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venerdì 10 dicembre 2021
Tin Idols - Metal Kalikimaka, Volume 3
Nel 2016 gli hawaiani Tin Idols hanno completato la loro trilogia natalizia con la pubblicazione del terzo volume della serie Metal Kalikimaka. Il disco, composto da tredici tracce, ripropone la formula dei due precedenti con una selezione di pezzi della tradizione natalizia, tra classici e moderni, reinterpretati in chiave metal.
La regina del metal hawaiano Sandy Essman interpreta tre brani con la consueta potenza e sicurezza, troviamo infatti Sandy al microfono in Carol of the Bells, O Come All Ye Faithful (che a dispetto del titolo è cantata in latino in un inedito mash-up con Gloria in Excelsis Deo) e nell'Ave Maria di Charles Gounod. Sandy canta in latino due dei suoi tre pezzi e oltre all'intonazione e alla potenza che la contraddistinguono colpisce la precisione della pronuncia, una delle migliori al di fuori dell'Europa meridionale. Tra le voci femminili spicca anche l'interpretazione di Marti Kerton di Christmas Wrappings dei Waitresses del 1981 di cui mantiene l'atmosfera festaiola portando il new wave del pezzo originale su un incalzante brano metal.
Tra le voci maschili troviamo il potente canto di Tim Hewitt che apre il disco con The First Noel, seguito poco dopo dalla voce graffiante di Angelo Jensen che interpreta I'll Be Home for Christmas. Nell'album sono presenti anche due versioni di Hallelujah di Leonard Cohen con il testo natalizio dei Cloverton interpretate da Jon Lorenc: la prima versione ha il consueto arrangiamento metal, mentre la seconda, decisamente più raccolta, è interpretata con soli voce e tastiera. Tra le migliori rivisitazioni troviamo anche We Wish You a Metal Christmas (reinterpretazione di We Wish You a Merry Christmas) cantata da Mark Caldeira (una delle migliori voci del roster dei Tin Idols) e impreziosita dai cori di Sandy Essman, e O Little Town of Bethlehem interpretata da John Diaz in un inedito stile canoro da classical crossover.
In generale Metal Kalikimaka, Volume 3 ha un suono più patinato e maturo rispetto ai due predecessori e costituscie un album convincente e di altissimo livello che raggiunge appieno lo scopo che si prefigge, cioè quello di divertire per tutta la sua durata regalando versioni inedite di brani famosissimi. I Tin Idols, che nella loro lunga discografia vantano anche reinterpretazioni in chiave metal di Madonna e Duran Duran, si confermano tra i migliori interpreti della musica natalizia, come confermato da questo terzo innesto della trilogia di Metal Kalikimaka.
mercoledì 20 settembre 2017
Magni Animi Viri - Heroes Temporis
Il 2007 ha visto la nascita della prima rock-opera interamente in italiano, il progetto musicale guidato dal maestri Giancarlo Trotta e Luca Contegiacomo porta il nome di Magni Animi Viri e il loro album si intitola Heroes Temporis.
Il disco si basa su basi musicali suonate dalla band composta da chitarre, bassi e batteria a cui si unisce la Bulgarian Symphony Orchestra diretta dal maestro Giacomo Simonelli. Il suono prodotto da questa larga schiera di oltre cento musicisti unisce le sinfonie della musica classica al suono più moderno del power metal, a questo tessuto musicale si sommano le splendide voci del tenore operistico Francesco Napoletano e della cantante pop-rock Ivana Giugliano, invertendo quindi il paradigma del metal sinfonico che spesso vede voci liriche femminili accanto a voci maschili dallo stile moderno.
L'album narra del viaggio nella vita del protagonista della storia, interpretato da Napoletano, che ripensa alle diverse fasi della propria esistenza e in questo percorso incontra varie figure quali quella di un genitore e ovviamente quella della donna amata con cui ha un rapporto contrastato. Alla fine del proprio viaggio il protagonista scoprirà di aver vissuto un sogno.
Dal punto di vista musicale il risultato è semplicemente meraviglioso e l'unione di due mondi musicali così diversi è incredibilmente armoniosa. La vera forza di questo disco è la voce di Napoletano che dà sfoggio della propria potenza ed estensione per tutta la durata dell'album. I due vocalist si alternano, si amalgamano e spesso duettano, con Napoletano che fa le voci più alte e la Giugliano che interpreta quelle più basse, come nel pezzo centrale dell'opera Vorrei e nella leggera Sai Cos'è, unico pezzo del disco a essere suonato con chitarre acustiche. Bellissimo è anche il controcanto della Giugliano sul ritornello finale di Come Un Falco cantato da Napoletano.
Alcuni brani sono eseguiti dalla sola Giuglano che sfodera una voce graffiante e versatile in pezzi che risultano più tradizionalmente pop-rock che power metal operistico. Tra questi troviamo la ballad Finché, la rockeggiante Pensieri e l'onirico midtempo Immenso.
I brani migliori del disco sono quelli in cui Napoletano mostra al meglio le doti della sua magnifica voce, tra essi troviamo i due pezzi di apertura Heroes... e ...temporis, le già citate Vorrei e Come Un Falco e la poderosa Mai Più.
Il disco è impreziosito dalla presenza di sostenuti cori in molti dei pezzi che spesso regalano una bellissima alternanza tra la sezione femminile e quella maschile. Alcune parti sono invece solo lette per aggiungere segmenti narrati alla vicenda, la voce del lettore è prestata da Matteo Salsano.
Nove anni dopo la pubblicazione iniziale, Trotta e Contegiacomo sono tornati in studio per realizzare la world edition di Heroes Temporis cantata in inglese da due vocalist d'eccezione: Russell Allen (cantante tra gli altri dei Symphony X e degli Adrenaline Mob) alla voce maschile e Amanda Somerville (Trillium, Avantasia, Exit Eden e molti altri) alla voce femminile. La parte del narratore è invece interpretata da Clive Riche. La tracklist è leggermente più corta perché mancano alcuni brevi inserti musicali, ma le parti cantante restano immutate, e i titoli dei brani sono tradotti in inglese.
Le melodie sono le medesime del disco in italiano e Russell Allen sfodera una prova magistrale mostrando una versatilità inaspettata nel tentativo di eseguire un canto operistico che sarebbe al di fuori del suo repertorio tradizionale, il risultato è decisamente buono ma per quanto vada lodata la prova di Allen gli manca ancora quel qualcosa in più per raggiungere le vette di Napoletano che rimangono ancora lontane. Amanda Somerville è invece semplicemente inarrivabile, del resto Amanda è una delle migliori cantanti al mondo e ben poche possono avvicinarsi al suo stile; il suo canto è limpido, dolce e deciso e, senza nulla togliere alla pur bravissima Giugliano, regala un'altra performance stellare.
Questo album, in entrambe le sue versioni, è un capolavoro di assoluto valore e di grande effetto. Una volta ascoltata per intero la versione originale viene subito voglia di inserire nel lettore la versione in inglese per poi rimettere quella in italiano e ricominciare l'ascolto dall'inizio. Le melodie di questo album e la voce di Napoletano entrano in testa come un martello pneumatico e non ne escono più e subito dopo il primo ascolto ci si ritrova già a canticchiare Siamo gocce di un oceano, specchio delle luci su di noi.
