sabato 2 luglio 2022

Def Leppard - Diamond Star Halos


A distanza di quasi sette anni dal loro precedente lavoro, tornano i Def Leppard con un nuovo album intitolato Diamond Star Halos che rappresenta il dodicesimo lavoro in studio della band capitanata da Joe Elliott. Il nuovo album vede il gruppo in splendida forma confezionare un'opera potente e raffinata che coniuga nel migliore dei modi i proprio i stilemi classici proponendo una commistione di rock melodico ricco di cori e atmosfere patinate. La formazione che ha realizzato il disco è la stessa che forma stabilmente la band dal 1993, con Phil Collen e Vivian Campbell alle chitarre, Rick Savage al basso e l'eroico Rick Allen alla batteria.

L'album è composto da quindici tracce che partono fortissimo con Take What You Want e Kick, due pezzi energici in cui i cori che accompagnano Joe nelle linee vocali hanno un ruolo trascinante e danno subito un assaggio di ciò che seguirà nel resto del disco. Subito dopo troviamo infatti Fire It Up (curiosamente è la seconda volta dopo Dangerous del 2015 in cui i Def Leppard utilizzando un titolo usato in passato anche dal rapper Busta Rhymes, ovviamente si tratta di un caso non avendo nulla in comune) che si apre con i cori prima che sopraggiunga l'incalzante cantato di Joe Elliot. Tra i pezzi energici migliori troviamo anche la trascinante All We Need, che è forse il brano in cui le atmosfere ottantiane sono più marcate

Nonostante le tracce veloci siano la parte preponderante del disco, non mancano atmosfere diverse come nelle ballad From Here to Eternity, Open Your Eyes, Angels e nella magniloquente Goodbye for Good This Time che coniuga sapientemente atmosfere sinfoniche ricche di archi con la presenza di chitarre latineggianti. Le commistioni musicali non finiscono qui visto che nell'album troviamo anche l'onirico midtempo Liquid Dust e l'atipico groove di U Rok Mi.

Nel disco è presente come ospite Alison Krauss (in Italia conosciuta purtroppo solo per le collaborazioni con Robert Plant, nonostante abbia alle spalle una lunghissima discografia) che regala un prezioso contributo in due brani: la ballad dalle atmosfere blued This Guitar e Lifeless contaminata da suggestioni southern, la seconda è presente nella versione deluxe del disco come bonus track in una versione aggiuntiva cantata dal solo Joe.

In conclusione Diamond Star Halos è un disco solido che non vede momenti di noia ed è incredibile constatare come a quarantadue anni dall'esordio questa band sappia sfornare album di questo livello, mischiando sempre il proprio sound con elementi nuovi e non proponendo formule usurate. Diamond Star Halos non è solo un ottimo disco, ma uno dei migliori della lunga discografia della band che, partendo dalle sonorità più metal nei primi anni 80 ed approdando a quelle AOR sul finire del decennio, non sbaglia un colpo dal lontano On Through the Night.

sabato 11 giugno 2022

Visions of Atlantis - Pirates



A quasi tre anni da Wanderers tornano i Visions of Atlantis con un nuovo album intitolato Pirates realizzato con la stessa formazione del precedente. Il disco è composto da dodici tracce di ottimo metal sinfonico che sorprendono per la loro qualità già dal primo ascolto, perché giunta al suo ottavo lavoro in studio la band guidata da Clémentine Delauney e Michele Guaitoli affina la propria formula regalando un disco che rasenta la perfezione grazie a una vincente mescolanza delle loro caratteristiche principali: sonorità energiche, melodie accattivanti, le straordinarie doti vocali dei cantanti e i cori che li accompagnano. In particolare in questo nuovo album la soprano francese, se possibile, sale di un altro gradino grazie alla sua miglior performance in carriera con cui si mostra al massimo della forma e si impone definitivamente come una delle più iconiche regine della scena metal mondiale.

Il disco, come si evince dal titolo, si ispira ad atmosfere piratesche e questo non sorprende più di tanto visto che il mare è un tema ricorrente nei dischi dei Visions of Atlantis fin dagli esordi, basti pensare che il nome stesso della band si ispira al mito di Atlantide, che il disco precedente parlava di naufraghi e che nelle tracce più famose del gruppo troviamo Lemuria e Return to Lemuria, dedicate alla mitica omonima isola.

