martedì 14 marzo 2023

Ly-O-Lay Ale Loya: il presunto canto new age dei nativi americani rubato alla popolazione sami


Gli anni 90 furono l'epoca d'oro della musica new age, grazie a gruppi prodotti principalmente in Europa come i Deep Forest, con la loro Sweet Lullaby del 1992, o gli Enigma che nei primi anni del decennio assestarono due importanti successi con Sadness e Return to Innocence. L'importanza della new age in quel periodo fu tale che molti altri generi musicali ne vennero contaminati, ad esempio la cantante irlandese Enya creò un'inedita mescolanza tra musica celtica e new age e verso la fine del decennio nacque anche un crossover tra new age e canto gregoriano con i tedeschi Gregorian, che reinterpretavano nel loro inedito stile alcuni dei pezzi rock e pop più famosi degli ultimi decenni. Anche Mike Oldfield, precursore di questo genere già da due decenni prima, in quel periodo si avvicinò a sonorità simili a quelle degli Enigma con l'album The Songs of Distant Earth.

All'interno del movimento new age di quel periodo nacque anche un progetto tedesco, prodotto nei Paesi Bassi, chiamato Sacred Spirit il cui primo album Chants and Dances of the Native Americans del 1994 voleva essere una raccolta di reinterpretazioni di canti dei nativi americani. Il disco, edito dalla Virgin Records, fu pubblicato in Italia con il titolo Indiani e conteneva il brano The Counterclockwise Circle Dance (Ly-O-Lay Ale Loya) che divenne celebre qualche anno dopo quando venne usata in uno spot della bevanda energetica Gatorade che narrava l'apologo africano del leone e della gazzella (evidentemente gli autori non si chiesero cosa c'entrassero i nativi americani con l'Africa).

Il pezzo ebbe notevole successo e per anni venne considerato il più iconico canto dei nativi americani, venne inserito nella compilation del 2004 Indiani Platinum Collection, edita anch'essa dalla Virgin, e in altre raccolte che lo indicavano come un canto dei Navajo. Tuttavia tredici anni dopo si scoprì che il vocalizzo era un vero e proprio furto e che non apparteneva alla tradizione dei nativi americani. Nel 2007 emerse infatti che la registrazione della linea vocale veniva da una trasmissione televisiva olandese in cui un ospite eseguì uno joik (cioè un canto tradizionale) dei sami (popolazione del nord della Scandinavia, spesso definiti in italiano lapponi) intitolato Normo Jovnna. Nonostante Channel 4, il canale televisivo olandese presso cui avvenne l'esibizione, neghi di aver venduto alla Virgin la registrazione, questa finì in qualche modo alla casa discografica che la usò per il disco. Non è ad oggi possibile verificare l'esistenza della registrazione che sarebbe stata rubata, ma che Ly-O-Lay Ale Loya non sia un canto dei nativi americani ma del popolo sami è facilmente riscontrabile perché su YouTube esistono varie versioni di Normo Jovnna e il vocalizzo è proprio lo stesso di quello di Ly-O-Lay Ale Loya.

Curiosamente quello dei Sacred Spirit non è l'unico caso di new age etnico la cui parte cantata è stata usata illecitamente, la già citata Sweet Lullaby dei Deep Forest contiene infatti una registrazione di un canto delle Isole Salomone usato senza autorizzazione.

Una volta scoperto il furto, l'organizzazione Sámikopiija, che si occupa della difesa dei diritti d'autore dei sami, ha chiesto alla Virgin il riconoscimento delle royalties per Ly-O-Lay Ale Loya; per ora non ha avuto successo e difficilmente, visto il tempo trascorso, ne avrà mai.

venerdì 3 marzo 2023

Una sera a Camden Town, sulle tracce di Amy Winehouse

Ero stato una volta sola a Camden Town, una fredda mattina dei primi di gennaio di ormai sei anni fa. Da allora, nonostante molti altri viaggi a Londra, non ci ero ancora tornato e, trovandomi di nuovo nella capitale del Regno Unito per tutt'altri motivi, questa volta ho deciso di tornarci. Anche perché ricordavo bene il mercato, i musicisti che vendono i propri CD lungo il marciapiede (e al tempo ne avevo anche comprato uno del rapper Terra Slim), e le folli insegne tridimensionali dei negozi, ma non ero riuscito ad andare a Camden Square, dove Amy Winehouse aveva passato l'ultimo anno della sua vita e dove è morta nel luglio del 2011.