Ma nonostante questo sia un disco che convince sotto ogni aspetto, ascoltando la world edition resta un grande dubbio e un invito che vogliamo rivolgere a Giancarlo Trotta e Luca Contegiacomo: quanto sarebbe bella una terza versione di Heroes Temporis cantata da Francesco Napoletano e Amanda Somerville ognuno nella propria lingua?
Speriamo che i due maestri raccolgano il nostro invito e che questo non resti solo un sogno, così da poterci un giorno togliere la curiosità.
Il disco si basa su basi musicali suonate dalla band composta da chitarre, bassi e batteria a cui si unisce la Bulgarian Symphony Orchestra diretta dal maestro Giacomo Simonelli. Il suono prodotto da questa larga schiera di oltre cento musicisti unisce le sinfonie della musica classica al suono più moderno del power metal, a questo tessuto musicale si sommano le splendide voci del tenore operistico Francesco Napoletano e della cantante pop-rock Ivana Giugliano, invertendo quindi il paradigma del metal sinfonico che spesso vede voci liriche femminili accanto a voci maschili dallo stile moderno.
L'album narra del viaggio nella vita del protagonista della storia, interpretato da Napoletano, che ripensa alle diverse fasi della propria esistenza e in questo percorso incontra varie figure quali quella di un genitore e ovviamente quella della donna amata con cui ha un rapporto contrastato. Alla fine del proprio viaggio il protagonista scoprirà di aver vissuto un sogno.
Dal punto di vista musicale il risultato è semplicemente meraviglioso e l'unione di due mondi musicali così diversi è incredibilmente armoniosa. La vera forza di questo disco è la voce di Napoletano che dà sfoggio della propria potenza ed estensione per tutta la durata dell'album. I due vocalist si alternano, si amalgamano e spesso duettano, con Napoletano che fa le voci più alte e la Giugliano che interpreta quelle più basse, come nel pezzo centrale dell'opera Vorrei e nella leggera Sai Cos'è, unico pezzo del disco a essere suonato con chitarre acustiche. Bellissimo è anche il controcanto della Giugliano sul ritornello finale di Come Un Falco cantato da Napoletano.
Alcuni brani sono eseguiti dalla sola Giuglano che sfodera una voce graffiante e versatile in pezzi che risultano più tradizionalmente pop-rock che power metal operistico. Tra questi troviamo la ballad Finché, la rockeggiante Pensieri e l'onirico midtempo Immenso.
I brani migliori del disco sono quelli in cui Napoletano mostra al meglio le doti della sua magnifica voce, tra essi troviamo i due pezzi di apertura Heroes... e ...temporis, le già citate Vorrei e Come Un Falco e la poderosa Mai Più.
Il disco è impreziosito dalla presenza di sostenuti cori in molti dei pezzi che spesso regalano una bellissima alternanza tra la sezione femminile e quella maschile. Alcune parti sono invece solo lette per aggiungere segmenti narrati alla vicenda, la voce del lettore è prestata da Matteo Salsano.
Nove anni dopo la pubblicazione iniziale, Trotta e Contegiacomo sono tornati in studio per realizzare la world edition di Heroes Temporis cantata in inglese da due vocalist d'eccezione: Russell Allen (cantante tra gli altri dei Symphony X e degli Adrenaline Mob) alla voce maschile e Amanda Somerville (Trillium, Avantasia, Exit Eden e molti altri) alla voce femminile. La parte del narratore è invece interpretata da Clive Riche. La tracklist è leggermente più corta perché mancano alcuni brevi inserti musicali, ma le parti cantante restano immutate, e i titoli dei brani sono tradotti in inglese.
Le melodie sono le medesime del disco in italiano e Russell Allen sfodera una prova magistrale mostrando una versatilità inaspettata nel tentativo di eseguire un canto operistico che sarebbe al di fuori del suo repertorio tradizionale, il risultato è decisamente buono ma per quanto vada lodata la prova di Allen gli manca ancora quel qualcosa in più per raggiungere le vette di Napoletano che rimangono ancora lontane. Amanda Somerville è invece semplicemente inarrivabile, del resto Amanda è una delle migliori cantanti al mondo e ben poche possono avvicinarsi al suo stile; il suo canto è limpido, dolce e deciso e, senza nulla togliere alla pur bravissima Giugliano, regala un'altra performance stellare.
Questo album, in entrambe le sue versioni, è un capolavoro di assoluto valore e di grande effetto. Una volta ascoltata per intero la versione originale viene subito voglia di inserire nel lettore la versione in inglese per poi rimettere quella in italiano e ricominciare l'ascolto dall'inizio. Le melodie di questo album e la voce di Napoletano entrano in testa come un martello pneumatico e non ne escono più e subito dopo il primo ascolto ci si ritrova già a canticchiare Siamo gocce di un oceano, specchio delle luci su di noi.
Ma nonostante questo sia un disco che convince sotto ogni aspetto, ascoltando la world edition resta un grande dubbio e un invito che vogliamo rivolgere a Giancarlo Trotta e Luca Contegiacomo: quanto sarebbe bella una terza versione di Heroes Temporis cantata da Francesco Napoletano e Amanda Somerville ognuno nella propria lingua?
Speriamo che i due maestri raccolgano il nostro invito e che questo non resti solo un sogno, così da poterci un giorno togliere la curiosità.
lunedì 18 settembre 2017
Visions of Atlantis - Old Routes - New Waters
Nel 2013 gli austriaci Visions of Atlantis, dopo l'uscita dell'album Ethera, hanno rivoluzionato la propria formazione tenendo il solo batterista Thomas Caser, unico membro rimasto per tutta la carriera del gruppo, a cui si sono aggiunti cinque elementi nuovi. Per i tre musicisti si è trattato di un ritorno, infatti il chitarrista Werner Fiedler, il tastierista Chris Kamper e il bassista Michael Koren avevano già militato nei Visions of Atlantis in passato; mentre i due cantanti, la francese Clémentine Delauney e Siegfried Samer, sono invece membri nuovi.
Il primo EP registrato dal gruppo con la nuova formazione e pubblicato nel 2016 porta l'eloquente titolo di Old Routes - New Waters e in copertina mostra un vascello in mare aperto che batte bandiera austriaca e francese (perché ormai il gruppo non è più solo austriaco).
La band ha scelto per la prima prova in studio di realizzare un EP di cinque brani già editi in passato e qui interpretati dalla band rinnovata. I pezzi scelti sono Lovebearing Storm dall'album Eternal Endless Infinity, Seven Seas dall'album Trinity e Lost, Last Shut Of Your Eyes e Winternight (di cui è stato anche realizzato un video) da Cast Away.
Le melodie restano immutate rispetto alle incisioni originali, ciò che invece cambia notevolmente sono le voci dei due interpreti. In particolare il migliore acquisto di questa band è sicuramente la superlativa Clémentine che con la sua voce limpida da soprano, di registro più alto rispetto a tutte le altre cantanti che l'hanno preceduta nella band, si dimostra superiore alle pur bravissime vocalist precedenti. In particolare Clémentine riesce a tenere lo stile di canto lirico praticamente ovunque, anche a velocità che sarebbero proibitive per gran parte delle sue colleghe. La supremazia vocale di Siegfried Samer rispetto ai due cantanti che l'hanno preceduto non è altrettanto marcata, ma il nuovo vocalist si dimostra almeno allo stesso livello degli altri, riuscendo così a non far rimpiangere le formazioni passate.