L'album parte fortissimo con due brani energici, quali Pirates Will Return e Melancholy Angel, che includono tutti gli stilemi che caratterizzano il disco, con basi potenti e con Clémentine che ci regala rapidi e frequenti cambi di registro passando con disinvoltura al canto lirico. L'intesa vocale tra i due cantanti è perfetta, con Clem e Michele che si alternano e duettano come una sorta di dream team del canto metal. Subito dopo troviamo Master the Hurricane che regala uno stupendo connubio tra atmosfere nordiche, grazie alla presenza di flauti e cornamuse, cori epici e sonorità symphonic metal; suggestioni scandinave simili si trovano anche nell'onirica In My World. Tra i brani migliori troviamo sicuramente anche Legion of The Seas caratterizzata da atmosfere magniloquenti e Darkness Inside che è il pezzo che più si avvicina alle sonorità ottantiane grazie al suono preponderante delle tastiere. Pirates vede anche la presenza di tre ballad, quali Freedom, in cui il coro si esprime in un meraviglioso vocalizzo, Heal The Scars, cantata dalla sola Clémentine, e I Will Be Gone, che ripropone le sonorità nordiche vicine ai Nightwish e che chiude il disco.

In Pirates, in sintesi, funziona bene praticamente tutto, perché è un capolavoro di scrittura, composizione e interpretazione, che mette in luce gli aspetti più solidi di questa band. Che i Visions of Atlantis avessero raggiunto l'apice con l'aggiunta di Michele e Clémentine era noto già dall'album precedente, ma questo disco conferma che la formula funziona alla grande e che possiamo aspettarci altri dischi di questi altissimo livello anche per il futuro. Non resta che da godersi questo disco, in attesa che il tour li porti in Italia e di poter sentire queste gemme di metal anche dal vivo.

sabato 28 maggio 2022

Horus Black - Spinning Rainbow



A quattro anni di distanza dal precedente LP Simply torna il giovanissimo Horus Black, al secolo Riccardo Sechi, con un nuovo EP intitolato Spinning Rainbow composto da cinque pezzi. Se nel primo album Horus Black aveva contaminato la sua passione per Elvis Presley con altre correnti musicali degli anni 60 e 70, in questo nuovo album prosegue l'esperimento combinando la propria vocalità ispirata a the King of Rock and Roll nello stile di fine anni 60 con il rock psichedelico dello stesso periodo.

Spinning Rainbow, la cui copertina trae spunto da quella di Rising dei Rainbow di Ronnie James Dio e Ritchie Blackmore, sembra nato da un inedito incontro tra Elvis e Jim Morrison. La commistione tra i due modelli si nota soprattutto nella title track che apre il disco e in The Monster in cui sembra di ascoltare una outtake di Strange Days dei Doors. Nel disco troviamo anche Kill You with Kisses, ispirata alle ballad di Elvis dei primi album, e il fresco rock and roll di Beatrice. Chiude l'EP il pezzo più interessante e magniloquente intitolato Mirror on The Wall, di cui è stato anche girato un video, in cui troviamo le atmosfere roboanti di An American Trilogy contaminate dal folk prog dei Jethro Tull, grazie al flauto suonato da Francesco Loi. Nella band di Horus Black, inoltre, suonano il chitarrista Samuele Perduca e il batterista Nicolas Megna degli Anxia Lytics recentemente distintisi al programma The Band di Rai 1.

Con Spinning Rainbow Horus Black si conferma una delle voci più interessanti del panorama italiano degli ultimi anni grazie alla sua voce singolare che gli consente sperimentazioni inedite con gli stilemi del passato. Horus Black combina componenti diverse appartenenti a mondi altrettanto diversi, creando suggestioni nuove con elementi dell'epoca d'oro del rock and roll che sicuramente convinceranno gli appassionati di classic rock di qualunque epoca.

martedì 10 maggio 2022

Perché lo standard jazz Moonlight Serenade si intitola così?



Moonlight Serenade è uno dei brani più iconici della discografia di Glenn Miller ed è anche uno degli standard jazz più noti di ogni epoca, grazie anche al titolo onirico e suggestivo che dona fascino al brano prima ancora del suo ascolto. Tuttavia la scelta del titolo fu lunga e travagliata e passò attraverso fasi successive.

Il brano nacque nella sua prima forma nel 1935 con musica di Glenn Miller e testo di Eddie Heyman, celebre paroliere che aveva composto anni prima anche Body and Soul e che negli anni successivi avrebbe scritto altri celeberrimi standard come When I Fall in Love e For Sentimental Reasons, intitolata Now I Lay Me Down to Weep. In seguito George Simon, compositore e biografo di Miller, propose a quest'ultimo un nuovo testo intitolato Gone with the Dawn; ma il celebre jazzista non fu soddisfatto né della proposta di Heyman, né di quella di Simon.

Miller quindi non incise il pezzo fino a quando nel 39 gli fu quindi proposto un terzo testo, questa volta scritto da Mitchell Parish, che nel 1928 aveva scritto anche le parole di Stardust, intitolato The Wind in the Trees. A Miller piacque, ma prima che potesse inciderla la casa discografica, la Robbins Music, ne acquistò i diritti e decise di stamparla su 78 giri come lato B della cover di un brano di Frankie Carle intitolato Sunrise Serenade.

La Robbins Music pensò che un buon completamento per Sunrise Serenade avrebbe potuto essere intitolato Moonlight Serenade e chiese a Mitchell di scriverne un altro testo con il titolo nuovo. Il disco fu pubblicato il 4 aprile del 1939 e riscosse subito grande successo; la versione incisa sul primo 78 giri è ovviamente quella strumentale, ma il testo di Mitchell Parish è stato negli anni interpretati da molti dei più noti vocalist della storia del jazz, come Ella Fitzgerald e Frank Sinatra.

La storia di Moonlight Serenade è tanto più incredibile se si considera che è nata come un B-side, ma la sua fama oggi supera largamente quella di Sunrise Serenade al punto che la prima è uno dei brani più noti di Glenn Miller, mentre la seconda è spesso ignorata anche nelle compilation più recenti. Inoltre negli anni Miller utilizzò titoli simili in altri brani, quali Moonlight Cocktail e Serenade in Blue entrambe del 1944, a riprova del fatto che Moonlight Serenade fu uno dei brani che gli regalarono più successo.

Nonostante sia stato quindi scelto per rendere omaggio a un brano che si attendeva fosse più importante, la scelta di un titolo così evocativo contribuì sicuramente a creare il successo di un pezzo leggendario nato dalla perfetta commistione di musica, testo e titolo.



Fonti:

mercoledì 20 aprile 2022

Dave Brubeck Quartet - Time Out



Uscito nel 1959, Time Out del Dave Brubeck Quartet è uno degli esempi più celebri di cool jazz della West Coast degli 50. L'album nacque come un esperimento in cui il quartetto si proponeva di combinare il cool jazz dell'epoca con le sonorità folk eurasiatiche che Brubeck aveva scoperto durante un tour sponsorizzato dal Dipartimento di Stato degli USA; infatti nell'album troviamo sonorità balcaniche, turche, greche ed austriache combinate alle atmosfere rilassate del jazz californiano.

L'album è composto da sette tracce e si apre con Blue Rondo à la Turk, il cui titolo rimanda al Rondo alla Turca di Mozart e il cui ritmo si rifà invece alla musica tradizionale turca ascoltata durante la tournée. Il viaggio musicale dell'album prosegue poi con il valzer di Kathy's Waltz, dedicato alla figlia di Brubeck Cathy, il cui nome è stato per errore scritto con la K nel titolo del pezzo. I sette pezzi vedono una preponderanza di tempi dispari e sono spesso condotti dal sax, suonato dallo stesso Dave Brubeck, o dal piano di Paul Desmond. Il brano più celebre del disco è senza dubbio Take Five, utilizzato negli anni anche in vari spot televisivi e film, scritto proprio da Paul Desmond che, come suggerisce il titolo stesso, è caratterizzato da un tempo in 5/4. Nonostante ciò il pezzo risulta orecchiabile e d'atmosfera già al primo ascolto e proprio per questo è tra i classici più noti del jazz di ogni tempo.

L'album è stato ristampato nel 2009 con l'aggiunta di un secondo disco contente outtakes realizzate nelle stesse sessioni di registrazione, versioni alternative e le cover di standard quali Pennies from Heaven, You Go to My Head e Saint Louis Blues.

Time Out è in sintesi una delle pietre miliari del jazz di ogni stile, che ha il pregio innegabile di offrire del jazz di facile ascolto nonostante la complessità data dai tempi dispari e dalle contaminazioni stilistiche. Non solo si tratta di capolavoro di musica, ma anche di un ottimo punto di partenza per chi si affaccia al jazz per la prima volta.

lunedì 4 aprile 2022

La discografia solista di Melle Mel tra il 1982 e il 1985

Subito dopo la pubblicazione di The Message nel 1982 il gruppo di Grandmaster Flash & The Furious Five andò incontro a separazioni interne praticamente subito. Melle Mel, il principale vocalist dei Furious Five, uscì dal gruppo e iniziò la propria avventura solista pochi mesi dopo l'uscita di The Message con il primo singolo Message II (Survival), registrando quindi da solo il follow up del più grande successo del gruppo, insieme al turnista Duke Bootee. L'anno dopo seguì la celeberrima White Lines (Don't Don't Do It) realizzata dal solo Melle Mel nonostante il fatto che venne pubblicata con i nomi di Grandmaster & Melle Mel o Grandmaster Flash & Melle Mel anche se il DJ delle Barbados ovviamente non prese parte al progetto.

Melle Mel realizzò il primo album senza Grandmaster Flash nel 1984 e per l'occasione assemblò un nuovo sestetto di cui facevano parte Cowboy e Scorpio (anche nel ruolo di polistrumentista), provenienti dai Furious Five, a cui si aggiunsero King Lou, Kami Kaze e Tommy Gunn. Alle sessioni di registrazione parteciparono anche il turnista Clayton Savage e il DJ E.Z. Mike con il nome di Grandmaster E. Z. Mike. L'album si intitola Grandmaster Melle Mel and the Furious Five, anche se in alcuni mercati al di fuori degli USA è stato venduto come Work Party, con il titolo scritto sulla stessa copertina sopra alla foto del gruppo. Il disco è composto da nove tracce, di cui cinque propongono un hip hop da strada molto simile a quello di The Message. Tra i brani più tradizionali spicca un remix di White Lines, per il resto il disco spazia in altri generi di black music, passando dal funk di Hustlers Convention alle sonorità soul di Can't Keep Running' Away, At the Party e Yesterday, ballad che non avrebbe sfigurato in un disco della Motown.

Dopo l'uscita dell'album Melle Mel pubblicò tra il 1984 e il 1985 un corposo numero di singoli, accreditati con vari nomi diversi:
  • 1984:
    • Continuous White Lines (Remix) come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five
    • Jesse come Grandmaster Melle Mel
    • Beat Street Breakdown (altresì noto come Beat Street e pubblicato in questo caso con la B-side Internationally Known) come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five, dalla colonna sonora di Beat Street di Stan Lathan
    • Step Off  come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five
    • We Don't Work for Free (tratto dall'album Grandmaster Melle Mel and the Furious Five) come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five)
    • World War III / The Truth come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five o come Grandmaster Melle Mel
  • 1985:
    • King Of the Streets come Grandmaster Melle Mel
    • Pump Me Up come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five
    • Vice / World War III come Grandmaster Melle Mel
    • The Mega-Melle Mix (mix di Step Off, The Message, Beat Street, New York New York, World War III e It's Nasty) come Melle Mel
Nel 1985 uscì anche la raccolta Stepping Off a nome Grandmaster Melle Mel & The Furious Five che non contiene brani inediti ma una raccolta di tracce tratte dalla carriera solista di Melle Mell e di Grandmaster Flash and the Furious Five, aumentando così la confusione tra le discografie delle varie formazioni.

Dal 1985 e il 1987 Melle Mel non realizzò altre incisioni, fino alla reunion di Grandmaster Flash & The Furious Five con l'album On the Strength, ma la reunion durò poco e Melle Mel tornò con poco successo alla carriera solista. Nel 1988 partecipò al progetto Sun City contro l'apartheid promosso da Steven Van Zandt, nel 1989 pubblicò un nuovo album intitolato Piano come Grandmaster Melle Mel and the Furious Five e da allora le sue incisioni si fecero sempre più sporadiche e vennero pressoché ignorate dal pubblico.

Purtroppo in Italia Melle Mel è noto solo per The Message, White Lines e poco altro; tuttavia la sua discografia è molto più ricca e andrebbe riscoperta a partire proprio dal periodo compreso tra i due album del gruppo principale che è anche quello del suo maggiore splendore che di certo non si esaurisce ai singoli più noti.

lunedì 14 marzo 2022

La discografia degli Alice in Chains successiva alla reunion del 2008


Negli anni 90 gli Alice in Chains sono stati tra i gruppi più influenti della scena grunge, insieme ad altri quali i Pearl Jam (che sono gli unici che sfornano dischi nuovi con continuità ancora adesso) e i ben più iconici Nirvana. Dopo tre album e due EP pubblicati tra il 90 e il 95, la carriera degli Alice in Chains si interruppe e sembrò andare incontro a una fine definitiva dopo la morte del cantante e chitarrista Layne Staley per overdose di speedball il 5 aprile del 2002, esattamente nell'ottavo anniversario della morte di Kurt Cobain.

Anni dopo i membri rimanenti, Jerry Cantrell, Mike Inez e Sean Kinney riunirono la band con l'aggiunta di William DuVall, cantante e chitarrista dei Comes With the Fall, in sostituzione di Staley e con la nuova formazione tornarono anche in studio per la registrazione di nuovi album. Il primo di essi si intitola Black Gives Way to Blue ed è stato pubblicato nel 2009. L'album non si distacca minimamente dal modello originale della musica degli Alice in Chains e regala un capolavoro di grunge grezzo e diretto che sembra preso di peso dagli anni 90.

Il disco è composto da undici tracce, più una bonus track nella versione digitale venduta da iTunes, in cui DuVall sostituisce Staley principalmente alla chitarra, mentre le voci principali sono eseguite da Jerry Cantrell. La maggior parte dei pezzi sono graffianti ed energici, ma non mancano momenti più melodici come le ballad When The Sun Rose Again, Acid Bubble e Private Hell. DuVall esegue la voce principale solo in Last of My Kind. Chiude il disco la struggente ballad che dà il titolo all'LP dedicata al vocalist scomparso e che vede Elton John come ospite al pianoforte.

Il secondo album con la rinnovata formazione uscì nel 2013 con il titolo di The Devil Put Dinosaurs Here. L'atipica copertina mostra due teste di triceratopo incrociate, di cui una verde e una rossa; ma essendo il case del CD rosso, quando il libretto viene infilato nel case la testa rossa scompare e si vede solo quella verde. Nel disco la musica degli Alice in Chains inizia ad allontanarsi dal grunge per approdare a una commistione di alternative metal e di doom metal, con atmosfere molto più cupe che nei dischi precedenti.

Il sound è generalmente più oscuro, come in tracce come Pretty Done o Phantom Limb, in cui i due vocalist si alternano alla voce, a la ruggente Hollow dalle forti venature stoner rock che apre il disco. Anche in questo caso non mancano pezzi più leggeri come Voices o più intimistici come Breath On A Window. Dopo The Devil Put Dinosaurs Here la band rimase ferma tre anni fino a quando pubblicò la cover di Tears dei Rush per la riedizione del loro album 2112 che conteneva un disco extra con i pezzi dell'album originale interpretati da altri.

La band tornò in studio per un nuovo album nel 2018 quando pubblicò Rainier Fog che resta ad oggi la loro produzione più recente. Il disco, composto da dieci tracce, è un concept album che funge da colonna sonora del film di fantascienza Black Antenna uscito lo stesso album. Il film, diretto da Adam Mason, narra di due extraterrestri, padre e figlia interpretati da Paul Sloan e Viktoriya Dov, che arrivano in California e che devono, con mezzi poco leciti, costruire un'antenna per stabilire una comunicazione con il loro pianeta di provenienza; al contempo dovranno combattere contro degli avversari che vogliono ucciderli. Dal film è stata estratta anche una web series con gli episodi che fanno da videoclip delle canzoni del disco.

Dal punto di vista musicale l'album prosegue sulla atmosfere cupe da doom metal del disco precedente. Il disco vede una prevalenza di brani aggressivi, tra cui spiccano i quattro singoli The One You Know, So Far Under, Never Fade e la title track. Nel disco sono presenti solo due pezzi più leggeri, quali la ballad Fly e All I Am che chiude l'album e che chiude anche Black Antenna.

Dal 2018 la band non pubblica materiale nuovo, solo un album solista di Jerry Cantrell intitolato Brighten uscito nel 2021 ha interrotto il digiuno. I tre album usciti dopo la reunion dimostrano che gli Alice in Chains sono uno dei pochi gruppi che non risentono degli anni che passano, riuscendo a modernizzare la propria proposta musicale e a sopravvivere al decesso del proprio cantante. Al momento il gruppo di Seattle ha all'attivo sei album di altissimo livello nessuno dei quali sfigura nella discografia di questa straordinaria band; non resta quindi che aspettare che tornino in studio a registrare musica nuova nella speranza che Rainier Fog non sia il loro disco di commiato.