L'atmosfera di Camden Town è sempre singolare, indescrivibile per chi non si è mai trovato in questo turbinio di suggestioni in cui la musica fa da sfondo ad ogni cosa. Esco dalla stazione della metropolitana e sento una band che suona dal vivo Jumpin' Jack Flash in un pub, cammino verso la zona del mercato e vengo sopraffatto dall'atmosfera punk e dark che diede i natali a questi generi musicali nel fermento della swinging London. Qui i segni del passaggio di Amy si vedono praticamente ovunque, non solo nei luoghi più celebri come la statua a grandezza naturale, infatti scopro anche un graffito dipinto su una serranda abbassata (che mi fa ricredere sui miei dubbi sull'opportunità di venire qui quando i negozi e il mercato sono chiusi) e un negozio di arte al numero 279 di Camden High Street (a cui purtroppo ho dimenticato di fare una foto) che espone in vetrina dei suoi ritratti.

Graffito al 269a di Camden High Street

È difficile stabilire da quanto tempo sia lì il ritratto di Amy sulla serranda dello studio di tatuaggi Boys Don't Cry, che ovviamente omaggia l'omonima canzone dei Cure nel nome, al numero 269a di Camden High Street, ma Google Street View ci viene in aiuto e ci mostra che a gennaio del 2021 il graffito non c'era, l'opera è quindi recentissima e infatti è ancora perfetta.

La prima tappa che mi ero prefissato per questo giro e è la statua di bronzo, e quando ci arrivo devo aspettare un attimo prima di scattare una foto, perché davanti a me c'è una fila di persone che vogliono fare lo stesso. La statua è bellissima come me la ricordo e fa riflettere una volta in più sul perché una ragazza al pieno del successo si sia distrutta con le sue mani. Ciò che colpisce di questa ricostruzione a grandezza naturale è quanto Amy fosse minuta e come una voce come quella potesse uscire da un corpo così ridotto; perché la statua è alta un metro e 75 centimetri, ma solo includendo la base e la folta chioma ispirata a quelle delle Ronettes a cui Amy si rifaceva nello stile. In ogni caso, è talmente realistica da sembrare vera grazie alla posa spontanea in cui la cantante è stata riprodotta e prima di fare una foto viene voglia di chiederle il permesso.


La seconda tappa è la sua casa di Camden Square, che dalla statua dista circa un chilometro e mezzo di vie interne che si dipanano in una zona residenziale. Le case di Camden Square, che sono distribuite sulle due strade che costeggiano il parco, sulle prime sembrano tutte uguali, ma quella al numero 30, dove visse Amy, è diversa per almeno due motivi. Anzitutto è l'unica con porta e finestre oscurate in modo che da fuori non si veda completamente nulla degli interni. In secondo luogo per via del memoriale nato spontaneamente su un albero di fronte all'ingresso grazie a biglietti, foto, fiori e qualunque altra cosa i fan abbiano lasciato in ricordo della cantante.

La casa al numero 30 di Camden Square dove visse e morì Amy Winehouse

Il memoriale davanti alla casa

È tempo di tornare verso la stazione della metro, ma mi accorgo che se metto Amy Winehouse su Google Maps il completamento automatico mi segnala anche un murale che dovrebbe essere vicino all'insegna di Camden Lock e che è stato realizzato dall'artista grafico JXC in occasione del decimo anniversario della morte della cantante. Decido di andarci, ma arrivato sul posto non lo trovo. Chiedo a due passanti mostrando la foto sul cellulare, ma nessuno mi sa aiutare. Lo trovo, dopo minuti di ricerca, in una strada stretta che porta a uno dei cortili del quartiere. Nonostante non si veda dalla strada principale, il murale è immenso, con il buio e lo vedo a fatica ma comunque trasmette quanto questo quartiere sia tuttora legato a lei.