Ovviamente questo EP è solo un riempitivo nella discografia dei Visions of Atlantis che aveva come scopo quello di interrompere un silenzio che durava dal 2013. Ma da questo piccolo esperimento possiamo constatare come le premesse per il futuro siano ottime. Sebbene Old Routes - New Waters non sarà una pietra miliare della discografia del gruppo, lascia almeno la speranza che il prossimo album sarà invece l'ennesimo ottimo lavoro.
Il primo EP registrato dal gruppo con la nuova formazione e pubblicato nel 2016 porta l'eloquente titolo di Old Routes - New Waters e in copertina mostra un vascello in mare aperto che batte bandiera austriaca e francese (perché ormai il gruppo non è più solo austriaco).
La band ha scelto per la prima prova in studio di realizzare un EP di cinque brani già editi in passato e qui interpretati dalla band rinnovata. I pezzi scelti sono Lovebearing Storm dall'album Eternal Endless Infinity, Seven Seas dall'album Trinity e Lost, Last Shut Of Your Eyes e Winternight (di cui è stato anche realizzato un video) da Cast Away.
Le melodie restano immutate rispetto alle incisioni originali, ciò che invece cambia notevolmente sono le voci dei due interpreti. In particolare il migliore acquisto di questa band è sicuramente la superlativa Clémentine che con la sua voce limpida da soprano, di registro più alto rispetto a tutte le altre cantanti che l'hanno preceduta nella band, si dimostra superiore alle pur bravissime vocalist precedenti. In particolare Clémentine riesce a tenere lo stile di canto lirico praticamente ovunque, anche a velocità che sarebbero proibitive per gran parte delle sue colleghe. La supremazia vocale di Siegfried Samer rispetto ai due cantanti che l'hanno preceduto non è altrettanto marcata, ma il nuovo vocalist si dimostra almeno allo stesso livello degli altri, riuscendo così a non far rimpiangere le formazioni passate.
Ovviamente questo EP è solo un riempitivo nella discografia dei Visions of Atlantis che aveva come scopo quello di interrompere un silenzio che durava dal 2013. Ma da questo piccolo esperimento possiamo constatare come le premesse per il futuro siano ottime. Sebbene Old Routes - New Waters non sarà una pietra miliare della discografia del gruppo, lascia almeno la speranza che il prossimo album sarà invece l'ennesimo ottimo lavoro.
sabato 7 gennaio 2017
Rolling Stones - Blue & Lonesome
Il 2016 ha visto il ritorno dei leggendari Rolling Stones, band dall'incredibile longevità che di certo non ha bisogno di presentazioni. Il nuovo album del gruppo di Mick Jagger si intitola Blue & Lonesome ed è il primo disco interamente di cover del quartetto inglese. I Rolling Stones fanno una scelta coraggiosa decidendo di reincidere dodici classici del blues di Chicago, spaziando da Little Walter a Magic Sam fino ad Howlin' Wolf. Prima di Blue & Lonesome l'album dei Rolling Stones che conteneva più cover era il loro eponimo disco di esordio del 1964 che ne conteneva nove più tre inediti.
Se da un lato la scelta di attingere dal blues di Chicago può sorprendere, perché il gusto degli ascoltatori moderni è molto lontano da quel genere musicale, dall'altro non va dimenticato che la carriera dei Rolling Stones prese le mosse proprio da quel repertorio come confermato dal suono dei loro dischi della origini ma soprattutto dal fatto che il nome stesso della band è tratto dal 45giri Rollin' Stone di Muddy Waters.
Il gruppo interpreta i classici mantenendo le melodie fedeli a quelle degli interpreti storici facendo anche grande uso dell'armonica, suonata da Mick Jagger che in questo disco non suona la chitarra, e delle chitarre in stile blues grazie anche alla presenza di Eric Clapton, ospite d'eccezione in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor e I Can't Quit You Baby di Willie Dixon. La fedeltà agli originali è tale da regalare a questo disco un pregio di grande valore: l'album suona vecchio. I pezzi suonati dagli Stones non sembrano cover nuove di brani classici, ma pezzi presi di peso dalla Chicago degli anni 50 e trapiantati ai nostri giorni. Trattandosi di classici della musica è davvero arduo individuare pezzi migliori di altri perché ci troviamo davanti a dodici tracce da ascoltare e che trasportano in luoghi e tempi lontani interpretate con grande maestria da quattro leggende della musica.
Se proprio dovessimo scegliere i brani migliori di questo disco la scelta cadrebbe su Just a Fool di Buddy Johnson, qui interpretata nella versione di Little Walter, e I Gotta Go ancora di Little Walter per via del suono dell'armonica che non può mancare nei pezzi di Walter. Di grande impatto è anche la già citata Everybody Knows About My Good Thing grazie alla tecnica della slide guitar eseguita magistralmente da Clapton.
Il disco è stato registrato il soli tre giorni nel dicembre del 2015 e rende un bellissimo omaggio a un genere musicale da cui è nata ogni forma di musica moderna. La nostra speranza è che Blue & Lonesome possa far conoscere questi classici e i loro autori alle nuove generazioni, perché a chi non conosce il blues di Chicago manca una bella fetta delle basi per capire tutto ciò che è venuto dopo e che esiste oggi.
Se da un lato la scelta di attingere dal blues di Chicago può sorprendere, perché il gusto degli ascoltatori moderni è molto lontano da quel genere musicale, dall'altro non va dimenticato che la carriera dei Rolling Stones prese le mosse proprio da quel repertorio come confermato dal suono dei loro dischi della origini ma soprattutto dal fatto che il nome stesso della band è tratto dal 45giri Rollin' Stone di Muddy Waters.
Il gruppo interpreta i classici mantenendo le melodie fedeli a quelle degli interpreti storici facendo anche grande uso dell'armonica, suonata da Mick Jagger che in questo disco non suona la chitarra, e delle chitarre in stile blues grazie anche alla presenza di Eric Clapton, ospite d'eccezione in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor e I Can't Quit You Baby di Willie Dixon. La fedeltà agli originali è tale da regalare a questo disco un pregio di grande valore: l'album suona vecchio. I pezzi suonati dagli Stones non sembrano cover nuove di brani classici, ma pezzi presi di peso dalla Chicago degli anni 50 e trapiantati ai nostri giorni. Trattandosi di classici della musica è davvero arduo individuare pezzi migliori di altri perché ci troviamo davanti a dodici tracce da ascoltare e che trasportano in luoghi e tempi lontani interpretate con grande maestria da quattro leggende della musica.
Se proprio dovessimo scegliere i brani migliori di questo disco la scelta cadrebbe su Just a Fool di Buddy Johnson, qui interpretata nella versione di Little Walter, e I Gotta Go ancora di Little Walter per via del suono dell'armonica che non può mancare nei pezzi di Walter. Di grande impatto è anche la già citata Everybody Knows About My Good Thing grazie alla tecnica della slide guitar eseguita magistralmente da Clapton.
