mercoledì 22 febbraio 2017

Il messaggio di Mike Oldfield nascosto in Amarok

Nella lunga discografia di Mike Oldfield, l'album Amarok del 1990 occupa sicuramente un posto particolare per via del suo suono ostico e ostile ad un ascolto poco attento. Amarok è anche incredibilmente complesso dal punto di vista compositivo, con Oldfield che suona tutti i quaranta strumenti, e monolitico al punto che è impossibile estrarne dei pezzi come invece accade in altre composizioni musicali del medesimo autore come Tubular Bells o Incantations. Inoltre come si può notare facilmente, anche la copertina di Amarok è atipica e spezza la tradizione delle copertine di Oldfield, non mostra infatti paesaggi fantastici o oggetti misteriosi (come le celeberrime campane tubolari) ma un primo piano dell'autore.

Oltre a essere noto per la sua stranezza musicale, Amarok è anche famigerato per il messaggio segreto in codice morse che contiene intorno al minuto 48 e che invia un messaggio ben preciso al fondatore della Virgin Records, etichetta per cui Oldfield incideva al tempo, Richard Branson. Nella sua autobiografia intitolata Changeling: The Autobiography Oldfield spiega che dopo aver realizzato Earth Moving nel 1989 (il suo primo album di sole canzoni) decise di cambiare decisamente rotta e di incidere un disco interamente strumentale. Il risultato fu Amarok che lui stesso definisce wild and weird, a complete opposite of the albums before. La scelta del titolo cadde sulla parola Amarok che in gaelico significa "domani", ma Branson propose di cambiare il titolo in Tubular Bells II; Oldfield rifiutò perché aveva in mente di realizzare un disco intitolato Tubular Bells II, ma non era quello.

La Virgin decise quindi di non dare molta promozione pubblicitaria all'album e francamente sarebbe stato difficile farlo visto che per via del suo suono monolitico da Amarok era impossibile estrarre dei singoli che potessero essere trasmessi alla radio. Oldfield decise quindi di promuovere il disco a modo suo: introducendo in esso un messaggio segreto e promettendo un premio di 1000 sterline al primo che lo avesse individuato. Oldfield realizzò questa campagna pubblicitaria inviando la comunicazione per posta a chi avesse comprato biglietti per concerti rock pagando con carta di credito.

Il messaggio, chiaramente udibile al minuto 48 scandisce in codice morse questa sequenza di lettere "FUCK OFF RB": un chiaro invito a Richard Branson. Inoltre sul retro di copertina fu riportata la scritta HEALTH WARNING This record could be hazardous to the health of cloth-eared nincompoops. If you suffer from this condition, consult your Doctor immediately [AVVISO PER LA SALUTE Questo disco può essere dannoso per gli stupidi dalle orecchie foderate. Se soffrite di questa condizione, consultate immediatamente il medico].

Dopo Amarok Oldfield dovette per contratto incidere ancora un solo album per la Virgin, che fu Heaven's Open del 1991, l'unico album realizzato a nome Michael Oldfield, anziché Mike. Dopo aver lasciato l'etichetta inglese, Oldfield completò la beffa nei confronti di Branson. L'autore infatti approdò alla Warner Bros e il suo primo disco per la nuova casa discografica fu proprio Tubular Bells II.

mercoledì 15 febbraio 2017

Sir Lord Baltimore: i pionieri del metal americano

Quando si pensa ai progenitori del metal vengono di solito in mente i tre grandi gruppi dell'hard rock britannico degli anni 70 quali i Led Zeppelin, i Deep Purple e i Black Sabbath. Tuttavia anche molte band di oltreoceano hanno contribuito alla nascita del genere e tra queste le più famose sono sicuramente gli Stooges e gli MC5, ma oltre a questi c'è un gruppo di New York che troppo spesso viene ignorato nonostante abbia dato un contributi notevole alla nascita del metal: i Sir Lord Baltimore.

Come riportato dal volume Encyclopedia of Heavy Metal Music di William Phillips e Brian Cogan, il gruppo trasse il suo nome da quello di un personaggio minore del film Butch Cassidy and the Sundance Kid. La band nacque nel 1968 ed era in origine composta da un terzetto: John Garner cantante e batterista, Louis Dambra alla chitarra e Gary Justin al basso. Il loro primo album intitolato Kingdom Come uscì nel 1971 ed è composto da dieci pezzi caratterizzati da un hard rock grezzo e immediato di chiara ispirazione blues, ricco di riff e assoli di chitarra e di cori soprattutto nei ritornelli. Il suono è spesso duro e, oltre ad essere alla base dei pilastri che formeranno poi il metal, getta anche le fondamenta dello stoner rock. Nove dei dieci pezzi dell'album sono veloci e aggressivi, ad essi si aggiunge l'unica balla intitolata Lake Isle of Innersfree che si apre con un lungo arpeggio e che si distingue per i suoni morbidi e tendenti al prog. Nel disco spiccano anche la grintosa titletrack che apre l'album, il secondo brano I Got Woman dai suoni più neri e tendenti al funk e Hell Hound impreziosito dagli scream e dai falsetti del cantante. L'album è generalmente noto anche per essere uno dei primi (anche se non il primo in assoluto, come abbiamo spiegato in passato) per il quale è stato usato il termine heavy metal.

L'anno seguente la band inserì un quarto elemento nella propria formazione con l'aggiunta di Joey Dambra (fratello di Louis) come secondo chitarrista e nello stesso anno pubblicò il proprio secondo ed eponimo album. Il secondo disco è composto di sole sei tracce e da subito si capisce come la band voglia sterzare e muoversi verso suoni leggermente più lenti ma più curati e patinati: tutto suona più preciso e meno immediato rispetto all'album di esordio, dal cantato ai riff di chitarra a tutta la strumentazione. In genere le sonorità dei Sir Lord Baltimore si spostano più verso il blues seguendo le orme dei giganti dell'hard rock britannico. Tra i pezzi migliori troviamo Loe and Behold che mostra chiaramente come le doti vocali del cantante siano notevolmente migliorate sia in termini di potenza sia in termini di precisione. Notevole anche il pezzo di apertura intitolato Man From Manhattan e lungo oltre dieci minuti dai suoni sorprendentemente lenti e ancora tendenti al prog. Chiude l'album un pezzo indicato come live intitolato Where Are We Going che secondo quanto riportato da Wikipedia fu invece registrato in studio con il rumore della folla aggiunto a posteriori, sentendo il pezzo effettivamente si nota come il rumoreggiare del pubblico non abbia alcuna coordinazione con la musica che sembra un po' troppo perfetta per essere incisa dal vivo, sia a livello musicale sia canoro.

Pochi anni dopo la band iniziò a scrivere il materiale per il terzo album, ma visto lo scarso successo commerciale del precedente il progetto fu abbandonato. I Sir Lord Baltimore interruppero l'attività per più di trent'anni fino a quando John Garner e Louis Dambra decisero di riunire la band aggiungendo alla formazione Tony Franklin (ex bassista di innumerevoli band tra cui Whitesnake e Quiet Riot e che in Italia ha lavorato con Eros Ramazzotti e Vasco Rossi ) al basso. Il terzo album fu pubblicato nel 2006 con il titolo Sir Lord Baltimore III - Raw e in questo caso le sonorità del gruppo si spostarono decisamente sul metal. Il gruppo riprese parte del materiale scritto negli anni 70 e lo riattualizzò cambiandone soprattutto i testi che nella loro versione definitiva trattano temi cristiani e biblici e spesso riferiti all'Apocalisse. I riff di chitarra sono molto più duri rispetto in passato, le qualità canore di Garner sono ancora migliorate e in generale i suoni sono più ricchi e variegati. Il disco è composto da soli sei pezzi di ottima qualità, oltre ai due aggressivi brani di apertura spicca il midtempo Wild White Horses della durata di quasi sette minuti in cui i Sir Lord Baltimore dimostrano di essere in grado anche di rallentare i ritmi e suonare pezzi più rilassati con grande efficacia.

Dal 2006 i Sir Lord Baltimore non sono mai tornata in sala di incisione e la morte del 2015 di John Garner ha definitivamente chiuso la carriera della band, che nella loro lunga e travagliata carriera ha realizzato solo tre album. Tuttavia è un vero peccato che questo gruppo sia così sottovalutato e semisconosciuto, perché va comunque a pieno titolo considerato come una delle migliori band della storia dell'hard rock e del metal, senza cui il panorama musicale di oggi non sarebbe uguale.

mercoledì 8 febbraio 2017

La scelta della copertina di Slippery When Wet

Slippery When Wet è uno dei più celebri, e forse il migliore, album dei Bon Jovi; uscito nel 1986 contiene alcuni dei brani più noti della band come You Give Love a Bad Name, Livin' on a Prayer e Wanted Dead or Alive. La copertina del disco mostra uno sfondo nero bagnato, con la scritta Slippery When Wet tracciata nell'umidità con le dita. Nonostante l'immagine sia semplice, e comunque di grande impatto, la storia dietro la scelta di questa fu lunga e tortuosa e rischiò di compromettere il successo dell'album stesso.

Come raccontato nel 2015 dallo stesso Jon Bon Jovi a The Canadian Press, la prima immagine proposta dalla band fu una foto di loro quattro in una miniera di carbone, tutti con la barba lunga di un mese e mezzo, con indosso dei lunghi cappotti duster; in origine il titolo dell'album avrebbe dovuto essere Wanted Dead or Alive. Vista la foto, la casa discografica si rifiutò di usarla commentando "Over our dead bodies", ma al contempo realizzare una copertina era urgente perché You Give Love a Bad Name (singolo di lancio pubblicato prima dell'album intero) veniva già trasmessa dalle radio; la Mercury Records decise quindi di prendere l'iniziativa realizzando una copertina alternativa che mostrava il busto di una donna di cui non si vedeva il viso, con una maglietta gialla succinta che recava la scritta Slippery When Wet. La foto era stata scattata in precedenza in una discoteca, anche se Bon Jovi non specifica nel suo racconto se la donna era una cubista o una cliente del locale. All'immagine fu quindi sovrapposto un contorno rosa con il nome del gruppo. Questa volta fu la band a opporsi all'uso di questa immagine proprio per via del contorno rosa, poco adatto a un album rock. In un'intervista dell'epoca Bon Jovi diede una spiegazione leggermente diversa e più in linea con l'immagine del rocker ribelle che incarnava al tempo, cioè che la band scartò la copertina con la maglietta gialla perché questa incontrò il parere negativo del Parents Music Resource Center, l'ente che valuta sotto il profilo morale ed educativo i contenuti discografici, e il loro responso avrebbe bloccato la distribuzione del disco.

Per uscire dallo stallo Bon Jovi prese un sacco nero per la pattumiera, lo bagnò con acqua e poi con le dita scrisse nell'umidità Slippery When Wet e propose l'immagine come copertina dell'album, creando così l'immagine che oggi tutti conosciamo. La foto della ragazza con la maglietta gialla non fu comunque scartata: venne usata per la stampa giapponese dell'album e la stessa foto allargata venne usata anche per alcune edizioni del 45 giri di You Give Love a Bad Name.

Curiosamente altre edizioni di You Give Love a Bad Name propongono una foto della band con lo stesso contorno rosa della foto della maglietta gialla, mentre quella più nota mostra ancora il sacchetto della pattumiera con il titolo della canzone sotto al nome della band.

Non sapremo mai se la foto con la maglietta gialla avrebbe compromesso l'immagine della band e il successo del disco. E' pur vero che altre band coeve dei Bon Jovi, come i Lizzy Borden o i Britny Fox, hanno usato immagini di ragazze in pose sexy nelle copertine dei loro dischi, ma i Bon Jovi hanno sempre mantenuto un'immagine più seria di questi altri gruppi e quindi i dubbi del loro cantante erano più che fondati. Non possiamo comunque non lodare la creatività di Jon che gli ha concesso di sbloccare la situazione con un sacchetto della pattumiera.

mercoledì 1 febbraio 2017

Marco Mendoza - Pavia, 31/1/2017

Mi sembrava incredibile che un musicista leggendario come Marco Mendoza potesse venire a suonare a Pavia, eppure il piccolo e storico Spaziomusica di via Faruffini ci ha regalato lo scorso 31 gennaio un concerto del mitico bassista che ha militato nei Whitesnake, nei Thin Lizzy, che ha suonato con Tim "Ripper" Owens, con Dolores O'Riordan e che da qualche anno è membro stabile dei Dead Daisies.

Mendoza ha fatto l'ingresso sul palco più informale che abbia mai visto, camminando in mezzo alla folla mentre beveva qualcosa di fresco, per poi salire sul palco facendosi spazio tra il pubblico accalcato, togliersi la sciarpa e la camicia di jeans che indossava sopra alla maglietta prima di imbracciare il basso.

Da quel momento sono state due ore di musica ininterrotta di sano hard rock allegro e sanguigno condito da forti venature funk e di sonorità nere. Mendoza, accompagnato da un chitarrista e un batterista italiani, ha eseguito principalmente pezzi dal suo album solita Live for Tomorrow del 2007 a cui ha aggiunto alcune cover di artisti con cui ha lavorato, come Hey Baby di Ted Nugent o Hole in My Pocket di Neal Schon, e alcuni omaggi al passato come I Feel Good di James Brown, Give Peace a Chance di John Lennon e God Bless the Child di Billie Holiday, unico brano lento e raccolto eseguito in mezzo al pubblico in una serata di energia a fiumi. E proprio grazie alla varietà del repertorio Marco dimostra anche di essere un musicista a 360 gradi, non legato solo all'hard rock ma in grado di spaziare e far apprezzare forme musicali molto diverse attingendo anche a piene mani dalla tradizione della musica nera.

Mendoza ha scelto di eseguire, come di consueto nei suoi live, un set molto ristretto di pezzi, circa una decina, arricchendo ciascuno di lunghi assoli di basso, parti suonate e divertentissime interazioni con il pubblico scendendo spesso a suonare in mezzo alla folla. Ogni brani dura così circa dieci minuti: scelta insolita, ma sicuramente vincente e che dà modo a Mendoza di esprimere anche il proprio lato umano. Marco infatti si rivela un musicista vicinissimo al suo pubblico, cosa non comune per un artista che ha venduto milioni di dischi, che non nega a nessuno una foto, un autografo o una battuta.

E quasi non sembra di ritrovarsi al concerto di un musicista storico, uno senza il quale il rock non sarebbe uguale, perché Mendoza è così umano che si comporta come se fosse solo un musicista di talento chiamato ad animare una festa tra amici, uno che chiede agli altri musicisti in sala come si chiamano i loro gruppi e se hanno una pagina Facebook e se i loro video si trovino su YouTube. E invece quell'uomo con la barba e le catene al collo è bassista leggendario, uno che ha scritto la storia del rock, e per una sera la storia del rock si è fermata a Pavia.

lunedì 30 gennaio 2017

Xandria - Theater of Dimensions

Con il nuovo album Theater of Dimensions i tedeschi Xandria sono alla terza prova in studio con la attuale cantante Dianne van Giersbergen, ad un anno e mezzo di distanza dall'EP Fire and Ashes pubblicato nel 2015. In questo nuovo album la band di Bielefeld ripropone il proprio suono caratteristico fatto di basi musicali veloci e potenti a cui si somma la voce cristallina della cantante che spesso si cimenta nell'uso del registro lirico. L'album è composto di 13 pezzi (18 nella versione deluxe grazie alla presenza di 5 bonus track registrate in acustico). L'uscita dell'album è stata anticipata di alcuni giorni dal video di Call of Destiny che ha mostrato fin da subito che rispetto al passato gli Xandria presentano sonorità più maestose, ricche di lunghe parti suonate e un maggiore uso di poderosi cori. Esempi di questo approccio si possono riscontrare ad esempio nella traccia di apertura Where the Heart is Home in cui il coro fa da seconda voce sul ritornello e in Ship of Doom in cui il canto corale a cappella apre il brano prima dell'ingresso degli strumenti per poi ripresentarsi in un vocalizzo nel ritornello.

La vera forza di questa band resta comunque la potentissima voce della van Giersbergen che mostra di avere una notevole estensione sia verso l'alto sia verso il basso. Dei tredici brani dodici sono veloci ed energici ed è presente una sola ballad intitolata Dark Night of the Soul dai suoni piuttosto tradizionali. Il disco vede anche la presenza di alcuni ospiti. Burn Me è cantata da Dianne con Zaher Zorgati, cantante della band power metal tunisina Myrath, accostando con grande efficacia due stili di canto radicalmente diversi. Nel disco è presente anche Björn Strid dei Soilwork nel brano We Are Murderers che proprio per via della presenza del cantante svedese è il pezzo peggiore del disco e l'unico che avrebbe potuto essere tolto senza intaccare la qualità dell'album, la spiegazione è presto data: Strid canta in growl aggiungendo un tocco davvero brutto a un brano altrimenti bellissimo. Gli altri due ospiti sono Russ Thompson dei Van Canto nella già citata Ship of Doom e Henning Basse nella teatrale e lunghissima title track di chiusura, ricca di cambi di tempo e di stile.


Come anticipato, l'album in versione deluxe contiene cinque tracce in acustico. Le prime due sono Call of Destiny e Dark Night of Soul a cui seguono In Rememberance (la cui versione originale si trova su Fire and Ashes), Sweet Atonement (originariamente incisa su Sacrificium) e Valentine (tratta da Neverworld's End dove era cantata dalla precedente vocalist Manuela Kraller). Come sempre i brani acustici mostrano un lato diverso dei musicisti, sicuramente più leggero e meno aggressivo e più attento ai dettagli esecutivi, in particolare spicca sulle altre la nuova versione di Valentine che trasforma un pezzo aggressivo in uno leggero e divertente guidato dal suono delle chitarre acustiche nel quale Dianne dimostra di essere a proprio agio anche in uno stile di canto più tradizionale.

In sintesi Theater of Dimensions è un vero capolavoro del symphonic metal e il miglior disco della carriera degli Xandria per ricchezza dei suoni e per precisione nelle esecuzioni. Non si può infine non notare che i migliori dischi degli Xandria sono proprio gli ultimi tre e il merito è in ottima parte di Dianne van Giersbergen che si dimostra superiore alle due, pur brave, cantanti che l'hanno preceduta e che ha concesso al gruppo di affrancarsi dell'etichetta di clone tedesco dei Nightwish sviluppando sonorità proprie che li proiettano tra i migliori gruppi del panorama attuale del symphonic metal.

lunedì 23 gennaio 2017

Mike Oldfield - Return to Ommadawn

Il nuovo album del compositore e polistrumentista britannico Mike Oldfield arriva nei negozi tre anni dopo il precedente Man on The Rocks uscito nel 2014 e costituito interamente di canzoni, Man on The Rocks fu il secondo album della lunga carriera di Oldfield ad essere composto solo da brani cantanti a ben venticinque anni di distanza dal primo Earth Moving. Il nuovo disco specifica fin dal titolo in quale direzione voglia andare e quanto questa sia diversa da quella dell'album precedente, Return to Ommadawn si riallaccia infatti chiaramente al terzo album di Mike Oldfield uscito nel 1975 ed intitolato proprio Ommadawn, disco interamente strumentare e caratterizzato da sonorità celtiche condite saggiamente dall'uso di percussioni africane. Return to Ommadawn è anche il primo album di Mike Oldfield ad essere composto da due tracce strumentali intitolate semplicemente Part 1 e Part 2 da Incantations del 1978.

Con Return to Ommadawn Mike Oldfield propone quasi cinquanta minuti di musica d'atmosfera, rilassante e che trasporta in terre lontane e fantastiche, come nella migliore tradizione dei dischi strumentali del musicista di Reading. Anche in questa occasione, come in molte altre in passato, Oldfield suona tutti i venticinque strumenti tra tastiere, strumenti a corda e percussioni. Oltre ai consueti chitarra acustica, chitarra elettrica, basso e Hammond, non mancano strumenti meno comuni come metallofono, tamburo a cornice e arpa celtica. Il suono è armonico e varia poco tra le due metà del disco, l'unica differenza che si nota è che la seconda parte presenta un suono leggermente più aggressivo e meno rilassato della prima per via di una maggiore distorsione nelle chitarre. L'album è interamente strumentale con la sola eccezione della traccia vocale del coro di bambini di On Horseback, tratto da Ommadawn, e sovrapposta uguale verso nella seconda metà della prima traccia.

Return to Ommadawn è un disco di grande effetto che dimostra ancora una volta che nella sua quarantennale carriera Mike Oldfield non ha mai compiuto un passo falso e offre un'ottima prova dell'ecletticità dell'autore che riesce a passare dal rock alla musica strumentale con una facilità incredibile. E il fatto che Oldfield sia in grado di suonare una tale vastità di strumenti e di comporre musica che usi suoni così diversi proietta l'autore di diritto tra i più grandi musicisti di ogni tempo.

venerdì 20 gennaio 2017

Lock Up - Something Bitchin' This Way Comes

Prima di essere il chitarrista dei Rage Against The Machine e degli Audioslave, Tom Morello militava in una band chiamata Lock Up che ebbe una brevissima carriera alla fine degli anni 80. La band nacque nel 1987 e la formazione originale era composta da Mike Livingston alla chitarra, Kevin Wood al basso, Micheal Lee alla batteria e Brian Grillo alla voce. Lee lasciò la band poco dopo la fondazione e fu sostituito da D. H. Peligro il quale rimase nel gruppo per un periodo molto breve per poi essere a sua volta sostituito da Vince Ostertag. Nel 1988 Morello prese il posto di Livingston e Chris Beebe sostituì Wood al basso.

Con la formazione definitiva la band incise un solo album nel 1989 intitolato Something Bitchin' This Way Comes. La musica dei Lock Up si inserisce nel filone funk metal che a cavallo tra gli anno 80 e 90 includeva anche gruppi come i Fishbone e i Primus e che è composta da un hard rock vibrante e divertente condito con profonde venature di musica nera di ispirazione funk.

L'album dei Lock Up è composto da dodici brani il cui suono è contraddistinto dalla chitarra di Morello che si esprime in modo completamente diverso da quando farà in seguito nei Rage Against The Machine basandosi soprattutto su arpeggi e tapping; un altro aspetto distintivo dei Lock Up è la voce saltellante di Brian Grillo che risente sicuramente anche dell'esplosione dell'hip-hop che in quel periodo dominava le classifiche. Delle dodici tracce del disco, undici sono veloci e potenti e a queste si aggiunge il midtempo Kiss 17 Goodbye (scritto con 17 al posto di It anche sulla copertina del singolo) che rallenta leggermente il ritmo rispetto al resto del disco.

Tra i pezzi migliori e più energici troviamo sicuramente il brano di apertura Can't Stop the Bleeding arricchito dal controcanto sul ritornello dei tre strumentisti. Oltre a questo si distinguono Nothing New (di cui fu anche realizzato un video), Punch Drunk e Half Man, Half Beast in quanto sono i pezzi in cui si notano maggiormente gli esperimenti sonori di Morello alla chitarra.

Dopo l'uscita dell'unico album anche Ostertag lasciò il gruppo e fu sostituito da Jon Knox, ma il gruppo si sciolse poco dopo. Tuttavia l'unica prova in studio dei Lock Up è un disco di grande valore perché dimostra anzitutto l'incredibile versatilità di Tom Morello che nei decenni a venire avrebbe intrapreso strade musicali completamente diverse dal funk metal, ma anche che talvolta dei musicisti semisconosciuti possono creare album ottimi in grado di regalare un'ora di musica divertente e per nulla banale.