Il murale di JXC

Adesso il giro è finito davvero e torno veramente verso la stazione in cerca di un pub per mangiare, e mentre mi allontano rifletto su quanto Amy Winehouse abbia influenzato Camden Town e su quanto la sua vita sia legata a doppio filo a questo quartiere dove la si vede ovunque e la si sente ovunque. Perché anche se Amy ci ha lasciato il 23 luglio del 2011 tra queste strade è ancora viva.

giovedì 16 febbraio 2023

Musica e cinema: The Warriors (I Guerrieri della Notte, 1979)


The Warriors di Walter Hill del 1979 è uno dei film più iconici di ogni tempo e più rappresentativo del periodo compreso tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80, al punto che la sua iconografia ha influenzato la cultura pop dei decenni a seguire per tutto quanto riguardi il mondo delle gang, dal video di Bad di Michael Jackson fino a videogiochi come Final Fight o Double Dragon. Il film, che in italiano si intitola I Guerrieri della Notte, è tratto dal romanzo omonimo di Sol Yurick del 1965 che a sua volta è ispirato all'Anabasi di Senofonte.

Il film, così come il romanzo a cui è ispirato, racconta di una gang chiamata Warriors (i Guerrieri, nella traduzione italiana) che deve partecipare a un raduno di tutte le bande di New York nel Bronx il cui scopo è sancire un'alleanza tra i gruppi che controllano varie zone della città al fine di prendere insieme il controllo della città stessa. L'incontro viene tuttavia sabotato dall'uccisione di Cyrus, leader dei Riffs e organizzatore del tentativo di alleanza, e dell'omicidio vengono ingiustamente accusati i Warriors che nella notte dovranno sfuggire agli attacchi delle altre bande che li ritengono responsabili dell'accaduto per tornare a Coney Island, a Brooklyn.

Negli scontri perde la vita anche Cleon, il capo dei Warriors, e il comando del gruppo viene preso da Swan, interpretato da Michael Beck che negli anni seguenti avrebbe recitato in film di un certo rilievo quali Xanadu, con Olivia Newton-John, Megaforce di Hal Needham e Chiller di Wes Craven. I Warriors devono quindi sotto la guida del nuovo leader attraversare una terra piena di minacce e attanagliata dalle gang rivali per tornare alla propria base, trovandosi quindi in una situazione che ricalca quella dei diecimila mercenari ellenici narrati da Senofonte che dovettero abbandonare l'impero persiano dopo la morte di Ciro (da cui, non a caso, prende il nome Cyrus). Curiosamente anche nel film Southern Comfort (in italiano I guerrieri della Palude Silenziosa) del 1981 Walter Hill riprese il concetto dell'Anabasi trasferendolo questa volta nelle paludi della Louisiana in uno scontro tra soldati e bracconieri.

The Warriors è anche una parabola, risalente a ben prima che ci fosse consapevolezza del problema, di quanto le fake news possano creare danni; i Guerrieri infatti non hanno davvero ucciso Cyrus, ma il fatto che ne vengano accusati scatena attacchi contro di loro e fa saltare l'accordo di pace.

Ciò che spicca di questo film non è solo l'opera cinematografica in sé ma anche la colonna sonora, uscita contestualmente al film, che costituisce un compendio degli stili musicali dell'epoca in cui si trova rock, funk, disco, R&B e salsa. L'album è composto da dieci pezzi, di cui tre strumentali e sette canzoni. Tra i tre pezzi strumentali troviamo ovviamente il celeberrimo tema introduttivo di Barry De Vorzon Theme from ‘The Warriors’, presente anche nella versione alternativa che fa da sottofondo allo scontro tra i Warriors e i Furies, la più pericolosa delle bande incontrate dai protagonisti in quanto armati di mazze da baseball e con una pittura facciale che li rende particolarmente minacciosi.

I sette brani cantanti hanno ruoli ben specifici all'interno del film e fanno da commento sonoro ad altrettante scene. Vi si trova ad esempio la cover di Nowhere to Run di Martha and the Vandellas della Motown qui interpretata da Arnold McCuller che nel film viene trasmessa dalla radio delle gang, della cui speaker si vedono solo le labbra che parlano al microfono, quando i Warriors iniziano la propria fuga. Alcune canzoni si possono ascoltare nel film dal jukebox della casa dove si nascondono le Lizzies, l'unica band femminile della città, come i vibranti funk di You're Movin' Too Slow interpretata da Johnny Vastano e Love is a Fire di Genya Ravan.

Nel disco troviamo anche un brano di salsa con In Havana di Kenny Vance & Ismael Miranda che nel film si sente in sottofondo quando i Rogues (un'altra delle bande rivali) assaltano un negozio di dolciumi. In un accenno di AOR troviamo anche Last of an Ancient Breed di Desmond Child, mentre il brano più famoso del disco è sicuramente In The City di Joe Walsh che si sente sui titoli di coda, quando i Guerrieri sono ormai giunti a Coney Island e il sole si alza sul mare, che gli Eagles inserirono anche nel loro album The Long Run dello stesso anno.