Il disco è stato registrato il soli tre giorni nel dicembre del 2015 e rende un bellissimo omaggio a un genere musicale da cui è nata ogni forma di musica moderna. La nostra speranza è che Blue & Lonesome possa far conoscere questi classici e i loro autori alle nuove generazioni, perché a chi non conosce il blues di Chicago manca una bella fetta delle basi per capire tutto ciò che è venuto dopo e che esiste oggi.
lunedì 5 dicembre 2016
Giacomo Voli - Milano, 3/12/2016
Non avevo mai visto Giacomo Voli dal vivo, non avevo mai assistito a un concerto in acustico, non ero mai stato al The Boss di Milano. E quindi non sapevo proprio cosa aspettarmi da questa serata di rock italiano unplugged.
Il locale nel cuore di Milano è molto raccolto e l'esibizione si è svolta nella sala sotterranea, al termine della cena al piano di sopra dove Giacomo girava tra i tavoli dimostrando molta vicinanza ai suoi fan e anche una bella dose di simpatia che rende il tutto più divertente. E quando si sono accese le luci rosse sul piccolo palco del The Boss, Giacomo ha creato un'atmosfera magica appena ha appoggiato le dita sulla tastiera per iniziare la propria esibizione con Gethsemane tratto da Jesus Christ Superstar per poi proseguire con oltre due ore di musica attingendo da un repertorio vastissimo che spazia dai Deep Purple, ai Queen, passando per Bob Dylan e i Pink Floyd e tra questi non sono mancati alcuni omaggi alla migliore musica italiana con brani della PFM, di Mia Martini e dei Litfiba. Il tutto rigorosamente unplugged. Giacomo si accompagna alla tastiera o alla chitarra e per gran parte dello spettacolo è affiancato alla chitarra e alle seconde voci da Riccardo Bacchi, chitarrista della GV Band. In due pezzi Giacomo ha duettato anche con le voci femminili di Chiara Tricarico dei Temperance in Lost Words of Forgiveness dei TeodasiA e di Francesca Mercury in Somebody to Love dei Queen. Oltre ai pezzi delle grandi leggende della musica Giacomo ha proposto anche quelli del suo EP Ancora nell'Ombra e alcuni inediti scritti da lui stesso e da Riccardo Bacchi.
Tutto il concerto si è svolto in un'atmosfera molto amichevole e casalinga, quasi come in una serata tra amici che si ritrovano a condividere un po' di buona musica, con Giacomo che coinvolge il pubblico sui brani più noti e corali, come Hush dei Deep Purple o la già citata Somebody to Love. Ma oltre a creare un ambiente intimo, Voli dà in ogni pezzo una prova della sua voce potente e dall'estensione incredibile capace di raggiungere vette altissime e anche tonalità basse con grande efficacia. Giacomo chiude il concerto con Life on Mars di David Bowie, eseguita anche a The Voice, prima che il pubblico gli chieda un inevitabile bis perché il concerto è stato troppo bello e nessuno ha voglia di andare a casa. La richiesta viene esaudita con due pezzi: il Nessun Dorma di Puccini e Child in Time dei Deep Purple nel quale Giacomo si esibisce in un vocalizzo incredibile nel quale si lancia in un fantastico sovracuto.
Prima di entrare al The Boss non sapevo cosa aspettarmi e forse è stato meglio così, perché le emozioni della buona musica non si possono prevedere. La musica è fatta di spontaneità e delle emozioni che i grandi interpreti sanno creare, e Giacomo Voli è sicuramente uno dei migliori nel panorama rock nostrano.
Il locale nel cuore di Milano è molto raccolto e l'esibizione si è svolta nella sala sotterranea, al termine della cena al piano di sopra dove Giacomo girava tra i tavoli dimostrando molta vicinanza ai suoi fan e anche una bella dose di simpatia che rende il tutto più divertente. E quando si sono accese le luci rosse sul piccolo palco del The Boss, Giacomo ha creato un'atmosfera magica appena ha appoggiato le dita sulla tastiera per iniziare la propria esibizione con Gethsemane tratto da Jesus Christ Superstar per poi proseguire con oltre due ore di musica attingendo da un repertorio vastissimo che spazia dai Deep Purple, ai Queen, passando per Bob Dylan e i Pink Floyd e tra questi non sono mancati alcuni omaggi alla migliore musica italiana con brani della PFM, di Mia Martini e dei Litfiba. Il tutto rigorosamente unplugged. Giacomo si accompagna alla tastiera o alla chitarra e per gran parte dello spettacolo è affiancato alla chitarra e alle seconde voci da Riccardo Bacchi, chitarrista della GV Band. In due pezzi Giacomo ha duettato anche con le voci femminili di Chiara Tricarico dei Temperance in Lost Words of Forgiveness dei TeodasiA e di Francesca Mercury in Somebody to Love dei Queen. Oltre ai pezzi delle grandi leggende della musica Giacomo ha proposto anche quelli del suo EP Ancora nell'Ombra e alcuni inediti scritti da lui stesso e da Riccardo Bacchi.
Tutto il concerto si è svolto in un'atmosfera molto amichevole e casalinga, quasi come in una serata tra amici che si ritrovano a condividere un po' di buona musica, con Giacomo che coinvolge il pubblico sui brani più noti e corali, come Hush dei Deep Purple o la già citata Somebody to Love. Ma oltre a creare un ambiente intimo, Voli dà in ogni pezzo una prova della sua voce potente e dall'estensione incredibile capace di raggiungere vette altissime e anche tonalità basse con grande efficacia. Giacomo chiude il concerto con Life on Mars di David Bowie, eseguita anche a The Voice, prima che il pubblico gli chieda un inevitabile bis perché il concerto è stato troppo bello e nessuno ha voglia di andare a casa. La richiesta viene esaudita con due pezzi: il Nessun Dorma di Puccini e Child in Time dei Deep Purple nel quale Giacomo si esibisce in un vocalizzo incredibile nel quale si lancia in un fantastico sovracuto.
Prima di entrare al The Boss non sapevo cosa aspettarmi e forse è stato meglio così, perché le emozioni della buona musica non si possono prevedere. La musica è fatta di spontaneità e delle emozioni che i grandi interpreti sanno creare, e Giacomo Voli è sicuramente uno dei migliori nel panorama rock nostrano.
lunedì 28 novembre 2016
Medina Azahara - Paraiso Prohibido
Il 2016 ha visto il ritorno degli andalusi Medina Azahara a due anni di distanza dal precedente LP Las Puertas del Cielo. Il nuovo album è intitolato Paraiso Prohibido e ripropone senza variazioni sostanziali la formula storica della musica della band che sicuramente non ha bisogno di grandi modifiche visto che è caratterizzata da un suono unico al mondo e davvero molto interessante e di grande impatto. Il gruppo capitanato da Manuel Martinez torna infatti con un hard rock energico e ricco di influenze arabe e mediorientali sia nel cantato sia nella musica.
L'album è stato anticipato dalla pubblicazione online di due singoli. Il primo di essi è Ven Junto a Mi, che apre l'album dopo l'introduzione, e la scelta è incomprensibile perché nonostante sia molto ricco di atmosfere arabe è il pezzo più debole dell'album per via delle strofe che suonano molto forzate, ma per fortuna, come vedremo, è l'unico momento dell'album di livello più basso. Il secondo singolo pubblicato in anticipo è El Cielo a Tus Pies, una ballad che prosegue sulla strada delle precedenti dei Medina Azahara, che nei loro quasi quarant'anni di carriera hanno fatto dei lenti uno dei loro marchi di fabbrica.
In totale il disco è composto di 14 tracce che, tolta la poco convincente Ven Junto a Mi, sono di altissimo livello e consentono alla band di creare l'ennesimo ottimo disco. Le atmosfere arabeggianti dominano soprattutto in Ella Es e Y Asi Nacio el Amor, due pezzi affascinanti e trascinanti dal ritmo sostenuto. Nel disco sono presenti anche ben cinque ballad: Busca Tu Fe, Cuando Estoy a Solas, El Dolor de Mi Alma, Mira Las Estrellas e la già citata El Cielo a Tus Pies.
I brani veloci dell'album sono spesso dominati dal suono delle tastiere accostato a quello delle chitarre a creare una buona commistione di energia e melodia. Tra questi troviamo la potente e gioiosa Recordando Esa Noche, Vive la Vida Cantando e Ponte en Pie. Tra i brani più sostenuti meritano una menzione particolare anche le due trascinanti tracce che chiudono il disco: Puñaladas en la Oscuridad e Sonrie.
Con Paraiso Prohibido i Medina Azahara sfornano uno dei migliori dischi della loro carriera e nonostante il passare degli anni la band non rallenta la frequenza e la qualità delle proprie produzioni. E' veramente un peccato che un gruppo di questo livello sia praticamente ignoto al di fuori della Spagna perché il loro stile non ha eguali al mondo e come confermato da questo nuovo album, il loro diciannovesimo in studio, meriterebbero a pieno titolo di essere annoverati tra i migliori esponenti dell'hard rock del pianeta.
L'album è stato anticipato dalla pubblicazione online di due singoli. Il primo di essi è Ven Junto a Mi, che apre l'album dopo l'introduzione, e la scelta è incomprensibile perché nonostante sia molto ricco di atmosfere arabe è il pezzo più debole dell'album per via delle strofe che suonano molto forzate, ma per fortuna, come vedremo, è l'unico momento dell'album di livello più basso. Il secondo singolo pubblicato in anticipo è El Cielo a Tus Pies, una ballad che prosegue sulla strada delle precedenti dei Medina Azahara, che nei loro quasi quarant'anni di carriera hanno fatto dei lenti uno dei loro marchi di fabbrica.
In totale il disco è composto di 14 tracce che, tolta la poco convincente Ven Junto a Mi, sono di altissimo livello e consentono alla band di creare l'ennesimo ottimo disco. Le atmosfere arabeggianti dominano soprattutto in Ella Es e Y Asi Nacio el Amor, due pezzi affascinanti e trascinanti dal ritmo sostenuto. Nel disco sono presenti anche ben cinque ballad: Busca Tu Fe, Cuando Estoy a Solas, El Dolor de Mi Alma, Mira Las Estrellas e la già citata El Cielo a Tus Pies.
I brani veloci dell'album sono spesso dominati dal suono delle tastiere accostato a quello delle chitarre a creare una buona commistione di energia e melodia. Tra questi troviamo la potente e gioiosa Recordando Esa Noche, Vive la Vida Cantando e Ponte en Pie. Tra i brani più sostenuti meritano una menzione particolare anche le due trascinanti tracce che chiudono il disco: Puñaladas en la Oscuridad e Sonrie.
Con Paraiso Prohibido i Medina Azahara sfornano uno dei migliori dischi della loro carriera e nonostante il passare degli anni la band non rallenta la frequenza e la qualità delle proprie produzioni. E' veramente un peccato che un gruppo di questo livello sia praticamente ignoto al di fuori della Spagna perché il loro stile non ha eguali al mondo e come confermato da questo nuovo album, il loro diciannovesimo in studio, meriterebbero a pieno titolo di essere annoverati tra i migliori esponenti dell'hard rock del pianeta.
lunedì 21 novembre 2016
Europe The Final Countdown Tour - Milano, 20/11/2016
The Final Countdown è il primo album che ho comprato nella mia vita, avevo otto anni. Da allora è indiscutibilmente il disco più famoso e iconico che gli Europe abbiano mai realizzato, e probabilmente è anche l'unico che gran parte della folla stipata all'Alcatraz conosceva. La scelta del gruppo di intitolare The Final Countdown Tour la loro attuale tournée suggerisce proprio questo e se da un lato questo celeberrimo LP ha consentito al quintetto di Stoccolma di raggiungere la fama mondiale di cui gode, è anche vero che lo stesso disco mette troppo spesso in ombra gli altri capolavori degli Europe che, beninteso, nella loro lunga carriera hanno inanellato una bella serie di successi discografici e Out of This World, Prisoners in Paradise, Bag of Bones e il più recente War of Kings sono capolavori del rock dello stesso valore di The Final Countdown. Forse solo Secret Society del 2006 è stato leggermente inferiore alle aspettative, ma per il resto gli Europe non hanno mai sbagliato un disco.
In questo tour il gruppo ha operato una scelta atipica e coraggiosa: eseguire solo due album e per intero. Lo spettacolo è infatti nettamente diviso in due: nella prima metà la band esegue tutto War of Kings e nella seconda metà esegue proprio The Final Countdown suonando i pezzi nello stesso ordine in cui compaiono nel disco. Fa sorridere che, avendo subito contestazioni dal pubblico che non conosceva War of Kings nella date precedenti, il gruppo è costretto sia spiegare questa scelta prima ancora di iniziare a suonare. Ma a parte le contestazioni di chi non conosce molto la carriera degli Europe, fortunatamente e senza troppi giri di parole, è stato un concerto semplicemente perfetto, la band convince sotto tutti i punti di vista, con l'energia travolgente del loro hard rock che scorre a fiumi invadendo la folla sia sui brani lenti sia su quelli energici.
Joey Tempest affronta il caldo infernale dell'Alcatraz con una giacca di pelle borchiata chiaramente ispirata, se non risalente, agli anni 80. La prima ora del concerto è contraddistinto dalle sonorità hard & heavy ricche di venature blues come nella tradizione dei mostri sacri degni anni 70 come i Rainbow o Whitesnake a cui si ispira War of Kings. La seconda è invece caratterizzata dall'AOR più melodico, ricco di tastiere e delle emozioni di trent'anni fa. Joey coinvolge a più riprese il pubblico, facendogli cantare ponti e ritornelli, e si avvicina a toccare le mani dei fans più vicini al palco ritardando in un occasione la ripresa del canto dopo uno stacco musicale. Il cantante prova anche a dire qualche parola in italiano e gli riesce piuttosto bene con l'esperimento che viene accolto con calore e affetto dalla folla. Dal punto di vista dell'energia, della precisione dei musicisti e della voce di Tempest, gli ultimi trent'anni sembrano non essere passati. In particolare la potenza vocale di Joey non è minimamente intaccata dagli anni che passano.
Resta forse un solo rimpianto in quella magica serata dell'Alcatraz: quello di notare come la folla conosca solo i testi dei pezzi di The Final Countdown e faccia fatica a seguire quelli di War of Kings. Viene da chiedersi se conoscano gli altri dischi degli Europe e forse è meglio continuare a non saperlo. E' un po' sconsolante vedere che gran parte degli sforzi musicali del gruppo vengano ignorati dal grande pubblico, non ci resta che la speranza che il bellissimo concerto milanese abbia lasciato la curiosità al pubblico di andare a scoprire che la band di Joey Tempest ha composto molti dischi di grande valore oltre al celeberrimo The Final Countdown.
In questo tour il gruppo ha operato una scelta atipica e coraggiosa: eseguire solo due album e per intero. Lo spettacolo è infatti nettamente diviso in due: nella prima metà la band esegue tutto War of Kings e nella seconda metà esegue proprio The Final Countdown suonando i pezzi nello stesso ordine in cui compaiono nel disco. Fa sorridere che, avendo subito contestazioni dal pubblico che non conosceva War of Kings nella date precedenti, il gruppo è costretto sia spiegare questa scelta prima ancora di iniziare a suonare. Ma a parte le contestazioni di chi non conosce molto la carriera degli Europe, fortunatamente e senza troppi giri di parole, è stato un concerto semplicemente perfetto, la band convince sotto tutti i punti di vista, con l'energia travolgente del loro hard rock che scorre a fiumi invadendo la folla sia sui brani lenti sia su quelli energici.
Joey Tempest affronta il caldo infernale dell'Alcatraz con una giacca di pelle borchiata chiaramente ispirata, se non risalente, agli anni 80. La prima ora del concerto è contraddistinto dalle sonorità hard & heavy ricche di venature blues come nella tradizione dei mostri sacri degni anni 70 come i Rainbow o Whitesnake a cui si ispira War of Kings. La seconda è invece caratterizzata dall'AOR più melodico, ricco di tastiere e delle emozioni di trent'anni fa. Joey coinvolge a più riprese il pubblico, facendogli cantare ponti e ritornelli, e si avvicina a toccare le mani dei fans più vicini al palco ritardando in un occasione la ripresa del canto dopo uno stacco musicale. Il cantante prova anche a dire qualche parola in italiano e gli riesce piuttosto bene con l'esperimento che viene accolto con calore e affetto dalla folla. Dal punto di vista dell'energia, della precisione dei musicisti e della voce di Tempest, gli ultimi trent'anni sembrano non essere passati. In particolare la potenza vocale di Joey non è minimamente intaccata dagli anni che passano.
Resta forse un solo rimpianto in quella magica serata dell'Alcatraz: quello di notare come la folla conosca solo i testi dei pezzi di The Final Countdown e faccia fatica a seguire quelli di War of Kings. Viene da chiedersi se conoscano gli altri dischi degli Europe e forse è meglio continuare a non saperlo. E' un po' sconsolante vedere che gran parte degli sforzi musicali del gruppo vengano ignorati dal grande pubblico, non ci resta che la speranza che il bellissimo concerto milanese abbia lasciato la curiosità al pubblico di andare a scoprire che la band di Joey Tempest ha composto molti dischi di grande valore oltre al celeberrimo The Final Countdown.
domenica 13 novembre 2016
Litfiba - Eutòpia
Sono trascorsi quasi cinque anni dal lontano 17 gennaio del 2012 quando uscì Grande Nazione, il primo album in studio successivo alla reunion tra Ghigo Renzulli e Piero Pelù seguito a un allontanamento artistico durato dieci anni. E finalmente dopo una lunga attesa arriva il nuovo album dei Litfiba intitolato Eutòpia che prima ancora che per la musica colpisce per la bellissima grafica caratterizzata da un'atmosfera steampunk che pervade tutte le foto di copertina e del libretto.
Il disco è composto da dieci pezzi (più due disponibili solo nella versione in vinile) di puro hard rock sfrenato e trascinante. Il pezzo di apertura intitolato Dio del Tuono dà l'avvio all'album in grande stile con sonorità che corrispondono al titolo grazie a un suono tonante contraddistinto da duri riff di chitarra e dalla potente voce di Piero che nel finale di lancia in un lungo e poderoso urlo a metà tra uno scream metal e un acuto lirico.
La band si avventura anche in alcune sperimentazioni musicali toccando campi inesplorati in passato (pur avendo nei suoi 35 anni di attività esplorato stili di rock diversissimi) e riprende anche esperimenti sonori già provati in passato. Due pezzi iniziano con un fischio di parte di Piero, esperimento già provato in Spirito e Il Mio Corpo Che Cambia. Il primo di questi è Maria Coraggio, dedicato alla memoria di Lea Garofalo e pubblicato su internet la settimana prima dell'uscita dell'album; il secondo è Straniero che è l'unica vera ballad del disco dal sapore decisamente western. Altro brano piuttosto lento, almeno sulle strofe, è Intossicato, il cui ritornello accelera notevolmente a creare un brano dalla doppia faccia e di grande effetto grazie al netto cambio di tempo.
Ritmi lenti si trovano anche nella title track che chiude l'edizione in CD, anche questa parte lenta come una ballad per poi assestarsi su ritmi midtempo.
Due brani iniziano con un cantato più basso e ruvido di quanto Piero abbia mai fatto in questi quasi quattro decenni di carriera. Il primo di essi è Santi di Periferia, travolgente rock che per il suo ritmo saltellante vira verso il funk. Il secondo è l'aspro In Nome di Dio, che condanna ogni tipo di fanatismo religioso. Nel disco troviamo anche l'ottima L'Impossibile, rilasciata su internet un mese prima del resto dell'album, un hard rock energico impreziosito da un bel coro sull'ultimo ponte.
Tra i brani degni di nota troviamo anche la grintosa Gorilla Go che parla degli arrivisti che avanzano a spallate usando la metafora del mondo calcistico, riprendendo così sia le tematiche di Nuovi Rampanti sia quelle di Diavolo Illuso. Ottimo brano è anche Oltre che unisce chitarre che ricordano le colonne sonore di Morricone a uno stile musicale e canoro che tende con forza verso il punk.
Come anticipato, nella versione in vinile sono presenti due tracce strumentali in più. La prima è intitolata La Danza di Minerva ed è stata scritta da Ghigo, anch'essa ha un retrogusto western grazie al suono leggero delle chitarre e propone la base per la melodia di quello che poi sarebbe diventato L'Impossibile. La seconda si intitola Tu Non C'eri ed è stata scritta da Piero come colonna sonora del film omonimo di Erri De Luca interpretato proprio da Piero.
In sintesi Eutòpia è un vero capolavoro di rock sanguigno a 360 gradi. Il disco convince sotto tutti i punti di vista, sia per la qualità sia per la varietà dei suoni proposti. Da anni i fan dei Litfiba dibattono su quale sia il miglior album della band fiorentina, tra i sostenitori della trilogia del potere e quelli della quadrilogia degli elementi, e da oggi questa insolita competizione ha un nuovo contendente, perché Eutòpia è davvero un album stellare che metterà tutti d'accordo.
