mercoledì 28 settembre 2022

Omicidio di Tupac: intervista a Chris Carroll, il primo poliziotto che intervenne sulla scena dopo la sparatoria

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista a Chris Carroll, ex sergente della polizia di Las Vegas che intervenne sulla scena dopo la sparatoria che portò alla morte di Tupac Shakur avvenuta il 7 settembre del 1996.

L'intervista è disponibile solo in inglese.

martedì 30 agosto 2022

Sui luoghi dell'omicidio di Tupac Shakur


Finalmente, dopo due anni di rinvio dovuti alla pandemia, sono riuscito a fare il tanto atteso viaggio americano che aveva Las Vegas come prima tappa. Non ci ero mai stato e forse, tutto sommato, ho scelto il periodo migliore visto che tante delle caratteristiche di questa città del deserto sono nate negli ultimi anni, come la presenza di due squadre in altrettante leghe sportive professionistiche le cui pubblicità si vedono praticamente ovunque: i Vegas Golden Knights della NHL e i Las Vegas Raiders della NFL trasferitisi nel 2019 da Oakland alla più grande città del Nevada. Trovandomi a Las Vegas, era inevitabile andare a vedere i luoghi in cui il 7 settembre del 1996 si svolse la sparatoria in seguito alla quale Tupac Shakur perse la vita a venticinque anni.

L'incrocio tra Koval Lane e Flamingo Road

Il punto principale è ovviamente l'incrocio tra Koval Lane e Flamingo Road, quello in cui la misteriosa Cadillac bianca affiancò sulla destra la BMW di Suge Knight e dove l'assassino seduto sul sedile posteriore sinistro esplose vari colpi di pistola in direzione di Tupac Shakur che si trovava sul sedile anteriore destro della BMW. Dapprima ho tentato di andarci dopo cena, verso le 23, percorrendo Harmon Avenue, ma la zona non sembrava raccomandabile a quell'ora con il buio e quindi ho abbandonato l'intento. Ho ritentato il giorno dopo con la luce del sole e percorrendo Flamingo Road anziché Harmon Avenue. Flamingo Road, superati i primi alberghi più vicini a Las Vegas Strip, non mi ha dato l'impressione di essere particolarmente più sicura di Harmon Avenue con il buio, ma di giorno era sicuramente praticabile e mi ha dato la possibilità di avvicinarmi all'incrocio seguendo proprio il percorso di Suge e Tupac.

Il memoriale su Flamingo Road
L'incrocio con Koval Lane oggi è un semplice incrocio di due strade trafficate se non fosse per un memoriale, del tutto spontaneo e non ufficiale, nato dalle scritte e dai disegni lasciati dai fan negli oltre venticinque anni trascorsi dalla notte della sparatoria su un palo della luce di Flamingo Road.

Dopo la sparatoria la BMW guidata da Suge Knight fece inversione per tornare verso Las Vegas Strip, in direzione dell'ospedale, e si fermò all'incrocio con Harmon Avenue davanti all'Hotel Bellagio a causa di ben tre gomme bucate, e fu lì che la polizia della città riuscì a intervenire. Dopo aver visto l'incrocio tra Koval e Flamingo, avevo appuntamento per cena con Chris Carroll, l'ex sergente della polizia che fu il primo a intervenire in bici quando l'auto di fermò. Durante la cena, a base della migliore carne e del miglior vino che si possano trovare a Las Vegas, l'argomento di Tupac è uscito varie volte nella conversazione e Chris mi ha confermato molte cose emerse nell'intervista che mi rilasciò due anni fa. Ad esempio mi raccontò che le prime parole che gli rivolse Tupac furono Fuck You, che sulle prime fu costretto ad allontanare Suge Knight anche minacciandolo in quanto non sapeva chi fosse e poiché in quella circostanza poteva rappresentare un pericolo, o che la guardia del corpo Frank Alexander non era presente sulla scena e che i racconti da lui proposti tra il 1995 e il 2013 (anno del suo suicidio) sono in ottima parte frutto di fantasia.

Io e Chris Carroll dopo la nostra cena a Las Vegas

Il dettaglio più importante del racconto di Chris riguarda ovviamente l'autore dell'omicidio: secondo l'ex poliziotto si tratta del gangster Orlando Anderson, cui cui Tupac ebbe uno scontro fisico all'MGM Grand dopo l'incontro tra Mike Tyson e Bruce Seldon poche ore prima della sparatoria. Anderson è morto nel 1998 in un omicidio legato alle rivalità tra gang, slegato dalla morte di Tupac, e questo ha in qualche modo chiuso i conti.

Il 723 della 7th Avenue
Una delle tappe successive del viaggio è stata New York e il mio albergo era a pochi isolati da dove Tupac subì un'altra sparatoria a seguito di un tentativo di rapina nel 1994. L'aggressione avvenne nella lobby del decimo piano del numero 723 della Settima Avenue, poco distante da Times Square, sede dei Quad Studios dove il rapper si trovava per registrare alcune strofe per un mixtape dell'amico Ron G. Due uomini in tenuta militare obbligarono Tupac e i suoi amici a stendersi a terra e derubarono il rapper della sua gioielleria, Tupac tentò di ribellarsi ed estrarre la Beretta che aveva con sé e gli aggressori gli spararono cinque colpi di pistola. Tupac incolpò Puff Daddy e Notorious BIG di essere i mandanti dell'aggressione e l'evento avviò l'escalation di tensione che culminò nell'omicidio dello stesso Tupac e in quello di Notorious. Ho potuto vedere il luogo della sparatoria solo da fuori, dal livello della strada, perché essendo uffici privati non è consentito entrare. Ho anche incontrato un ragazzo che usciva dallo stabile portando con sé altoparlanti e strumenti musicali, indice che proveniva proprio dai Quad Studios, a cui ho chiesto se fosse possibile entrare, ma purtroppo mi rispose di no. Ebbi un'esperienza simile cinque anni prima, quando provai ad entrare nell'edifico di Merrick Boulevard del quartiere di Jamaica, nel Queens, dove fu ucciso nel 2002 il DJ dei Run DMC Jam Master Jay trovando la porta chiusa (e quella volta non c'era nessuno a cui chiedere).

Purtroppo di posti da andare a vedere ce ne sarebbero stati altri, come l'MGM Grand o l'incrocio tra Wilshire Boulevard e South Fairfax Avenue a Los Angeles (anch'essa tappa del viaggio) dove fu ucciso Notorious B.I.G, ma questa volta ne è mancato il tempo. Sarà per il prossimo giro sulla West Coast, perché spesso per capire l'arte di personaggi singolari come Tupac Shakur è necessario vedere anche i luoghi dove il loro cammino ha incontrato una drammatica  fine.

giovedì 21 luglio 2022

Max Pezzali e gli anni 90

Dopo il concerto a San Siro dello scorso 16 luglio molte testate musicali e generaliste hanno dedicato almeno un articolo a celebrare Max Pezzali, dapprima voce degli 883 e poi cantante solista, come icona e alfiere degli anni 90. Quello che scrivono i giornali è sicuramente corretto e il cantante pavese ha dei grossi meriti nell'avere creato canzoni iconiche di quel periodo e per l'effetto dirompente che ebbe la sua musica sulla scena musicale italiana dell'epoca, ma quello che sfugge a molti di quelli che hanno scritto quegli articoli è che forse dopo un inizio scoppiettante la creatività di Pezzali si è esaurita troppo in fretta.


Hanno Ucciso l'Uomo Ragno e Nord Sud Ovest Est pubblicati back-to-back nel 1992 e nel 1993 furono detonanti nel portare una ventata di qualcosa che in Italia non si era mai visto e che nessuno faceva come gli 883. Non furono certo i soli innovatori di quel periodo, basti pensare che Jovanotti era uscito con l'album di esordio ben quattro anni prima del duo composto da Max Pezzali e Mauro Repetto e che gli Articolo 31 di J-Ax e DJ Jad pubblicarono il primo album Strade di Città nel 1993 più o meno in contemporanea a Nord Sud Ovest Est. Ma gli 883, con il logo tondo che chissà perché nessuno riporta negli articoli di questi giorni in favore del successivo ovale, parlavano una lingua diversa, che si rivolgeva direttamente ai teenager usando il loro gergo e raccontando storie in cui chiunque poteva identificarsi, come le cotte giovanili, gli esami a settembre, estate fottuta incubo di tutti i liceali o la mamma che s'inkazza se non si rispettano le regole inveterate di casa.

Il CD single di Hanno Ucciso l'Uomo Ragno con il primo logo 
Dopo i primi due album Repetto, che nelle esibizioni live di fatto non aveva un ruolo e veniva identificato come un comprimario, lasciò il duo per intraprendere un'avventura folle cercando di conquistare la modella americana Brandi Quinones. Il marchio 883 restò al solo Pezzali che cambiò il logo e andò avanti da solo per altri quattro album prima di abbandonare il nome del gruppo e proseguire da solista. Dopo l'abbandono di Repetto, gli 883 pubblicarono Remix 94 nel 1994, una raccolta di remix con il validissimo inedito Chiuditi Nel Cesso, per tenere viva la propria immagine sul mercato, perché negli anni 90 i social network non c'erano e per gli artisti italiani era fondamentale pubblicare almeno una canzone nuova o una raccolta all'anno quando non si aveva un album di inediti pronto (gli artisti internazionali potevano permettersi di saltare qualche stagione, ma non era sicuramente il caso di Pezzali). Il primo album senza Repetto fu La Donna il Sogno & il Grande Incubo realizzato nel 1995 con la band fino ad allora nota come Elefunky di cui facevano parte anche Paola e Chiara, il disco è sicuramente più maturo e molto valido con pezzi iconici come Gli Anni, la sanremese Senza Averti Qui, la festaiola La Radio a 1000 Watt e la bellissima ghost track Non 6 Bob Dylan. Eppure già allora qualcosa si era rotto: il disco era patinato, i testi più ricercati e nel complesso era più che buono ma mancava quella rozza freschezza e strafottenza dei primi due.

Per avere un altro album in studio si dovrà attendere il 1997 con La Dura Legge del Gol!, l'anno prima Pezzali ancora con il nome 883 aveva pubblicato un solo singolo per le radio intitolato Dimmi Perché e pubblicato nella raccolta Cecchetto Compilation che raccoglieva brani nuovi o remix di artisti della scuderia di Claudio Cecchetto come Nikki e i B-Nario. Prima dell'album uscì il singolo Un Giorno Così che sembrava assestarsi sulla qualità de Il Grande Incubo, ma purtroppo il disco semplicemente rovinava tutto. L'atteggiamento dei primi due album da Beastie Boys all'italiana (senza arrivare a testi così espliciti, un po' come aveva fatto Jovanotti ispirandosi ai primi rapper d'oltreoceano ma con testi molto più blandi e leggeri) se n'era andata per sempre e Pezzali si era semplicemente messo sulla scia mainstream dei cantautori italiani con testi di maniera e poco coinvolgenti.

Non è un caso che la setlist del concerto di San Siro contenga per intero i primi due album e pezzi sparsi dai seguenti, perché l'essenza iconica di Pezzali è in realtà relegata ai primi due album, quelli con Mauro Repetto che forse non era un comprimario ma metà dell'anima del gruppo che senza di lui rimase monco. Da lì in poi la vena creativa del solo Pezzali è andata appiattendosi e l'atteggiamento ribelle degli inizi si è perso per strada.

Max Pezzali è stato quindi sicuramente un ottimo cantore di un'epoca: ma quest'epoca non è durata un decennio come i giornali scrivono in questi giorni. Il periodo d'oro cantato da Pezzali è molto più corto, è durato solo poco più di solo due anni.

sabato 2 luglio 2022

Def Leppard - Diamond Star Halos


A distanza di quasi sette anni dal loro precedente lavoro, tornano i Def Leppard con un nuovo album intitolato Diamond Star Halos che rappresenta il dodicesimo lavoro in studio della band capitanata da Joe Elliott. Il nuovo album vede il gruppo in splendida forma confezionare un'opera potente e raffinata che coniuga nel migliore dei modi i proprio i stilemi classici proponendo una commistione di rock melodico ricco di cori e atmosfere patinate. La formazione che ha realizzato il disco è la stessa che forma stabilmente la band dal 1993, con Phil Collen e Vivian Campbell alle chitarre, Rick Savage al basso e l'eroico Rick Allen alla batteria.

L'album è composto da quindici tracce che partono fortissimo con Take What You Want e Kick, due pezzi energici in cui i cori che accompagnano Joe nelle linee vocali hanno un ruolo trascinante e danno subito un assaggio di ciò che seguirà nel resto del disco. Subito dopo troviamo infatti Fire It Up (curiosamente è la seconda volta dopo Dangerous del 2015 in cui i Def Leppard utilizzando un titolo usato in passato anche dal rapper Busta Rhymes, ovviamente si tratta di un caso non avendo nulla in comune) che si apre con i cori prima che sopraggiunga l'incalzante cantato di Joe Elliot. Tra i pezzi energici migliori troviamo anche la trascinante All We Need, che è forse il brano in cui le atmosfere ottantiane sono più marcate

Nonostante le tracce veloci siano la parte preponderante del disco, non mancano atmosfere diverse come nelle ballad From Here to Eternity, Open Your Eyes, Angels e nella magniloquente Goodbye for Good This Time che coniuga sapientemente atmosfere sinfoniche ricche di archi con la presenza di chitarre latineggianti. Le commistioni musicali non finiscono qui visto che nell'album troviamo anche l'onirico midtempo Liquid Dust e l'atipico groove di U Rok Mi.

Nel disco è presente come ospite Alison Krauss (in Italia conosciuta purtroppo solo per le collaborazioni con Robert Plant, nonostante abbia alle spalle una lunghissima discografia) che regala un prezioso contributo in due brani: la ballad dalle atmosfere blued This Guitar e Lifeless contaminata da suggestioni southern, la seconda è presente nella versione deluxe del disco come bonus track in una versione aggiuntiva cantata dal solo Joe.

In conclusione Diamond Star Halos è un disco solido che non vede momenti di noia ed è incredibile constatare come a quarantadue anni dall'esordio questa band sappia sfornare album di questo livello, mischiando sempre il proprio sound con elementi nuovi e non proponendo formule usurate. Diamond Star Halos non è solo un ottimo disco, ma uno dei migliori della lunga discografia della band che, partendo dalle sonorità più metal nei primi anni 80 ed approdando a quelle AOR sul finire del decennio, non sbaglia un colpo dal lontano On Through the Night.

sabato 11 giugno 2022

Visions of Atlantis - Pirates



A quasi tre anni da Wanderers tornano i Visions of Atlantis con un nuovo album intitolato Pirates realizzato con la stessa formazione del precedente. Il disco è composto da dodici tracce di ottimo metal sinfonico che sorprendono per la loro qualità già dal primo ascolto, perché giunta al suo ottavo lavoro in studio la band guidata da Clémentine Delauney e Michele Guaitoli affina la propria formula regalando un disco che rasenta la perfezione grazie a una vincente mescolanza delle loro caratteristiche principali: sonorità energiche, melodie accattivanti, le straordinarie doti vocali dei cantanti e i cori che li accompagnano. In particolare in questo nuovo album la soprano francese, se possibile, sale di un altro gradino grazie alla sua miglior performance in carriera con cui si mostra al massimo della forma e si impone definitivamente come una delle più iconiche regine della scena metal mondiale.

Il disco, come si evince dal titolo, si ispira ad atmosfere piratesche e questo non sorprende più di tanto visto che il mare è un tema ricorrente nei dischi dei Visions of Atlantis fin dagli esordi, basti pensare che il nome stesso della band si ispira al mito di Atlantide, che il disco precedente parlava di naufraghi e che nelle tracce più famose del gruppo troviamo Lemuria e Return to Lemuria, dedicate alla mitica omonima isola.

L'album parte fortissimo con due brani energici, quali Pirates Will Return e Melancholy Angel, che includono tutti gli stilemi che caratterizzano il disco, con basi potenti e con Clémentine che ci regala rapidi e frequenti cambi di registro passando con disinvoltura al canto lirico. L'intesa vocale tra i due cantanti è perfetta, con Clem e Michele che si alternano e duettano come una sorta di dream team del canto metal. Subito dopo troviamo Master the Hurricane che regala uno stupendo connubio tra atmosfere nordiche, grazie alla presenza di flauti e cornamuse, cori epici e sonorità symphonic metal; suggestioni scandinave simili si trovano anche nell'onirica In My World. Tra i brani migliori troviamo sicuramente anche Legion of The Seas caratterizzata da atmosfere magniloquenti e Darkness Inside che è il pezzo che più si avvicina alle sonorità ottantiane grazie al suono preponderante delle tastiere. Pirates vede anche la presenza di tre ballad, quali Freedom, in cui il coro si esprime in un meraviglioso vocalizzo, Heal The Scars, cantata dalla sola Clémentine, e I Will Be Gone, che ripropone le sonorità nordiche vicine ai Nightwish e che chiude il disco.

In Pirates, in sintesi, funziona bene praticamente tutto, perché è un capolavoro di scrittura, composizione e interpretazione, che mette in luce gli aspetti più solidi di questa band. Che i Visions of Atlantis avessero raggiunto l'apice con l'aggiunta di Michele e Clémentine era noto già dall'album precedente, ma questo disco conferma che la formula funziona alla grande e che possiamo aspettarci altri dischi di questi altissimo livello anche per il futuro. Non resta che da godersi questo disco, in attesa che il tour li porti in Italia e di poter sentire queste gemme di metal anche dal vivo.

sabato 28 maggio 2022

Horus Black - Spinning Rainbow



A quattro anni di distanza dal precedente LP Simply torna il giovanissimo Horus Black, al secolo Riccardo Sechi, con un nuovo EP intitolato Spinning Rainbow composto da cinque pezzi. Se nel primo album Horus Black aveva contaminato la sua passione per Elvis Presley con altre correnti musicali degli anni 60 e 70, in questo nuovo album prosegue l'esperimento combinando la propria vocalità ispirata a the King of Rock and Roll nello stile di fine anni 60 con il rock psichedelico dello stesso periodo.

Spinning Rainbow, la cui copertina trae spunto da quella di Rising dei Rainbow di Ronnie James Dio e Ritchie Blackmore, sembra nato da un inedito incontro tra Elvis e Jim Morrison. La commistione tra i due modelli si nota soprattutto nella title track che apre il disco e in The Monster in cui sembra di ascoltare una outtake di Strange Days dei Doors. Nel disco troviamo anche Kill You with Kisses, ispirata alle ballad di Elvis dei primi album, e il fresco rock and roll di Beatrice. Chiude l'EP il pezzo più interessante e magniloquente intitolato Mirror on The Wall, di cui è stato anche girato un video, in cui troviamo le atmosfere roboanti di An American Trilogy contaminate dal folk prog dei Jethro Tull, grazie al flauto suonato da Francesco Loi. Nella band di Horus Black, inoltre, suonano il chitarrista Samuele Perduca e il batterista Nicolas Megna degli Anxia Lytics recentemente distintisi al programma The Band di Rai 1.

Con Spinning Rainbow Horus Black si conferma una delle voci più interessanti del panorama italiano degli ultimi anni grazie alla sua voce singolare che gli consente sperimentazioni inedite con gli stilemi del passato. Horus Black combina componenti diverse appartenenti a mondi altrettanto diversi, creando suggestioni nuove con elementi dell'epoca d'oro del rock and roll che sicuramente convinceranno gli appassionati di classic rock di qualunque epoca.

martedì 10 maggio 2022

Perché lo standard jazz Moonlight Serenade si intitola così?



Moonlight Serenade è uno dei brani più iconici della discografia di Glenn Miller ed è anche uno degli standard jazz più noti di ogni epoca, grazie anche al titolo onirico e suggestivo che dona fascino al brano prima ancora del suo ascolto. Tuttavia la scelta del titolo fu lunga e travagliata e passò attraverso fasi successive.

Il brano nacque nella sua prima forma nel 1935 con musica di Glenn Miller e testo di Eddie Heyman, celebre paroliere che aveva composto anni prima anche Body and Soul e che negli anni successivi avrebbe scritto altri celeberrimi standard come When I Fall in Love e For Sentimental Reasons, intitolata Now I Lay Me Down to Weep. In seguito George Simon, compositore e biografo di Miller, propose a quest'ultimo un nuovo testo intitolato Gone with the Dawn; ma il celebre jazzista non fu soddisfatto né della proposta di Heyman, né di quella di Simon.

Miller quindi non incise il pezzo fino a quando nel 39 gli fu quindi proposto un terzo testo, questa volta scritto da Mitchell Parish, che nel 1928 aveva scritto anche le parole di Stardust, intitolato The Wind in the Trees. A Miller piacque, ma prima che potesse inciderla la casa discografica, la Robbins Music, ne acquistò i diritti e decise di stamparla su 78 giri come lato B della cover di un brano di Frankie Carle intitolato Sunrise Serenade.

La Robbins Music pensò che un buon completamento per Sunrise Serenade avrebbe potuto essere intitolato Moonlight Serenade e chiese a Mitchell di scriverne un altro testo con il titolo nuovo. Il disco fu pubblicato il 4 aprile del 1939 e riscosse subito grande successo; la versione incisa sul primo 78 giri è ovviamente quella strumentale, ma il testo di Mitchell Parish è stato negli anni interpretati da molti dei più noti vocalist della storia del jazz, come Ella Fitzgerald e Frank Sinatra.

La storia di Moonlight Serenade è tanto più incredibile se si considera che è nata come un B-side, ma la sua fama oggi supera largamente quella di Sunrise Serenade al punto che la prima è uno dei brani più noti di Glenn Miller, mentre la seconda è spesso ignorata anche nelle compilation più recenti. Inoltre negli anni Miller utilizzò titoli simili in altri brani, quali Moonlight Cocktail e Serenade in Blue entrambe del 1944, a riprova del fatto che Moonlight Serenade fu uno dei brani che gli regalarono più successo.

Nonostante sia stato quindi scelto per rendere omaggio a un brano che si attendeva fosse più importante, la scelta di un titolo così evocativo contribuì sicuramente a creare il successo di un pezzo leggendario nato dalla perfetta commistione di musica, testo e titolo.



Fonti: