.

L'unica parte femminile, quella di Maria Maddalena, è affidata alla voce graffiante di Cathy Lowenberg che interpreta le più importanti ballad come Everything's Alright e Could We Start Again Please? dando un tocco blues che manca in tutte le altre versioni dell'opera. Che le note graffianti e il blues siano terreni in cui Cathy si muove bene non è certo una sorpresa, come riscontrabile anche nella sua cover di Piece of My Heart.

La parte di Gesù è interpretata da Mark Caldeira che si si distingue per pulizia di esecuzione e che non nasconde le impronte da heartland rock della propria provenienza musicale e che da sfoggio della propria ecletticità, del resto Caldeira sa passare con disinvoltura dalle cover di Bob Seger e quelle degli Iron Maiden. Proprio per queste sue capacità e per il contrasto che crea con gli altri interpreti sono particolarmente efficaci i duetti tra Caldeira e Cathy Lowenberg in What's the Buzz? e quello tra Caldeira e Kaleiwahea in Strange Things Mystifying

Anche le parti corali, come la già citata What's That Buzz? o The Last Supper si adattano bene al paradigma dell'heavy metal, con gli interpreti che eseguono le parti della folla e degli apostoli su queste basi più aggressive e veloci rispetto alle originali.

Jesus Christ Supernova non è che la prima opera di questo straordinario combo che da allora ha replicato l'esperimento numerose altre volte e con il medesimo successo; ad oggi hanno anche all'attivo una serie di compilation di canti natalizi interpretati con lo stesso stile e anche un tributo agli Osmonds. Il primo album del gruppo hawaiano è una delle più convincenti rielaborazioni dell'opera di Andrew Lloyd Webber e di Tim Rice che non solo offre un'esecuzione nuova dal punto di vista vocale, ma rielabora le basi come nessun'altro ha fatto prima. Questo album metterà tutti d'accordo, e già dal primo ascolto: i fan del metal, quelli del rock progressivo e di chiunque ami Jesus Christ Superstar.