Quella pubblicata nel 1979 non è l'unica versione della colonna sonora che sia stata pubblicata; nel 2013 infatti ne è stata pubblicata una versione Extended che contiene undici tracce strumentali aggiuntive di Barry De Vorzon tra cui si trovano anche versioni alternative e outtakes.

The Warriors è in sintesi uno dei migliori esempi di come il cinema di allora sapesse mischiare immagini e musica e di come la colonna sonora completasse l'opera cinematografica incastonandosi al suo interno. Non a caso, come era d'uso al tempo, tutte le tracce del disco compaiono nel film e ne sono parte integrante. Quella di The Warriors è una delle migliori colonne sonore di ogni epoca ed è anche, purtroppo, un ottimo esempio di come l'industria cinematografica abbia perso la capacità di realizzare film in cui le musiche siano così curate e importanti.

lunedì 30 gennaio 2023

Rap criminale - Tupac, Biggie e gli altri martiri del gangsta rap di F.T. Sandman



A maggio del 2022 lo scrittore Federico Traversa, sotto lo pseudonimo di F.T. Sandman, ha pubblicato il volume intitolato Rap criminale - Tupac, Biggie e gli altri martiri del gangsta rap in cui narra le vicende delle morti illustri nel mondo dell'hip hop. Il libro è dedicato per la maggior parte ai casi più celebri di Tupac e Notorious B.I.G, che analizza in modo dettagliato, per poi dedicare l'ultima parte del testo ad altri casi che non hanno raggiunto lo stesso livello di notorietà.

Il libro di Sandman offre un'ottima visione d'insieme su un tema così controverso, dedicando ampie parti non solo alle morti dei protagonisti ma anche alle loro vite; oltre a essere una narrazione delle morti di Tupac e Biggie ne è infatti anche una biografia che dà al lettore il contesto completo dei fatti drammatici che hanno portato i due protagonisti a una morte violenta. Sandman dedica anche un ampio capitolo alle indagini sulle morti dei due, vagliando con rigore quali sono le conclusioni più realistiche e quelle più fantasiose, spiegando in modo chiaro ed esaustivo come tutte le indagini sono giunte alla stessa conclusione sull'omicidio di Tupac ed evidenziando le differenze, e anche le notevoli similitudini, tra le varie versioni sulla morte di Notorious.

L'ultimo capitolo è dedicato ad altri casi illustri di omicidi nel mondo del rap spiegando quanto sia folle il livello di violenza in questo genere musicale. L'autore parte dal DJ dei Boogie Down Productions Scott La Rock nel 1987 ed arriva fino a XXXTentacion (a cui non a caso è dedicato il trentesimo capitolo, cioè il numero XXX) del 2018, passando ovviamente per il celeberrimo caso di Jam Master Jay, probabilmente l'unico non ascrivibile al genere gangsta.

Nella sue ricostruzione dei fatti, che spaziano tra le storie di sette rapper deceduti in circostanze criminali, Traversa attinge sempre dalla fonti originali, partendo dai racconti diretti dei protagonisti, o da scritti di biografi e giornalisti tra i più attendibili, realizzando così un prodotto di rara fattura su un argomento che resta comunque di nicchia all'interno del giornalismo italiano.

In conclusione Rap Criminale è sicuramente un ottimo testo adatto a qualunque tipo di lettore interessato. È adatto ai neofiti, perché racconta i fatti narrati dall'inizio e in modo esaustivo; è adatto al contempo ai lettori più esperti perché offre un compendio completo e mostra il quadro d'insieme di un fenomeno sociale di spaventosa follia.

venerdì 13 gennaio 2023

Rimosse le tracce contestate da Michael, il primo album postumo di Michael Jackson



Nel luglio del 2022 la Sony Music e la Michael Jackson Estate hanno raggiunto un accordo con l'avvocato di Los Angeles Vera Serova che nel 2014 aveva avviato una class action contro la casa discografica in cui sosteneva di essere stata truffata perché tre delle canzoni di Michael, il primo album postumo di Michael Jackson, non sarebbero state cantate da MJ ma da un altro vocalist. L'accordo prevede la rimozione delle tre tracce contestate, che erano Breaking News, Keep Your Head Up e Monster, dai servizi di streaming e dalle ristampe dell'album. Il CD è già stato ristampato a partire dal 9 settembre del 2022 senza le tre tracce contestate e ora è composto dal solo sette canzoni.

La causa è in attesa di giudizio da parte della Corte Suprema della California e un portavoce della casa discografica e della Michael Jackson Estate ha dichiarato a USA Today che indipendentemente dal giudizio del tribunale le due parti hanno raggiunto un accordo che pone una fine alla vicenda. Sony Music ha inoltre dichiarato che questo non deve essere inteso come un'ammissione del fatto che le canzoni siano state cantante da una persona diversa da Michael Jackson, ma come l'intenzione di chiudere una vicenda che sta distraendo i fan da troppo tempo. La considerazione delle due parti accusate suona comunque incredibilmente ingenua: togliere le tracce dalle stampe ufficiali non sederà la discussione, perché resterà il dubbio tra fan e appassionati su chi abbia cantato quei tre pezzi. La polemica sembra comunque lontanissima da una fine.

sabato 7 gennaio 2023

Straight Outta Compton: il biopic sulla vita degli N.W.A



Nel 2015 è uscito nelle sale cinematografiche il biopic Straight Outta Compton sulle vite e sulle carriere discografiche degli N.W.A, la più importante crew losangelina che gettò le basi del gangsta rap di ogni epoca. La storia narrata va dagli inizi nel 1986 fino alla morte per AIDS di Eazy-E nel 1995.

Il film si pone sulla scia dei biopic del mondo dell'hip hop che prima di Straight Outta Compton aveva visto film analoghi prodotti sulle vite di Eminem, 50 Cent e Notorious B.I.G. e che sarebbe poi proseguita con il più celebre All Eyez On Me dedicato a Tupac Shakur. Dal punto di vista cinematografico Straight Outta Compton è sicuramente godibile ed è anche molto efficace nel raccontare il contesto sociale in cui la vicenda si svolge: dalle difficoltà estreme della vita nei ghetti fino alle tensioni nella città di Los Angeles seguite all'assoluzione dei poliziotti che aggredirono Rodney King nel 1991. In particolare è molto azzeccata, per somiglianza e atteggiamenti simili, la scelta di O'Shea Jackson Jr, figlio di Ice Cube, nel ruolo del padre.

Anche dal punto di vista storico il film è tutto sommato corretto. Di fact checking ne sono stati realizzati molti e da molte testate diverse, tra cui quelle di Screen Rant e The Guardian che confermano come il quadro complessivo sia stato riprodotto fedelmente. Tuttavia una pecca di questo film è quella di aver tagliato troppo, difetto comune a praticamente tutti i biopic che in due ore o poco più devono raccontare una storia di anni o decenni. Nel film ad esempio vengono quasi del tutto ignorati il film Boyz n the Hood, a cui Ice Cube partecipò nel 1991, e il secondo album degli N.W.A Efil4zaggin realizzato dopo l'uscita dello stesso Ice Cube dal gruppo. Vedendo il film sembra al contrario che l'ultima opera degli N.W.A sia stato l'EP 100 Miles and Runnin'.

Manca inoltre completamente la figura di Arabian Prince, membro della prima formazione degli N.W.A e che partecipò attivamente al primo album, e viene notevolmente ridimensionata la figura di MC Ren come autore, come sottolineato su Twitter dallo stesso rapper, per dare spazio ai membri più noti del gruppo.

Straight Outta Compton è quindi un buon film che incappa nei soliti limiti di questo tipo di produzioni, ma è comunque un valido compendio di una storia interessante e un altrettanto valido punto di partenza per chi si approccia per la prima volta alla musica e alle storie di Dr Dre, Ice Cube e i loro soci.

venerdì 23 dicembre 2022

White Christmas: la storia dietro la nascita della canzone

White Christmas è uno dei classici della musica natalizia che tutti conosciamo ed è entrata ormai da decenni nell'immaginario collettivo del Natale. Nonostante il brano sia famosissimo, la sua genesi non è per nulla chiara e tuttora ci sono dubbi su quando e dove sia stato composto. L'autore è il celebre compositore Irving Berlin, ebreo russo nato nel 1888 nella città siberiana di Tjumen' con il nome di Israel Beilin e trasferitosi a New York all'età di cinque anni. Berlin divenne americano nel 1916 e fu anche arruolato nell'esercito per la prima guerra mondiale.

Ivring Berlin e Bing Crosby

Berlin scrisse White Christmas per un musical di Broadway sulle vacanze invernali in America che però non vide mai la luce. Su questo dettagli concordano sia la figlia di Berlin, Linda Emmet, interpellata sul tema dal network NPR, sia il giornalista Jody Rosen che nel 2002 scrisse il volume White Christmas: The Story of an American Song. Su quando l'autore iniziò a stendere il brano non c'è però unità di pareri: secondo la figlia questo avvenne tra il 1938 e il 1939, mentre Rosen ritiene più probabile che Berlin abbia iniziato a scriverla nel 1937 mente si trovava in California lontano dalla famiglia per lavorare al film Alexander's Ragtime Band (noto in Italia con il titolo La Grande Strada Bianca).

In ogni caso Berlin non completò la scrittura del brano in California, ma ne scrisse solo una bozza. Il lavoro venne poi completato in altri luoghi tra cui l'hotel Arizona Biltmore a Phoenix, che riportava sul proprio sito che Berlin scrisse la canzone seduto a una delle sue piscine; secondo la ricostruzione di Rosen parte del brano fu scritto anche nella residenza di famiglia sui monti Catskill nello stato di New York.

White Christmas fu cantata per la prima volta da Bing Crosby nel programma radiofonico The Kraft Music Hall la notte di Natale del 1941, quando il senso patriottico americano era molto alto per via dell'attacco a Pearl Harbor avvenuto poche settimane prima. La canzone fu stampata su disco nel luglio successivo nella colonna sonora del film Holiday Inn (noto in Italia come La Taverna dell'Allegria), film nato dall'idea del musical abbandonato per il quale il pezzo era stato scritto, dove venne cantata ancora da Bing Crosby che ne era anche il protagonista. Sulle prime il brano non ebbe grande successo, venendo oscurato dalla notorietà di Be Careful, It's My Heart tratto dallo stesso film e cantanta anch'essa da Crosby, tuttavia White Christmas balzò in vetta alla classifica dei dischi più venduti già nell'ottobre del 1942 e vi rimase per più di tre mesi.


Il testo del brano parla del Natale da un punto di vista sociale, senza particolari riferimenti religiosi, e Linda Emmit sostiene che il padre fosse particolarmente affezionato a questi aspetti perché erano una parte della cultura americana che amava in modo speciale, soprattutto considerando che per via delle sue origini povere non festeggiava il Natale nella natia Russia. Tuttavia il testo che siamo abituati a sentire, che inizia con I'm dreaming of a white Christmas, non è quello completo e originale. Ne esiste infatti una versione estesa, che venne cantata per la prima volta dallo stesso Bing Crosby nel 1968 che inizia con:
The sun is shining, the grass is green
The orange and palm trees sway
There’s never been such a day
In Beverly Hills, L. A.
But it’s December the 24th
And I am longing to be up north….
I’m dreaming of a white Christmas…
Questi versi aggiuntivi descrivono l'ambiente della California dove la prima stesura del brano prese forma, sottolineando come in origine il testo era il lamento di un uomo che doveva passare il Natale lontano dalla famiglia per impegni di lavoro.

White Christmas assunse da subito un valore patriottico anche perché veniva trasmessa sulla radio dell'esercito degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale così che i soldati impegnati all'estero potessero sentirsi parte delle celebrazioni in patria. Il brano venne analogamente utilizzato negli anni 70 quando le truppe americane erano impegnate in Vietnam.

Dal 1941 ad oggi White Christmas vanta innumerevoli cover, da quelle classiche di Dean Martin, Elvis Presley e Frank Sinatra fino a quelle hard rock più moderne dei Twisted Sister o dei Queensrÿche.

Molte fonti, tra cui il libro di Rose, riportano che quando Irvin Berlin disse a uno dei suoi collaboratori I just wrote the best song I've ever written - heck, I just wrote the best song that anybody's ever written! (Ho appena scritto la migliore canzone che abbia mai scritto - anzi no, ho scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!). Il fatto che oggi, a distanza di oltre ottant'anni, White Christmas sia il singolo più venduto di ogni tempo conferma che quel giorno il suo autore aveva ragione.


Fonti: