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venerdì 4 settembre 2020

An American Prayer: l'ultimo album dei Doors

Sette anni dopo la morte di Jim Morrison, e dopo due album in cui alla voce di alternavano Robby Krieger e Ray Manzarek, i Doors pubblicarono il loro ultimo album intitolato An American Prayer in cui alla voce tornò proprio Morrison: il disco è stato infatti realizzato aggiungendo delle basi musicali alla voce di Jim che legge le proprie poesie. Come si può chiaramente immaginare in queste incisioni Jim Morrison non canta, ma parla, o meglio recita i propri testi; non troveremo quindi la voce grintosa e graffiante di Break On Through ma un disco unico nel suo genere, a tratti forzato ma comunque interessante.


Dal punto di vista canoro l’album è sicuramente singolare, ma da quello musicale questa composizione non ha nulla da invidiare agli album precedenti della band. Le basi musicali che i Krieger, Manzarek e Densmore hanno composto per questo atipico album costituiscono infatti una sorta di compendio degli stilemi classici dei Doors, passando dal rock psichedelico, al jazz ai suoni latini e al blues, con anche alcuni rimandi chiari a loro pezzi storici come Riders on the Storm e The End. Il risultato complessivo è una sorta di talking blues in cui le uniche parti effettivamente cantante sono uno snippet di Peace Frog e una versione live composita di Roadhouse Blues che unisce una registrazione a New York con una a Detroit del 1970.

An American Prayer non è sicuramente il disco migliore dei Doors, ma resta un album importante che mostra la straordinaria creatività della band che è riuscita a realizzare un disco di buon livello in condizioni molto particolari. Questo album è notevolmente diverso dai precedenti e richiede un’atmosfera d’ascolto altrettanto diversa: non sono pezzi fatti per essere ascoltati nelle folle di un concerto, ma piuttosto in un momento di raccoglimento e isolamento. Fatte queste premesse e approcciato con le giuste aspettative, An American Prayer si rivela un disco prezioso, per conoscere aspetti meno noti dello straripante Jim Morrison e per avere un’altra prova della ricchezza musicale di questa iconica band.

domenica 5 luglio 2020

Giacomo Voli - Retorbido, 4/7/2020

È il 4 luglio, il lockdown è finito da due mesi e la vita torna lentamente a essere quella di prima. A breve probabilmente il virus sarà un brutto ricordo, ma tra le cose che ancora ci mancavano c'è il ritorno della musica dal vivo. Finalmente è tornata anche quella, e quale occasione migliore per il primo concerto post-lockdown di un live acustico di Giacomo Voli al Dagda di Retorbido? Uno dei migliori cantanti al mondo fa un concerto vicino a casa, non ci sono dubbi: l'evento è imperdibile.


Il Dagda ha messo in atto le necessarie misure di sicurezza: termoscanner all'ingresso, consumazioni servite all'aperto e sedie distanziate tra il pubblico. Non danno per nulla fastidio, anzi quasi sembra tutto normale e quindi la musica è godibile al 100%.

Giacomo sale sul palco verso le 21, ma si capisce presto che quello che sta per esibirsi è in realtà un terzetto. Oltre al nostro vocalist, che suona anche la tastiera, ci sono Gianluca Molinari (che affianca Voli anche nel progetto The Voice of Rock) nel ruolo di chitarrista e la ben nota Francesca Mercury (ideatrice del progetto La Mercury racconta i Queen che vede alla voce proprio Giacomo Voli) nel ruolo inedito di intervistatrice e conduttrice.


Il concerto parte con Impressioni di Settembre e I Can't Find My Way Home, che Giacomo ha inciso come cover nel suo EP di esordio Ancora nell'Ombra. La serata ha un approccio singolare, perché Francesca tra una canzone e l'altra intervista Giacomo chiedendogli della sua vita, della sua formazione e di come è nato il suo interesse per la musica. Giacomo ci racconta quindi che il suo amore per la musica è nato da bambino grazie al nonno materno cornista e di come poi abbia scoperto l'opera, il rock melodico e il metal e di come da sempre cerchi di coniugare questi aspetti mischiando sapientemente ingredienti di musica di stili diversi. Spesso, quando Giacomo nomina un pezzo, Gianluca ne esegue il riff in sottofondo, rendendo il racconto ancora più vivido e vibrante.

Forse la serata non era partita con i migliori auspici, perché Giacomo racconta anche di essere infortunato a causa di un incidente stradale, ma se non lo avesse detto non se ne sarebbe accorto nessuno (se non fosse per le bende alle braccia) perché suona e canta come se fosse in gran forma e la precisione al piano e la potenza della voce sono sicuramente al pieno delle loro capacità; segno che neanche gli imprevisti possono fermare i migliori artisti.

La setlist della serata spazia tra il rock degli anni 70, agli anni 80 fino ai 90 pescando da un repertorio vastissimo che tocca i Led Zeppelin e i Deep Purple, l'AOR di Eye on the Tiger dei Survivor per poi passare ai Queen e ai Pink Floyd. E tra un pezzo e l'altro Giacomo narra alcuni aspetti meno noti della sua carriera: come qualche scelta bizzarra degli autori di The Voice of Italy nella selezione dei pezzi o di come sia stato contattato da Alex Staropoli per un progetto parallelo di musica barocca, per poi approdare ai Rhapsody of Fire dopo l'abbandono di Fabio Lione. Dalla discografia dei Rhapsody ci regala una versione da brividi in italiano di The Wind, the Rain and the Moon, e dalla propria produzione solista Giacomo pesca anche uno snippet della traccia di chiusura del suo ultimo album intitolata Il Libro dell'Assenza


Il tempo nella sala letteralmente vola via, e quando Francesca annuncia che siamo giunti all'ultimo pezzo mi sembra incredibile, però effettivamente l'orologio dice che è mezzanotte. Nel caldo di questa serata che ha il sapore di una rinascita Giacomo si ferma a scambiare qualche parola con i fan mostrando una vicinanza al proprio pubblico che poche star del suo livello hanno.

La serata è giunta al termine, ma tornando verso casa non si sente la sensazione che qualcosa sia finito, ma che questa sia una ripartenza perché di serate come questa ne seguiranno decine e forse centinaia. E quello che ha reso unica questa serata non è stata solo la musica e la voce di Giacomo Voli, ma anche il fatto che un grande artista abbia raccontato il proprio lato umano. Perché per sapere cantare così bisogna essere grandi cantanti, ma per sapere raccontare cosa c'è dietro e dentro bisogna essere grandi e basta.

martedì 12 maggio 2020

La discografia degli Eagles successiva alla reunion del 1994

Gli Eagles sono una delle band più influenti degli anni 70, alcune delle loro hit come Hotel California e Tequila Sunrise sono classici senza tempo del rock e il sound della band, con le sue sonorità country rock e i cori polifonici, è tra i più riconoscibili della musica di ogni genere.

Gli Eagles interruppero l'attività nel 1980 dopo la pubblicazione del live Eagles Live e negli anni seguenti Don Henley affermò varie volte che la band si sarebbe riunita solo quando l'inferno fosse congelato. Nonostante l'evento fosse quindi ritenuto estremamente improbabile, la band si riunì davvero a metà degli anni 90, con la stessa formazione a cinque che aveva realizzato The Long Run nel 1979, e l'album frutto della reunion si intitola proprio Hell Freezes Over. Il disco contiene un live registrato nell'aprile del 1994 per uno speciale su MTV più quattro inediti: tre ballad quali The Girl From Yesterday, Love Will Keep Us Alive e Learn To Be Still, e un solo unico pezzo veloce intitolato Get Over It che rappresenta uno dei brani più energici che la band abbia mai realizzato. Nel live che compone il resto del disco la band reinterpreta undici dei propri pezzi storici, tra cui una versione acustica di Hotel California con percussioni latine che è stata pubblicata anche in singolo. La versione in DVD di Hell Freezes Over include anche i quattro inediti in versione live, oltre a tre tracce aggiuntive quali Help Me Through the Night di Joe Walsh, The Heart of the Matter di Don Henley e una versione rimasterizzata di Seven Bridges Road di Steve Young tratta da Eagles Live.

Nel 2003, dopo l'uscita dal gruppo del chitarrista Don Felder, la band ha pubblicato la compilation The Very Best Of che contiene trentadue tracce storiche tratte dagli album precedenti più l'inedito Hole in the World dedicato agli attentati dell'11 settembre 2001.

Nel 2007, a tredici anni dalla reunion, la band ha inciso quello che finora resta l'unico album in studio successivo alla reunion intitolato Long Road Out of Eden. L'album è composto da venti tracce su due dischi, tutte di alto livello al punto che viene da pensare che con il materiale pubblicato avrebbero potuto realizzare due album.

Il disco ha esattamente le sonorità che ci si aspettano da un progetto del genere, che riprende gli stilemi del passato con brani melodici e ricchi cori eseguiti da tutti i membri del gruppo che spesso fanno quattro voci diverse. Dall'album sono stati estratti cinque singoli, quali How Long (cover dell'omonimo brano di J.D. Souther dal suo primo album del 1971), Busy Being Fabulous, No More Cloudy Days, What Do I Do With My Heart, e I Don't Want to Hear Anymore.

Tra le tracce del disco spiccano anche Center of the Universe caratterizzata da un ritmo ispirato alla musica mariachi e Last Good Time in Town dalle sonorità vagamente caraibiche; la scelta stupisce solo in parte perché anche Hotel California ha influenze messicane e caraibiche al punto che nella versione demo era intitolata Mexican Reggae.

Da allora la band ha intrapreso vari tour e concerti, ma a seguito della morte di Glen Frey nel 2016 sicuramente non inciderà null'altro di inedito. Il combo californiano appartiene quindi alla storia, almeno a livello di dischi nuovi in studio, e in parte l'ha scritta, con il loro stupendo soft rock che spazia dal disco eponimo del 1972 fino a Long Road Out of Eden del 2007.

martedì 21 aprile 2020

Move Over Ms. L: l'unico b-side di John Lennon mai pubblicato in un album

Durante la sua carriera solista John Lennon ha inciso più di ottanta tracce, tra il 1968 e il 1980, anno della sua morte. Di norma i 45 giri di Lennon erano a doppio lato A oppure il b-side del singolo principale era un pezzo inciso dalla sola Yoko Ono, ma nella lunga discografia di Lennon esiste un solo b-side che non ricade in questi due casi e che non è mai stato pubblicato su un album: si tratta di Move Over Ms. L, secondo lato di Stand By Me del 1975.

Il brano è un divertente rock and roll, ispirato ai pionieri del genere degli anni 50 con qualche evidente richiamo a Little Richard. Secondo quanto riportato da The Beatles Bible doveva essere incluso in Walls and Bridges del 1974, ma non trovò spazio nella composizione finale dell'album. Lennon allora diede la canzone a Keith Moon che la inserì nel suo album Two Sides of the Moon del 1974 e l'anno dopo, dopo averne realizzato un'incisione in studio ritenuta soddisfacente, la usò come b-side di Stand By Me tratta dall'album Rock 'n' Roll; trattandosi di un album di cover il pezzo non poté essere incluso nell'album.

Move Over Ms. L è stata per la prima volta inclusa in un 33 giri nel 1982 nella compilation The John Lennon Collection e in seguito è stata inclusa anche nel cofanetto John Lennon Signature Box
che contiene tutte le registrazioni in studio di Lennon. Il brano è sicuramente valido anche se decisamente atipico per le sonorità soliste di Lennon, forse è per questo che non lo ha voluto in Walls and Bridges, ma resta un interessantissimo e raro b-side da riscoprire.

martedì 7 aprile 2020

La morte di Janis Joplin

Janis Joplin è senza dubbio la cantante rock e blues più famosa di ogni tempo. Purtroppo la sua vita si interruppe a soli 27 anni, quando fu trovata senza vita il 4 ottobre del 1970 dal road manager John Cooke nella stanza 105 del Landmark Motor Hotel di Hollywood in cui la cantante ha trascorso l'ultimo mese della sua vita, durante il quale si trovava a Los Angeles per incidere quello che sarebbe stato il suo ultimo album intitolato Pearl con la sua nuova band, i Full Tilt Boogie Band.

In preda alla noia e in attesa di tornare allo studio di registrazione con il resto del gruppo, alle 15:30 del 3 ottobre Janis chiamò nella sua stanza di albergo il suo spacciatore di fiducia, George, da cui comprava l'eroina abitualmente. Janis comprò da lui una dose, che nel giro di poche ore si sarebbe rivelata fatale, ma non la assunse subito e la lasciò in una scatola. Chiamò al telefono il suo fidanzato Seth Morgan, ma la telefonata non fu tranquilla, perché Seth avrebbe dovuto raggiungerla in California e invece le comunicò che non avrebbe preso il volo per Los Angeles; da quando Janis si trovava nella metropoli i due si erano visti raramente e questo aumentò la tensione tra i due che già stava crescendo.


Intorno alle 17:30, e senza aver assunto la dose di eroina, Janis uscì dal motel per andare allo studio di registrazione Sunset Sounds, dove la band stava già lavorando a quello che sarebbe diventata una delle tracce di Pearl: il brano profeticamente intitolato Buried Alive In The Blues. Il pezzo le piacque molto e volle così provare a condividere la propria gioia con Seth, ma l'uomo non era in casa quando Janis provò a telefonargli; sentendosi abbandonata e delusa, Janis cercò conforto nel whiskey di cui bevve qualche bicchiere insieme al resto del gruppo.

Quel giorno la band finì di registrare la traccia audio di Buried Alive In The Blues, di cui Janis avrebbe dovuto registrare la traccia vocale il giorno dopo, ma purtroppo non ebbe mai occasione di farlo. Finito il lavoro, Janis insieme al tastierista Ken Pearson si fermò al locale notturno Barney's Beanery per un altro drink, la cantante bevve due vodka con succo d'arancia. I due lasciarono il locale circa mezz'ora dopo la mezzanotte; Janis tornò nella propria stanza del motel, dove si preparò la dose di eroina comprata nel pomeriggio da George e se la iniettò in vena.

L'overdose non soggiunse immediatamente. Janis uscì dalla stanza e camminò fino alla portineria dell'albergo dove chiese al portiere di cambiarle una banconota per avere delle monete con cui comprare le sigarette da un distributore automatico; il portiere fu l'ultima persona a vedere Janis viva. La cantante comprò un pacchetto di Marlboro dal distributore e tornò nella stanza 105, fece pochi passi, quindi cadde al suolo tra il letto e il comodino.

Nessuno scoprì il cadavere per circa 18 ore. Intorno alle 19 del 4 ottobre la band si preoccupò non vendendola arrivare allo studio di registrazione. Il produttore Paul Rotchild chiamò John Cooke chiedendogli di andare a verificare come stesse Janis. Cooke arrivò al Landmark Motel (oggi noto come Highland Gardens Hotel) e vide la Porsche 356 colorata con motivi psichedelici della cantante nel parcheggio. Chiese al portiere la chiave della camera 105 e quando aprì la porta trovò Janis stesa a terra in posizione prona, con la testa voltata verso sinistra e con la guancia destra contro il pavimento.


L'autopsia fu eseguita dal celeberrimo medico legale Thomas Noguchi (che aveva eseguito anche le autopsie di altre celebrità tra cui Robert Kennedy e Marilyn Monroe) il quale stabilì che la causa della morte fu un'overdose di cocaina. Noguchi chiarì alla stampa che non c'era alcun segno che indicasse l'omicidio, né il suicidio: la morte di Janis Joplin fu accidentale.

Di norma la cocaina comprata in strada era pura al 3%, quella che George aveva venduto a Janis Joplin era pura oltre il 40%. Quello stesso weekend a Los Angeles morirono altre otto persone di overdose per cocaina troppo pura acquistata dallo stesso spacciatore; di norma George si faceva aiutare da un amico chimico a preparare le dosi per essere sicuro che queste non fossero mortali, ma in quella settimana l'amico di George non si trovava a Los Angeles e quindi lo spacciatore preparò le dosi da solo. Quando la polizia arrivò sulla scena trovò nel cestino dei rifiuti la garza sporca di sangue e l'involucro di plastica che George aveva usato per contenere l'eroina.

Sulle prime può stupire che l'overdose non sopraggiunga subito, per chiarire il dubbio la biografa Myra Friedman autrice del libro Buried Alive: The Biography of Janis Joplin chiese conferma all'ufficio del coroner di New York, dove l'autrice vive, che le confermò che non è strano che la morte soggiunga vari minuti dopo l'assunzione della dose letale.

La tesi su Noguchi fu in seguito corroborata dall'analisi indipendente di un altro medico legale, il dottor Michael Hunter, quando indagò il caso della morte di Janis Joplin per il programma televisivo Autopsy: The Last Hours of... nel 2017. Hunter confermò che la causa del decesso fu da attribuire alla purezza anomala della droga.

Nel 2018 l'amica di Janis Joplin Peggy Caserta avanzò una teoria alternativa secondo cui Janis non sarebbe morta di overdose, ma asfissiata dopo essere caduta inciampando in un tappetino della stanza ed essersi rotta il naso contro il comodino. L'ipotesi che Janis si fosse rotta il naso cadendo fu avanzata anche da Cooke dopo averla vista stesa, ma non trova riscontro nell'autopsia di Noguchi secondo cui l'unica ferita al viso fu un taglio al labbro. Inoltre non c'è alcuna conferma che Peggy Caserta sia davvero stata presente al Landmark Hotel prima che il cadavere venisse rimosso: Peggy non è mai stata menzionata da John Cooke, né il rapporto della polizia menziona la presenza di altri testimoni.

Janis Joplin morì solo sedici giorni dopo Jimi Hendrix, in quello che fu un mese terribile per la musica mondiale. Purtroppo la spiegazione di quanto accaduto è molto semplice: la sua vita di eccessi e droga ha ucciso la regina del rock and roll.



Fonti aggiuntive rispetto a quelle linkate nell'articolo:

mercoledì 25 marzo 2020

Perché i Led Zeppelin si chiamano così?

Come suggerisce la copertina del loro primo album, il nome dei Led Zeppelin è ovviamente ispirato al dirigibile LZ 129 Hindenburg, prodotto dalla Zeppelin Company, che prese fuoco e venne distrutto in fase di attracco nella stazione di Lakehurst nel New Jersey il 6 maggio del 1937. Se è ovvio e noto che il nome della band richiama quello del famoso produttore di dirigibili, è meno noto come il quartetto abbia scelto come proprio marchio la combinazione di queste due parole.


Due anni prima che il gruppo assumesse la sua formazione storica, nel 1966, Jimmy Page si unì come bassista al gruppo rock dalle influenza blues degli Yardbirds. Al tempo la band era formata da Keith Relf alla voce, Jeff Beck alla chitarra solista, Chris Dreja alla chitarra ritmica, Jim McCarthy alla batteria e Paul Samwell-Smith al basso; ovviamente Page sostituì quest'ultimo. L'idea di Page era quella di formare un supergruppo che includesse anche Keith Moon e John Entwistle degli Who, ma il progetto non si concretizzò. Dopo un breve periodo Page passò alla chitarra solista venendo sostituito al basso da Chris Dreja e formando così una coppia di valorosi chitarristi con Jeff Beck; in questo nuovo scenario Relf assunse anche il ruolo di chitarra ritmica. Tuttavia poco dopo Beck lasciò la band, che senza di lui tornò ad essere un quartetto.

Gli Yardbirds, che avevano all'attivo già quattro album in studio e un live, con la formazione a quattro tennero il proprio ultimo concerto nel luglio del 1968 all'università di Luton; poco dopo anche Relf e McCarthy abbandonarono la band lasciando come unici membri rimanenti Jimmy Page e Chris Dreja. Per impegni contrattuali il gruppo doveva comunque compiere un tour di quattordici date in Scandinavia nel settembre dello stesso anno e i membri uscenti furono sostituiti da Robert Plant alla voce e John Bonham alla batteria. In ultimo anche Chris Dreja lasciò la band per dedicarsi alla carriera da fotografo e fu sostituito da John Paul Jones, formando così per la prima volta la formazione storica dei Led Zeppelin.

Il quartetto così formato tenne i concerti previsti in Scandinavia, tra Danimarca, Svezia e Norvegia, tra il 7 e il 24 settembre del 1968 con il nome di Yardbirds, o occasionalmente New Yardbirds, perché i precedenti membri della band li avevano autorizzati ad usare il nome storico per onorare gli impegni già presi.

Al ritorno dalla tournée la band iniziò a registrare il proprio primo album e iniziò a prepararsi a un nuovo tour nel Regno Unito che li avrebbe impegnati dal 4 ottobre al 20 dicembre con il nome di New Yardbirds. Il biografo Mick Wall racconta nel suo libro When Giants Walked the Earth che quando Dreja seppe che il gruppo intendeva continuare a usare il nome precedente inviò una lettera di cease and desist (nel common law, una richiesta di cessazione immediata di un'attività ritenuta illegale) che intimava loro di non usare più il nome Yardbirds, in quanto la concessione era limitata al tour scandinavo. Jimmy Page tuttavia chiarì in un'intervista che la band aveva intenzione di cambiare nome in ogni caso.

Per la scelta del nome nuovo il quartetto attinse da un commento di Keith Moon risalente al 1966, secondo cui un gruppo con Jimmy Page e Beck sarebbe precipitato come una mongolfiera di piombo: un lead balloon, nella formulazione originale di Moon. Balloon fu sostituito con Zeppelin, che secondo quanto riportato dal il giornalista Keith Shadwick nel suo libro Led Zeppelin: the Story of a Band and Their Music: 1968-1980, dava la giusta idea del connubio tra pesantezza e luce, tra infiammabilità e grazia. La grafia di lead fu tramutata in led per evitare che venisse pronunciato come il verbo to lead, come nell'espressione lead singer. Il tour nel Regno Unito partì con il nome di New Yardbirds, ma il 14 ottobre la band ufficializzò il proprio nuovo nome e  il 25 ottobre all'Università del Surrey usò per la prima volta in pubblico il marchio Led Zeppelin.

Il nome della band avrebbe quindi dovuto indicare un clamoroso e sonoro fallimento, ma dalla scelta del loro nome definitivo i Led Zeppelin si sono affermati come una delle band più produttive, innovative e influenti della storia del rock. La scelta del quartetto fu forse scherzosa e scaramantica, e a distanza di oltre cinquant'anni possiamo sicuramente affermare che fu anche vincente.

mercoledì 18 marzo 2020

Russell Allen / Anette Olzon - Worlds Apart

A marzo di quest'anno la celeberrima etichetta italiana Frontiers Records ha pubblicato il primo album dell'inedita coppia formata da Russell Allen, vocalist tra gli altri di Symphony X e Adrenaline Mob, e Anette Olzon, frontwoman dei Dark Element e seconda cantante dei Nightwish dopo Tarja e prima di Floor Jansen. Come è evidente l'esperimento si colloca sulla scia di altre produzioni simili, come la coppia formata dallo stesso di Allen con Jørn Lande, quella composta di Michael Kiske e Amanda Somerville e il duo tutto italiano di Fabio Lione e Alessandro Conti.

Il primo album di questo inedito combo si intitola Worlds Apart ed è composto da undici tracce il cui suono è esattamente quello che ci si aspetta da un duo di vocalist di altissimo livello come questi: rock melodico che mette pienamente in luce le capacità canore dei due che al mondo hanno pochissimi eguali. Ciascuno di loro canta da solo tre dei pezzi, e nei rimanenti cinque duettano, con Anette che fa le voci alte e Russell quelle basse, e se le doti canore della Olzon sono ampiamente note va sottolineato come Allen tiri fuori aspetti più melodici e in stile power metal di quanto faccia di solito; ci troviamo, ad esempio, lontanissimi dalle sonorità aspre degli Adrenaline Mob. Le basi sono smaccatamente ispirate all'AOR ottantiano da cui questo album attinge a piene mani e proprio per questo il disco è ricco di melodia in ogni traccia con anche una buona dose di power ballad, e questa commistione di suoni morbidi e patinati rende il disco piacevole e orecchiabile già al primo giro.

Le undici tracce convincono tutte, dalla prima all'ultima, ed è molto difficile individuare momenti migliori di altri. Tra i brani cantati dal solo Allen spicca comunque Lost Soul che ha strofe veloci e ritornelli da ballad; tra quelle soliste di Anette il brano migliore è sicuramente la power ballad Cold Inside che presenta atmosfere ottantiane ancora più marcate che altrove. Tra i duetti migliori troviamo la lenta What If I Live e la grintosa No Sign Of Life che sono i due brani che mettono meglio in luce l'amalgama tra i due, che sembrano cantare insieme da anni mentre invece sono alla prima prova in studio in coppia.

È ovvio che questo tipo di esperimenti non è fatto per scrivere la storia del rock, che questo album si basa su stilemi musicali noti e non fa dell'innovazione il suo punto di forza; ma ciò non toglie che questo disco è sicuramente un momento di ottimo rock melodico, che diverte e intrattiene per tutta la sua durata e propone una prova canora stupefacente delle voci limpide e potenti di questi due interpreti. E vista la qualità della prima opera non resta che sperare che questa coppia ci regali altri album dello stesso livello.

mercoledì 11 marzo 2020

Get You In The Mood: il b-side degli Eagles mai pubblicato in un album

Nella loro carriera musicale gli Eagles hanno inciso sette album in studio e circa trenta singoli, e nella loro lunga discografia c'è un solo b-side che non è mai stato incluso in un album. Il titolo del brano è Get You In The Mood ed è stato stampato come lato B del primo singolo della band: Take It Easy dall'album Eagles del 1972.

Il brano è cantato da Glenn Frey, che è anche la voce principale di Take It Easy nonché l'autore del pezzo. Nono sono noti i motivi per cui il brano è stato scartato, la ragione è probabilmente che mal si amalgamava con il resto del disco, perché il pezzo ha marcate venature blues e psichedeliche e sembra fortemente influenzato dalle produzioni dei Doors e dei Led Zeppelin ed è molto lontano dalle atmosfere generalmente solari del resto dell'album.

Get You In The Mood è stato pubblicato su 33 giri e su CD per la prima volta solo nel 2013, nella raccolta The Studio Albums 1972-1979 che raccoglie i sei album degli anni 70, più il singolo di Take It Easy come disco bonus. Il pezzo è stato incluso anche nel cofanetto Legacy del 2018 che racchiude tutta la discografia della band.

In ogni caso, anche se non compare su nessun album ufficiale, Get You In The Mood è un brano molto interessante che mostra un lato meno noto del gruppo, che comunque non rinuncia ad alcuni dei suoi tratti distintivi come i cori sul ritornello, e che dimostra che anche i pezzi scartati di questo straordinario quartetto sono gemme di rock di grande valore.

mercoledì 4 marzo 2020

Piero Pelù - Pugili Fragili

Dopo la sua partecipazione a Sanremo, il cantante dei Litfiba Piero Pelù ha pubblicato il suo sesto album solista (ottavo, se si includono anche le compilation Presente e Identikit che contenevano comunque materiale inedito) intitolato Pugili Fragili. Il disco è stato anticipato dall'uscita di due singoli: il sorprendentemente brutto Picnic all'Inferno, dedicato a Greta Thunberg e che contiene campionamenti di un suo discorso, e il convincente pop-rock allegro di Gigante, che Piero ha portato al Teatro dell'Ariston a inizio febbraio.

Il disco è composto da dieci tracce, tra cui troviamo anche la cover in versione rock di Cuore Matto anch'essa eseguita a Sanremo nella serata dedicata alla cover, e non è la prima volta che Piero reinterpreta nel suo stile i classici della musica italiana: come b-side del suo primo singolo solista Io Ci Sarò del 2000 aveva infatti scelto Pugni Chiusi dei Ribelli e nel tributo a Lucio Battisti intitolato Innocenti Evasioni del 1993 aveva interpretato con i Litfiba Il Tempo di Morire.

Tra le altre tracce il disco contiene sicuramente dei passi falsi, Luna Nuda e Ferro Caldo suonano stranamente forzate e sembrano essere dei riempitivi per arrivare a dieci tracce, ma fortunatamente il resto dell'album funziona bene e regala una buona dose di pezzi rock di vario stile ma sempre molto godibili. La title track è un midtempo con tematiche intimistiche che Piero ha sempre tenuto solo per i suoi album solisti, e poco dopo troviamo Nata Libera che è sicuramente il pezzo migliore e più interessante dell'album con atmosfere desertiche che sembrano nate dall'incontro dei i Litfiba di Fata Morgana e Il Mio Corpo che Cambia con i Calexico.

Il disco è chiuso da un terzetto di pezzi energici che iniziano con Fossi Foco, ispirata al celebre sonetto di Cecco Angioleri, che vede Piero duettare con Appino degli Zen Circus su un testo che si scaglia contro le discriminazioni verso le minoranze. Segue Stereo Santo, un potente e grintoso inno alla musica e al rock che cita Ozzy Osbourne come mangiatore di pipistrelli. Chiude il disco il pezzo più pesante dal punto di vista musicale, intitolato Canicola, che tratta del riscaldamento globale ed è l'unico brano che sconfina dell'hard rock.

In conclusione, Pugili Fragili conferma ciò che avevamo già capito dal 2000 al 2009: cioè che Piero è sicuramente in grado di fare della buona musica lontano da Ghigo; ma se ciascuno dei due funziona bene da solo, entrambi funzionano benissimo solo insieme. Pugili Fragili è un buon disco, che contiene pezzi decisamente validi, ma i fasti di El Diablo, Spirito o del più recente Eutòpia sono molto lontani.

venerdì 7 febbraio 2020

The Darkness - Easter is Canceled, Milano 6/2/2020


Nota: Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il contributo.

"No, no, io voglio vedere com'è vestito stavolta" questa l'ultima frase che ho sentito prima che le luci di un Alcatraz di Milano stracolmo di gente si spegnessero per l'inizio del concerto dei Darkness, segno che la gente non è lì solo per l'energia della loro musica ma anche per le performance sul palco di Justin Hawkins, carismatico frontman della band famoso tanto per i suoi acuti che per le sgargianti tutine attillate.

Dopo lo spettacolare concerto del 2017 nella cornice del Rugby Sound Festival non ho avuto molti dubbi se partecipare o meno. La band però a questo giro ha provato una formula diversa, nella prima metà del concerto è stato suonato tutto il loro ultimo disco Easter is Canceled. Benché non ci sia stato il minimo dubbio sulle eccellenti performance musicali e visive non è una formula che apprezzo particolarmente, sopratutto da una band che tra alti e bassi è sulla scena dal 2000 e l'anno scorso ha sfornato il sesto lavoro in studio dal quale è tratto il nome del loro tour 2020. L'ultimo disco non è male come stile ma forse avrei dovuto ascoltarlo un po' di più per poterlo apprezzare meglio, alla fine solamente la prima traccia Rock and Roll Deserves to Die era conosciuta visto che su Virgin Radio veniva trasmesso con un po' di regolarità.

Luci giù, un po' di suspance e la mitica One Way Ticket dà il via alla seconda parte dello spettacolo con pezzi molto più conosciuti dalla platea milanese; solo due i pezzi da Pinewood Smile: Japanese Prisoner of Love e il singolo Solid Gold e poi tanto tanto dal loro album di esordio Permission to Land. Seguono Growing on Me e poi Get Your Hands Off My Woman dove l'acuto viene magistralmente tenuto per tutta la canzone. Love is only a Feeling, pezzo relativamente lento e classificato come rock ballad che arrivò al 5° posto nella classifica UK dei singoli più venduti, e il pezzo bandiera della band I Believe in a Thing Called Love chiudono un concerto a dir poco spettacolare.

I Darkness sono una garanzia, non solo come musica, ma come scenografia (gli abiti estremi di Justin avrebbero fatto invidia alle presentatrici che stavano conducendo Sanremo nella stessa serata) e come capacità di coinvolgimento del pubblico. Alla prossima, raga!

mercoledì 5 febbraio 2020

Hootie & the Blowfish - Cracked Rear Mirror

Negli anni 90 il rock alternativo era uno dei generi musicali più popolari e tra gli esponenti di questo stile c'è stato un quartetto che lo ha sapientemente mischiato con il southern rock e con il country realizzando melodie ricche di suoni morbidi e patinati. Il gruppo in questione sono gli Hootie & the Blowfish, originari del South Carolina. Il gruppo ha la peculiarità di aver avuto una formazione stabile durante tutta la propria attività discografica, con Darius Rucker alla voce, Mark Bryan alla chitarra, Dean Felber al basso e Jim Sonefeld alla batteria.

Il primo album della band si intitolata Cracked Rear Mirror ed è stato pubblicato nel 1994. L'album è composto da undici pezzi di facile presa già al primo ascolto, grazie anche alla voce singolare del vocalist e ai numerosi cori che la band esegue soprattutto sui ritornelli. Il disco parte subito forte con Hannah Jane che coniuga sapientemente ritmi veloci e melodia dando subito un buon assaggio di ciò che si troverà del resto dell'LP. Già in questo primo album troviamo alcuni dei pezzi più iconici del gruppo, come il midtempo Hold My Hand che racchiude in sé tutti le caratteristiche migliori della band, con un intro di chitarra, una melodia orecchiabile e un ritornello in cui Darius Rucker mostra il meglio della propria vocalità accompagnato da un potente coro del resto della band. Tra i pezzi migliori troviamo anche Time, che ripropone la formula collaudata del gruppo, la veloce Drowning che costituisce uno dei momenti più brillanti del disco e Only Wanna Be With You che cita nel testo Blood on the Tracks, Idiot Wind e Tangled Up in Blue di Bob Dylan.

Il disco contiene ovviamente anche un buon numero di ballad tra cui Let Her Cry e Goodbye eseguita con solo voce e piano. In due tracce, Look Away e Running From an Angel troviamo anche la presenza di un violino, suonato da Lili Haydn della Los Angeles Philharmonic Orchestra, che dona un tocco più forte di southern rock.

Giunti al termine dell'ascolto non si può che constatare che questo disco è un vero capolavoro, composto di tracce di altissimo livello, che non annoia mai e capace di regalare emozioni dall'inizio alla fine. Il gruppo ha oggi all'attivo sei album e Rucker affianca l'attività come frontman a quella di cantante solista, in cui si dedica più al country che al rock alternativo. Cracked Rear Mirror resta ad oggi uno degli album migliori degli anni 90 grazie alle sue tante suggestioni musicali e commistioni tra stili che questi quattro musicisti hanno saputo regalarci pur non godendo della fama, almeno nel nostro paese, che meriterebbero ampiamente come dimostra questo loro primo album.

sabato 25 gennaio 2020

Giacomo Voli The Voice of Rock - Milano, 24/1/2020

Non avevo ancora visto The Voice of Rock, il nuovo spettacolo di Giacomo Voli dedicato ai classici del passato, ma questa volta la location scelta per l'evento, il Legend Club di Milano, è vicina a casa e quindi l'evento è imperdibile. E poi in scaletta ci sono due gruppi d'apertura tutti da scoprire: i Madhouse che nella bassa padana godono di buona notorietà e i comaschi Kreoles.


La serata inizia alle 21:30 come da programma con l'alt rock dei pavesi Madhouse guidati dalla grintosa frontwoman Federica Tringali la cui potente voce da contralto intrattiene il pubblico per più di mezz'ora. Segue l'hard rock di stampo ottantiano dei Kreoles che propongono pezzi tratti dal loro ultimo album dalle sonorità dure ma allo stesso tempo decisamente catchy, tanto che il pubblico riesce a cantare con il lead singer Ivan McSimon già al secondo ritornello.

Giacomo Voli sale sul palco poco dopo le 23 e con la sua band inizia la serata con Helter Skelter dei Beatles, forse più ispirata alla versione più energica degli U2, con cui dà subito sfoggio delle sue potenti doti canore che oggi sembrano proprio essere in grade spolvero, nonostante la stanchezza per un viaggio verso Milano pieno di imprevisti, come lo stesso Giacomo racconta al pubblico. Ma forse è proprio la voglia di dimostrare che gli imprevisti non fermano il nostro leggendario vocalist che spinge la band a tirare fuori il meglio di sé, infatti sul palco gira tutto benissimo e la serata scorre alla grande con un repertorio che spazia dagli anni 60 fino ai Muse.

Tra i primi pezzi Giacomo esegue Killing In The Name dei Rage Against the Machine e la scelta è tutt'altro che banale, perché Giacomo ci ha abituato da sempre ai propri virtuosismi vocali ma qui si trova a a dover rappare i versi di Zack de la Rocha. Comunque questo pezzo di ottimo crossover dimostra che Giacomo rappa alla grande e si muove benissimo in un terreno lontano da quelli consueti e a questo punto è lecito chiedersi quali siano i limiti di questo cantante fenomenale, ammesso che ne abbia.

La serata prosegue con quella che Giacomo definisce la sfida tra band, sfida nella quale non perde nessuno ma vincono sempre tutti; ovvero dei medley di pezzi di due band che hanno interpretato il rock e il metal con stili molto diversi tra loro. E se alcuni accostamenti, come quelli tra Metallica e Iron Maiden, possono sembrare naturali, altri come quello tra Queen e Muse sono davvero sorprendenti. E sorprende anche ascoltare come Madness cantata da Voli sia molto più emozionante e profonda della versione di Matt Bellamy, ma in realtà lo sapevamo almeno da The Voice of Italy di sei anni fa.


Il pubblico canta tutti i pezzi da sotto al palco per tutta la serata e Giacomo invita spesso a sostituire i versi originali con frasi buffe in italiano dal suono simile, e qualche volta si fa fatica a cantare perché le trovate del nostro Jack sono così divertenti che non riusciamo a cantare per via delle risa. La serata si chiude con la sfida tra i Deep Purple e Led Zeppelin, scelta quasi obbligata in una serata come questa, che dà modo al Giacomo di mostrare ancora una volta il meglio della propria vocalità; ma appena prima la band ci vuole proporre del metal in italiano e siccome ne esiste poco ne ha inventato un po' per l'occasione con un mash-up tra Franco Battiato e i Rammstein, più altri due pezzi di Battiato riarrangiati da Giacomo.

Alla fine della serata viene da chiedersi come sia possibile che Voli faccia così tante cose diverse, spaziando dagli acustici, alle cover dei Queen, ai Rhapsody of Fire fino a The Voice of Rock e forse la risposta ce l'ha data stasera: la creatività di questo straordinario artista non può incanalarsi su una strada sola e ha bisogno di tutta questa varietà per esprimersi.

Stasera ci hai regalato della bellissima musica e ci hai anche fatto ridere e divertire, e in questi tempi di follia è proprio ciò di cui abbiamo bisogno per rinsavire. Grazie Giacomo, a presto!

giovedì 9 gennaio 2020

Perché i Doors si chiamano così?

I Doors sono tra i più rappresentativi e iconici interpreti del rock degli anni 70 grazie a un sound distintivo e al carisma e alla capacità dei quattro membri. Il loro suono non è l'unica cosa singolare che contraddistingue questa band, perché anche il nome scelto dal quartetto è evidentemente piuttosto bizzarro.


La prima formazione della band risale al 1961 con il nome di Rick & the Ravens ed era inizialmente composta da Rick Manczarek alla chitarra, Jim Manczarek alle tastiere e all'armonica, Patrick Stonier al sassofono, Roland Biscaluz al basso e Vince Thomas alla batteria. Rick (che dava il nome al complesso) e Jim erano ovviamente i fratelli di Ray Manzarek (che usava la grafia semplificata del proprio cognome), che sarebbe diventato il tastierista storico dei Doors.

La band vide numerosi cambi di formazione e nel 1965 era composta da Jim Morrison alla voce, Ray Manzarek alla tastiera e alle seconde voci, John Densmore alla batteria, Rick Manczarek alla chitarra, Jim Manzarek all'armonica, e Patricia "Pat" Hansen al basso. Dopo aver registrato un demo che non raccolse il successo sperato, la band cambiò il proprio nome su proposta di Morrison in The Doors, prendendo spunto dal saggio dello scrittore inglese Aldous Huxley intitolato The Doors of Perception (tradotto in italiano come Le Porte della Percezione) del 1954 che narra delle esperienze vissute dall'autore grazie all'uso della mescalina, molto simili a quella che Jim Morrison e la sua band narravano nei propri pezzi. In The Doors of Perception l'autore descrive ad esempio come dopo l'assunzione di mescalina vedesse i colori più vivaci o come gli sembrasse che le pareti delle stanze non si incontrassero più dove avrebbero dovuto o ancora come gli paresse che i libri o le gambe delle sedie brillassero di luce propria.

Il titolo dell'opera di Huxley è a sua volta tratto da un verso dal poema di William Blake The Marriage of Heaven and Hell (Il Matrimonio del Cielo e dell'Inferno) che dice "If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is: infinite" ("Se le porte della percezione fossero sgombrate tutto apparirebbe all'uomo così come è: infinito") e secondo il documentario When You're Strange del 2009 fu proprio il verso di Blake a ispirare Morrison.

Poco dopo il cambio del nome i fratelli Jim e Rick Manczarek lasciarono il gruppo, seguiti da Pat Hansen. Al loro posto entro nella band Robby Krieger, formando così la lineup storica del gruppo.


La scelta del nome si rivelò sicuramente vincente; infatti ad oggi i Doors sono considerati tra i più grandi geni e innovatori della musica moderna, non solo per la qualità delle loro composizioni, ma anche per il loro atipico nome.

mercoledì 4 dicembre 2019

Trans-Siberian Orchestra - The Christmas Attic

Due anni dopo il disco di esordio Christmas Eve and Other Stories lo straordinario supergruppo dei Trans-Siberian Orchestra ha pubblicato il proprio secondo album a tema natalizio intitolato The Christmas Attic.

Così come il primo, anche questo è un concept album e la storia narrata in questa occasione è quella del ritorno sulla terra dell'angelo che era stato protagonista dell'album precedente. Questa volta la missione dell'angelo sarà quella di convincere una bambina disillusa, che la notte di Natale si è rintanata nell'attico di casa per poter vedere la propria città dall'alto, che lo spirito del Natale è reale e non è solo una trovata consumistica.

Musicalmente il disco ripropone la formula utilizzata in Christmas Eve and Other Stories, con una mescolanza di pezzi inediti scritti da Paul O'Neill, Robert Kinkel e Jon Oliva (produttore, tastierista e batterista dei Savatage), e di reinterpretazioni e mash-up di brani classici della tradizione natalizia. L'album parte con la bellissima e inedita The Ghosts of Christmas Eve cantata da Daryl Pediford e subito dopo troviamo la rielaborazione strumentale in chiave rock di Deck The Halls intitolata Boughs of Holly. Alla terza traccia troviamo il pezzo migliore dell'intero disco intitolato The World That She Sees la cui solennità è affidata alla potente voce di Jody Ashworth che con una prova vocale maestosa crea un vero classico natalizio dell'epoca moderna. Lo stesso Ashworth presta la voce anche a Christmas In the Air dalle atmosfere simili.

Rispetto al rock sinfonico del primo album, The Christmas Attic vede anche l'aggiunta di sonorità gospel con The Three Kings and I cantata da Daryl Pediford e Marlene Danielle, in cui il coro esegue alcuni snippet dell'Halleluja di Handel. Atmosfere da musica nera si trovano anche nei due pezzi di chiusura: An Angel's Share, in cui troviamo anche un coro di voci femminili che si affianca all'interpretazione di Marlene Danielle, e Music Box Blues che a dispetto del titolo offre del gospel tradizionale con il coro che si unisce in questo caso a Daryl Pediford.

Tra le reinterpretazioni di pezzi classici spicca Christmas Canon, rivisitazione corale del celebre Canone di Pachelbel affidata a un coro di bambini che cantano un testo natalizio sulla melodia originale. Tra i pezzi strumentali troviamo anche Appalachian Snowfall il cui rimando a First Snow dell'album precedente è piuttosto chiaro.

L'album è stato ristampato nel 2002 con l'aggiunta di una versione più breve di The World That She Sees intitolata The World That He Sees e con una traccia aggiuntiva a chiudere il disco costituita da un medley strumentale registrato dal vivo e intitolato Christmas Jam.

The Christmas Attic è in conclusione un disco che ripete il successo musicale dell'album precedente, mantenendone la ricchezza compositiva ma rinunciando a qualche virtuosismo che poteva rendere difficile il primo approccio a Christmas Eve and Other Stories risultando così in un album di uguale valore ma di ascolto più facile e immediato e sicuramente più godibile e divertente come colonna sonora per le feste natalizie.

sabato 21 settembre 2019

Pierre Edel - Live in Moscow 2018

The original Italian text is available here.

French vocalist Pierre Edel can't be described as "former competitor of The Voice" anymore, because his musical activity proceeds both live and in studio with deserved success. On September 21, Pierre published on YouTube the video of the concert he held in September 2018 at the Mezzo Forte Club in Moscow, where he entertained the audience with rock and roll classics for over an hour.


The band led by Pierre Edel is composed by Dmitry Ursul on guitar, Kirill Zelepukhin on keyboards, Anton Chuiko on bass, Michael Sorokin on drums and two extraordinary singers such as Anna Solo and Lera Green. The team is backed by the sound engineer Igor Baidikov.

During the concert Pierre Edel performs a selection of historical pieces taken from rock and hard rock music of the 70s and 80s, from Bon Jovi to Deep Purple through Styx and David Lee Roth. The band moves perfectly on stage and in each songs Pierre shows off his unmistakable voice, powerful and able to reach very high notes. In addition to the excellent voice of the leader, the two girls also stand out and they immediately give proof of their abilities in Bad Medicine and reiterate them in Hold the Line in which each of them sings a verse leaving the chorus to Pierre.

The concert sees a predominance of fast tracks, with the only exception of Feels Good to Me by Black Sabbath, in which Pierre proves he can compare with Tony Martin. In the setlist, Pierre adds just one blues song with Joe Bonamassa's The Ballad of John Henry, leaving unaltered its psychedelic taste; thanks to the long instrumental parts the song highlights the excellent skills of all musicians, which Pierre introduces with short interviews mounted inside the video between each song and the next one.

The only new song in the setlist is the powerful Rock 'n' Roll Slave (written by Pierre Edel and Dmitry Ursul), a gritty and vibrant AOR piece in full 80's style that allows Pierre, more than the covers, to show his vocal skills. The singer closes the concert with two very strong Deep Purple tracks such as I Can't Do It Right and Burn (which in an interview he said is one of his favorite songs) that surely leave a lot of energy in the audience and a great memory.

Burn fades with the closing credits of this concert by one of the best rock voices in recent years. And at the end of the vision, this video leaves the certainty that the voice is hot, the shape is dazzling and we just have to wait for the next record of new works by this phenomenal singer.

Pierre Edel - Live in Moscow 2018

Una traduzione in inglese di questo articolo è disponibile qui.

L'etichetta di "ex concorrente di The Voice" inizia ad andare stretta al vocalist francese Pierre Edel la cui attività musicale procede sia dal vivo sia in studio con meritato successo. Il 21 settembre Pierre ha pubblicato su YouTube il video del concerto tenutosi a settembre del 2018 al Mezzo Forte Club di Mosca, dove ha intrattenuto il pubblico con i classici del rock and roll per oltre un'ora.

La band capitanata da Pierre Edel è composta da Dmitry Ursul alla chitarra, Kirill Zelepukhin alle tastiere, Anton Chuiko al basso, Michael Sorokin alla batterie e due coriste straordinarie quali Anna Solo e Lera Green. Il team è coadiuvato dietro le quinte dall'ingegnere del suono Igor Baidikov.


Durante il concerto Pierre Edel esegue una selezione di pezzi storici del rock e dell'hard rock degli anni 70 e 80 spaziando dai Bon Jovi ai Deep Purple passando per gli Styx e David Lee Roth. La band si muove sul palco alla perfezione e in ogni pezzo Pierre dà sfoggio della sua voce inconfondibile, potente e in grado di raggiungere note altissime. Oltre all'ottima voce del leader, spicca anche quella delle due ragazze, che danno subito prova delle loro capacità in Bad Medicine e che le ribadiscono in Hold the Line in cui ciascuna di loro canta una strofa lasciando a Pierre il ritornello.

Il concerto vede una predominanza di brani veloci, con l'unica eccezione di Feels Good to Me dei Black Sabbath, in cui Pierre esce a testa altissima dal confronto con Tony Martin. Nella setlist Pierre aggiunge un solo pezzo blues con The Ballad of John Henry di Joe Bonamassa di cui lascia inalterato il gusto psichedelico e che grazie alle lunghe parti strumentali mette in luce le ottime capacità di tutti i musicisti, che Pierre presenta con brevi interviste montate all'interno del video tra un pezzo e l'altro.

L'unico inedito in scaletta è il potente Rock 'n' Roll Slave (scritta da Pierre Edel e Dmitry Ursul), un grintoso e vibrante pezzo AOR in pieno stile anni 80 che consente più delle cover a Pierre di mettere in mostra le proprie capacità vocali. Il cantante chiude il concerto con due pezzi fortissimi dei Deep Purple quali I Can't Do It Right e Burn (che in un'intervista ci aveva rilevato essere uno dei suoi brani preferiti) che sicuramente lasciano nel pubblico un bel po' di energia e un ottimo ricordo.

Su Burn sfumano i titoli di coda che sanciscono la chiusura di questo concerto di una delle migliori voci del rock degli ultimi anni. E al termine della visione, questo video lascia la certezza che la voce è calda, la forma è smagliante e ora non resta che aspettare il prossimo disco di inediti di questo cantante fenomenale.

lunedì 16 settembre 2019

Black Star Riders - Another State of Grace

Il nome della band potrebbe non suonare familiare a tutti, ma a dispetto di ciò i Black Star Riders non sono una band esordiente dalla storia breve, ma un gruppo nato dalla formazione dei Thin Lizzy del 2012 che da allora ha deciso di utilizzare un nome diverso per le incisioni nuove così da non utilizzare il marchio della band storica.

Nel 2019 i Black Star Riders hanno pubblicato il loro quarto album dal titolo Another State of Grace composto da undici tracce nel puro stile tradizionale dei Thin Lizzy. Così come nei tre album precedenti, anche in questo nuovo disco la musica dei Black Star Riders è composta da un hard rock potente e diretto fatto per divertire e catturare l'ascoltatore dal primo giro nello stereo. L'album presenta ovviamente una predominanza di brani veloci in cui lo stile della storica band di Phil Lynott è perfettamente riconoscibile grazie all'uso delle cosiddette twin guitars che conferiscono ai pezzi un suono particolarmente grintoso.

L'album parte con la travolgente traccia di apertura Tonight the Moonlight Let Me Down, che dà un primo assaggio di ciò che si troverà nel resto del disco e il cui rimando alla storia Dancing in the Moonlight dei Thin Lizzy non è troppo velato, il pezzo è anche impreziosito da un assolo di sax nel finale. Tra i pezzi migliori troviamo anche la funkeggiante Soldier in the Ghetto che ricorda come i Thin Lizzy non abbiano mai rinunciato alle contaminazioni della musica nera. Ovviamente non possono mancare le influenze del folk irlandese che troviamo molto marcatamente nella title track che proprio grazie a queste risulta essere il pezzo migliore dell'album. Su undici tracce ne troviamo solo due dai ritmi più lenti, quali la ballad Why Do You Love Your Guns? e il midtempo What Will It Take?

Another State of Grace è in sintesi un disco che fa esattamente ciò che ci si aspetta debba fare, cioè diverte e intrattiene per tutta la sua durata, con una musica grezza, diretta e senza fronzoli. È ovvio che i Black Star Riders non faranno mai rivere i fasti dei Thin Lizzy perché un leader carismatico come Phil Lynott è impossibile da sostituire, e anche perché mentre la band originale attraversò vari periodi questa nuova formazione tende a mettere insieme tutti i caratteri distintivi dei Thin Lizzy producendo una musica un po' troppo uguale a sé stessa. Ma se si ascolta questo disco con le giuste aspettative non si può non considerare che l'obiettivo è centrato in pieno e che i Black Star Riders sono una delle realtà più interessanti del panorama rock degli ultimi anni.

sabato 17 agosto 2019

Giacomo Voli - Cremona, 16/8/2019

È una notte di mezza estate, una di quelle rese celebri dal famoso sogno di Shakespeare, e questa volta la location per il concerto di Giacomo Voli è decisamente insolita, perché il CRAL di una grande azienda come la Tamoil non è il posto dove ci si aspetta che si possa fermare per una sera un cantante blasonato come il nostro Giacomo. Fa caldo, ma non troppo, e quindi il viaggetto verso Cremona si affronta volentieri.


Il concerto è anticipato da una cena a base di gnocchi tricolori, e come sempre la cena è anche un momento di convivialità, per conoscere gente nuova accomunata dalla passione per la buona musica e per la voce di Giacomo. E dopo aver fatto qualche nuova amicizia, inizia il concerto con Giacomo che imbraccia la chitarra poco dopo le 21:30 e già dal primo pezzo si capisce che la serata non avrà nulla di scontato, perché la scelta dei pezzi è singolare, visto che si parte con What's Up? dei 4 Non Blondes. La voce di Linda Perry è unica, ma Giacomo riesce alla grande a interpretare il pezzo, e io che pensavo che un brano del genere fosse impossibile da rendere in acustico evidentemente mi sbagliavo.

Nella prima parte della scaletta trovano ampio spazio gli Aerosmith, e nemmeno gli acuti di Steven Tyler non sono un problema per Giacomo che regge il confronto alla grande e anche in questo caso la scelta dei pezzi non è banale perché oltre ai superclassici come Dream On e I Don't Want to Miss a Thing troviamo anche Pink che potrebbe non essere tra i pezzi più conosciuti per chi non segue il gruppo. Giacomo si accompagna alternando la chitarra e la tastiera e sopperisce con quest'ultima all'assenza della batteria e il risultato è che il suono è molto più ricco e completo di quanto ci si aspetterebbe da un acustico, così che più che a un acustico sembra di assistere al concerto di una one man band.

Nel prosieguo del concerto Giacomo esegue un buon numero di pezzi dei Queen, con il pubblico che canta i ritornelli insieme al vocalist che attinge dal repertorio degli anni 70 con Bohemian Rhapsody, Killer Queen e Somebody to Love, fino agli anni 80 di Radio Ga Ga e I Want to Break Free. Ovviamente non può mancare un omaggio ai mostri sacri del rock anni 70, come i Led Zeppelin di Whole Lotta Love e i Deep Purple con Soldier of Fortune, Hush e Smoke on the Water.

Giacomo sorprende tutti quando dice che sta per fare qualche pezzo italiano prima di chiudere il concerto. Ma come, è già tempo di salutarci? Non è iniziato da un quarto d'ora al massimo? Guardo l'orologio e, no, sono passate quasi due ore. Ma è stato tutto così divertente che il tempo è volato. Godiamoci allora gli ultimi pezzi, con Ti Sento dei Matia Bazar e Impressioni di Settembre della PFM (entrambe già incise da Voli nei suoi album solisti). E prima di chiudere non possono mancare ancora due brani dei Queen come We Are The Champions e Crazy Little Thing Called Love che Giacomo regala perché il pubblico non vuole lasciarlo andare senza un encore.

Purtroppo il concerto finisce, anche se il tempo sembra essere passato in un attimo. Sceso dal palco, Giacomo si ferma a fare qualche foto con i fans e a scambiare qualche parola con il pubblico che si complimenta per la voce e per l'esecuzione. Durante il viaggio verso casa nell'autoradio scelgo l'ultimo album dei Rhapsody of Fire, perché stasera Giacomo ci ha dato prova di uno dei lati della sua vocalità e l'occasione è buona per ripassare anche quella più metal ed epica. E mentre ripensiamo al concerto che abbiamo appena visto, resta la consapevolezza che alla fine è andato tutto bene, che abbiamo assistito a una grande prova di un polistrumentista e cantante straordinario, e che è proprio così che una notte di mezza estate dovrebbe essere per essere perfetta.

mercoledì 14 agosto 2019

Bruce Springsteen - Western Stars

Sono passati sette anni dall'ultimo album di inediti di Bruce Springsteen, perché né High Hopes del 2014, né Chapter and Verse del 2016 erano di fatto dischi di pezzi nuovi. E dopo questa lunga attesa il Boss torna sulle scene con il suo diciottesimo album per il quale sceglie una formula nuova abbandonando completamente l'heartland rock per muoversi verso un country rock ispirato alle band californiane degli anni 70 come gli Eagles o i Creedence Clearwater Revival.

Il titolo stesso Western Stars indica come Bruce abbia spostato verso ovest i propri spunti e le immagine bucoliche che accompagnano il CD anticipano le sonorità che si troveranno nel disco. Il risultato è un album di tredici tracce lente i cui ritmi non si discostano mai dalle atmosfere rilassate del deserto americano. I ritmi lenti del disco sorprendono non poco, ma stupisce anche la presenza massiccia di strumenti ad arco, che non erano così predominanti nei dischi di Springsteen dai tempi di Waitin' on a Sunny Day di The Rising.

Se questa combinazione risulta comunque buona e funziona bene, il disco ha l'innegabile difetto che i pezzi sembrano tutti un po' troppo simili e le sensazioni suscitate dalla traccia di apertura Hitch Hikin' si troveranno poi anche in tutte le altre. Si distinguono solo Sleepy Joe’s Café? per i ritmi leggermente più vivaci, e la ballad There Goes My Miracle caratterizzata da atmosfere più profonde e solenni. Tra i pezzi migliori troviamo anche Tucson Train e Chasin' Wild Horses che sono i due brani in cui gli archi si sentono con maggiore intensità e la title track di cui è stato realizzato un video in ambientazione western.

Chiudono il disco Hello Sunshine, pubblicata in singolo prima dell'uscita dell'LP, che risente di qualche eco di Everybody's Talking di Harry Nilsson e l'acustico Moonlight Motel realizzata con solo piano, chitarra e voce.

In sintesi Western Stars è sicuramente un disco di altissimo livello e perfettamente godibile, ma per apprezzarlo bisogna ascoltarlo con le giuste aspettative. Se ci si aspetta il rock di Born in the U.S.A., qui non c'è. Questo disco non assomiglia a nulla che Springsteen abbia fatto in passato e potrebbe quindi scontentare i fan storici. Ma se lo si approccia con le giuste attese, non si può non considerare che Western Stars dimostra invece come questo settantenne abbia ancora molte strade da esplorare e che anche quelle nuove gli riescono bene come quelle già percorse.

martedì 30 luglio 2019

Hollywood Vampires - Rise

Sono passati cinque anni dall'esordio discografico dello strano supergruppo formato da Alice Cooper, Joe Perry degli Aerosmith e l'attore Johnny Depp, noto con il nome di Hollywood Vampires, che nel 2014 esordì con un album di cover. Questo 2019 vede il ritorno del terzetto con un album dalle ambizioni maggiori intitolatalo Rise e composto tredici pezzi nuovi (di cui quattro interludi) più tre cover.

Il disco parte subito con forza con il potente hard rock di I Want My Now, che dura più di sette minuti. Ma la prima traccia non deve trarre in inganno, se infatti è normale aspettarsi un disco di rock massiccio da questo terzetto, il resto del disco riserverà comunque delle sorprese muovendosi tra stili diversi e alternando anche i vocalist; infatti nonostante Alice Cooper canti la maggior parte dei pezzi cede spesso il microfono agli altri due.

Nel disco troviamo infatti anche un pezzo rock and roll da sapore rétro come Welcome to Bushwackers (che vede la presenza come ospiti di Jeff Beck e dell'attore John Waters) e momenti di stoner rock come in Git from Round Me cantata dal bassista Tommy Henriksen e da Johnny Depp. Verso la chiusura del disco Alice Cooper torna anche ad atmosfere cupe e doom in Mr Spider. La traccia di apertura non è comunque l'unico pezzo energico del disco, infatti sullo stesso stile troviamo anche The Boogieman Surprise e New Threat.

Come anticipato nel disco sono presenti anche tre cover. La prima di queste è il midtempo You Can't Put Your Arms Around a Memory di Johnny Thunders del New York Dolls, qui cantata da Joe Perry che lascia la melodia inalterata ma sostituisce la voce acuta di Thunders con la propria molto più bassa e profonda. La seconda cover è Heroes di David Bowie cantata da Johnny Depp, che nonostante riesca a interpretarla in modo sicuramente dignitoso, dimostra di non essere un vero cantante visto che la parte vocale è notevolmente semplificata (e per verificarlo basta un breve confronto con la versione dei Wallflowers cantata da Jakob Dylan). La terza e ultima cover e People Who Died della Jim Carroll Band in cui al microfono troviamo di nuovo Depp. È comunque curioso constatare che Alice Cooper non canta nessuna delle tre cover e, a parte Git From Round Me, sono proprio questi gli unici pezzi che non lo vedono alla voce.

In conclusione, Rise fa esattamente ciò che ci si aspetta, regalando oltre un ora di hard rock divertente, non troppo ricercato e fatto per piacere al primo ascolto senza pretese di innovazione o sperimentazione; ovviamente va benissimo così perché è proprio questo che un supergruppo deve fare. E se Alice Cooper e Joe Perry sono musicisti esperti e navigati, un plauso particolare va a Johnny Depp che a oltre cinquant'anni grazie agli Hollywood Vampires dimostra di essere un chitarrista in grado di reggere concerti e di registrare un album di livello professionale insieme a gente che vanta oltre quattro decenni di esperienza.