Il disco è composto da dieci pezzi (più due disponibili solo nella versione in vinile) di puro hard rock sfrenato e trascinante. Il pezzo di apertura intitolato Dio del Tuono dà l'avvio all'album in grande stile con sonorità che corrispondono al titolo grazie a un suono tonante contraddistinto da duri riff di chitarra e dalla potente voce di Piero che nel finale di lancia in un lungo e poderoso urlo a metà tra uno scream metal e un acuto lirico.
La band si avventura anche in alcune sperimentazioni musicali toccando campi inesplorati in passato (pur avendo nei suoi 35 anni di attività esplorato stili di rock diversissimi) e riprende anche esperimenti sonori già provati in passato. Due pezzi iniziano con un fischio di parte di Piero, esperimento già provato in Spirito e Il Mio Corpo Che Cambia. Il primo di questi è Maria Coraggio, dedicato alla memoria di Lea Garofalo e pubblicato su internet la settimana prima dell'uscita dell'album; il secondo è Straniero che è l'unica vera ballad del disco dal sapore decisamente western. Altro brano piuttosto lento, almeno sulle strofe, è Intossicato, il cui ritornello accelera notevolmente a creare un brano dalla doppia faccia e di grande effetto grazie al netto cambio di tempo.
Ritmi lenti si trovano anche nella title track che chiude l'edizione in CD, anche questa parte lenta come una ballad per poi assestarsi su ritmi midtempo.
Due brani iniziano con un cantato più basso e ruvido di quanto Piero abbia mai fatto in questi quasi quattro decenni di carriera. Il primo di essi è Santi di Periferia, travolgente rock che per il suo ritmo saltellante vira verso il funk. Il secondo è l'aspro In Nome di Dio, che condanna ogni tipo di fanatismo religioso. Nel disco troviamo anche l'ottima L'Impossibile, rilasciata su internet un mese prima del resto dell'album, un hard rock energico impreziosito da un bel coro sull'ultimo ponte.
Tra i brani degni di nota troviamo anche la grintosa Gorilla Go che parla degli arrivisti che avanzano a spallate usando la metafora del mondo calcistico, riprendendo così sia le tematiche di Nuovi Rampanti sia quelle di Diavolo Illuso. Ottimo brano è anche Oltre che unisce chitarre che ricordano le colonne sonore di Morricone a uno stile musicale e canoro che tende con forza verso il punk.
Come anticipato, nella versione in vinile sono presenti due tracce strumentali in più. La prima è intitolata La Danza di Minerva ed è stata scritta da Ghigo, anch'essa ha un retrogusto western grazie al suono leggero delle chitarre e propone la base per la melodia di quello che poi sarebbe diventato L'Impossibile. La seconda si intitola Tu Non C'eri ed è stata scritta da Piero come colonna sonora del film omonimo di Erri De Luca interpretato proprio da Piero.
In sintesi Eutòpia è un vero capolavoro di rock sanguigno a 360 gradi. Il disco convince sotto tutti i punti di vista, sia per la qualità sia per la varietà dei suoni proposti. Da anni i fan dei Litfiba dibattono su quale sia il miglior album della band fiorentina, tra i sostenitori della trilogia del potere e quelli della quadrilogia degli elementi, e da oggi questa insolita competizione ha un nuovo contendente, perché Eutòpia è davvero un album stellare che metterà tutti d'accordo.
mercoledì 9 novembre 2016
Alicia Keys - Here
Il suono del nuovo album di Alicia Keys rispecchia perfettamente la foto in copertina della cantante, che alcuni mesi fa ha lanciato la campagna #nomakeup dopo essere apparsa senza trucco ai Video Music Awards di MTV: struccata, spettinata e senza abiti o gioielli di lusso, ma pur sempre bellissima. La musica contenuta nell'album è altrettanto grezza, diretta e a tratti ruvida, e anche in questo caso Alicia Keys riesce nel compito di realizzare un ottimo album in cui dimostra di sapersi muovere bene anche in terreni diversi da quelli percorsi fin'ora.
L'album si intitola Here ed è stato pubblicato il 4 novembre di quest'anno. E' composto da 18 brani nella versione deluxe, 16 in quella standard, di cui cinque interludi. Ciò che si nota già dal primo ascolto è che i pezzi non sono più retti solo dal suono del piano suonato dalla stessa Alicia, ma questo lascia molto spazio alle chitarre e alle percussioni risultando così in un suono più duro. L'album si apre con The Gospel che narra uno spaccato di vita del ghetto e la cui base è fatta da uno staccato al pianoforte e dal suono ossessivo della batteria. La tematica della vita del ghetto e delle sue difficoltà è ripresa anche in Blended Family, che vede la presenza come ospite del rapper A$AP Rocky, la cui musica si basa invece fortemente sulle chitarre. Tra gli altri pezzi in cui le chitarre dominano troviamo l'ecologista Kill Your Mother, composto solo di chitarra e voce, che è il pezzo più aspro e ruvido dell'intero disco. Di tutt'altro genere è Girl Can't Be Herself che pur essendo anch'essa retta delle chitarre tende fortemente verso il reggae (campo in cui Alicia si era già avventurata con un celeberrimo remix di You Don't Know My Name) e tratta proprio della scelta di rinunciare al trucco per esporre la propria vera personalità. Anche Holy War, in cui la cantante si chiede perché parlare di sesso sia osceno mentre parlare di guerra è accettato, è basata su chitarra e percussione, anche se il pezzo ha la struttura di una ballad e dal punto di vista canoro da modo ad Alicia di mostrare almeno in parte la sua estensione vocale.
Come anticipato, il pianoforte non viene comunque abbandonato e troviamo dei pezzi più vicini al repertorio passato di Alicia come Pawn It All (il cui sono tende fortemente verso l'hip hop) e la melodica Where Do We Begin Now. Nel disco è presente un secondo pezzo decisamenrte hip hop intitolato She Don't Really Care_1 Luv (che contiene un campionamento di One Love di Nas) in cui Alicia descrive come esistano forti connessioni tra le donne nere nate nei cinque distretti di New York e quelle nate in Africa. Merita una menzione particolare anche la lenta e rabbiosa Illusion of Bliss che narra della difficoltà dell'uscire dal tunnel della droga.
Rispetto all'edizione standard, la versione deluxe contiene due tracce in più. La prima di esse si intitola Hallelujah ed è di nuovo piuttosto vicina alle produzioni passate di Alicia, con un cantato morbido sulla base del piano. Il secondo si intitola In Common e vira con forza verso atmosfere ambient e dance, il pezzo era stato pubblicato a maggio come singolo e la scelta è davvero incomprensibile perché si tratta del più debole dell'intero disco.
Alcuni critici hanno paragonato questo album a The Miseducation of Lauryn Hill, ma il paragone è assolutamente ingiusto nei confronti di Alicia. Anzitutto la Keys ha registrato molti più album di Lauryn Hill (anche includendo quelli dei Fugees), in secondo luogo The Miseducation è ricchissimo di campionamenti, mentre le basi di Here (ad esclusione della già citata She Don't Really Care_1 Luv) sono suonate interamente dai musicisti reclutati dalla cantante. Lauryn Hill esce irrimediabilmente sconfitta da questo confronto.
Dopo aver ascoltato questo album ciò che emerge con forza è la prova di grandissima ecletticità di Alicia Keys, il cui sesto album è un altro grande capolavoro dell'R&B e del soul con il quale dimostra che, con o senza trucco, resta la regina incontrastata della musica nera.
L'album si intitola Here ed è stato pubblicato il 4 novembre di quest'anno. E' composto da 18 brani nella versione deluxe, 16 in quella standard, di cui cinque interludi. Ciò che si nota già dal primo ascolto è che i pezzi non sono più retti solo dal suono del piano suonato dalla stessa Alicia, ma questo lascia molto spazio alle chitarre e alle percussioni risultando così in un suono più duro. L'album si apre con The Gospel che narra uno spaccato di vita del ghetto e la cui base è fatta da uno staccato al pianoforte e dal suono ossessivo della batteria. La tematica della vita del ghetto e delle sue difficoltà è ripresa anche in Blended Family, che vede la presenza come ospite del rapper A$AP Rocky, la cui musica si basa invece fortemente sulle chitarre. Tra gli altri pezzi in cui le chitarre dominano troviamo l'ecologista Kill Your Mother, composto solo di chitarra e voce, che è il pezzo più aspro e ruvido dell'intero disco. Di tutt'altro genere è Girl Can't Be Herself che pur essendo anch'essa retta delle chitarre tende fortemente verso il reggae (campo in cui Alicia si era già avventurata con un celeberrimo remix di You Don't Know My Name) e tratta proprio della scelta di rinunciare al trucco per esporre la propria vera personalità. Anche Holy War, in cui la cantante si chiede perché parlare di sesso sia osceno mentre parlare di guerra è accettato, è basata su chitarra e percussione, anche se il pezzo ha la struttura di una ballad e dal punto di vista canoro da modo ad Alicia di mostrare almeno in parte la sua estensione vocale.
Come anticipato, il pianoforte non viene comunque abbandonato e troviamo dei pezzi più vicini al repertorio passato di Alicia come Pawn It All (il cui sono tende fortemente verso l'hip hop) e la melodica Where Do We Begin Now. Nel disco è presente un secondo pezzo decisamenrte hip hop intitolato She Don't Really Care_1 Luv (che contiene un campionamento di One Love di Nas) in cui Alicia descrive come esistano forti connessioni tra le donne nere nate nei cinque distretti di New York e quelle nate in Africa. Merita una menzione particolare anche la lenta e rabbiosa Illusion of Bliss che narra della difficoltà dell'uscire dal tunnel della droga.
Rispetto all'edizione standard, la versione deluxe contiene due tracce in più. La prima di esse si intitola Hallelujah ed è di nuovo piuttosto vicina alle produzioni passate di Alicia, con un cantato morbido sulla base del piano. Il secondo si intitola In Common e vira con forza verso atmosfere ambient e dance, il pezzo era stato pubblicato a maggio come singolo e la scelta è davvero incomprensibile perché si tratta del più debole dell'intero disco.
Alcuni critici hanno paragonato questo album a The Miseducation of Lauryn Hill, ma il paragone è assolutamente ingiusto nei confronti di Alicia. Anzitutto la Keys ha registrato molti più album di Lauryn Hill (anche includendo quelli dei Fugees), in secondo luogo The Miseducation è ricchissimo di campionamenti, mentre le basi di Here (ad esclusione della già citata She Don't Really Care_1 Luv) sono suonate interamente dai musicisti reclutati dalla cantante. Lauryn Hill esce irrimediabilmente sconfitta da questo confronto.
Dopo aver ascoltato questo album ciò che emerge con forza è la prova di grandissima ecletticità di Alicia Keys, il cui sesto album è un altro grande capolavoro dell'R&B e del soul con il quale dimostra che, con o senza trucco, resta la regina incontrastata della musica nera.
lunedì 7 novembre 2016
Kenny Chesney - Cosmic Hallelujah
Il nuovo album di Kenny Chesney, il diciassettesimo della sua carriera, avrebbe dovuto uscire l'8 luglio di quest'anno con il titolo Some Town Somewhere. Da allora ha cambiato sia titolo sia data di uscita, ed è stato finalmente pubblicato il 28 ottobre con il titolo di Cosmic Hallelujah. Ma a parte il titolo e la data di pubblicazione quello che conta è che a oltre vent'anni dall'esordio la musica di Kenny Chesney non conosce cali di qualità o momenti di noia, e anche questo nuovo disco ci regala dodici pezzi di altissimo livello.
La formula resta quella a cui il cantante di Knoxville ci ha abituato, con del country divertente e veloce caratterizzato da un buon equilibrio tra energia e melodia. L'uscita dell'album era stata anticipata dalla pubblicazione di due singoli. Il primo di questi è il midtempo Noise, pubblicato a marzo, la cui scelta è davvero incomprensibile visto che si tratta del brano più debole dell'intero disco. Il secondo singolo intitolato Setting the World on Fire è stato pubblicato a luglio ed è ancora un midtempo che vede la presenza come ospite di Pink che nonostante non sia certo una cantante da Hall of Fame qui se la cava alla grande e il brano è di ottimo impatto.
E' difficile individuare pezzi migliori di altri in questo album, sicuramente le allegre Trip Around The Sun e All the Pretty Girls che aprono il disco meritano una menzione per l'atmosfera festaiola che creano e per i riff di chitarra puramente country da cui sono contraddistinti. Merita una menzione anche la trascinante Bar at the End on the World che è forse il pezzo più energico dell'intero album.
L'album presenta poi quattro ballad consecutive, tutte dalle sonorità fortemente country grazie al suono leggero delle chitarre, intitolate Rich and Miserable (l'unico pezzo oltre a Noise che Kenny avrebbe potuto risparmiare), Jesus & Elvis, Winnebago e Coach ad arricchire notevolmente l'offerta sonora di questo album.
L'album si chiude con la dodicesima traccia, non è listata in copertina, che è una versione bluegrass di I Want to Know What Love Is dei Foreigner. Sicuramente si tratta di un esperimento interessante, ma data la velocità sostenuta perde molta dell'atmosfera che caratterizzava l'originale.
Nonostante nel nostro paese sia praticamente sconosciuto, Kenny Chesney vanta nel suo curriculum collaborazioni con artisti del calibro di Willie Nelson, Uncle Kracker e Kid Rock ed è veramente un peccato che in Italia queste perle di musica americana passino inosservate in favore di musicisti ampiamente inferiori. Speriamo quindi che Cosmic Hallelujah dia modo anche agli ascoltatori nostrani di scoprire un talento immenso come questo che riempie le classifiche americane dal lontano 1994. Meglio tardi che mai.
La formula resta quella a cui il cantante di Knoxville ci ha abituato, con del country divertente e veloce caratterizzato da un buon equilibrio tra energia e melodia. L'uscita dell'album era stata anticipata dalla pubblicazione di due singoli. Il primo di questi è il midtempo Noise, pubblicato a marzo, la cui scelta è davvero incomprensibile visto che si tratta del brano più debole dell'intero disco. Il secondo singolo intitolato Setting the World on Fire è stato pubblicato a luglio ed è ancora un midtempo che vede la presenza come ospite di Pink che nonostante non sia certo una cantante da Hall of Fame qui se la cava alla grande e il brano è di ottimo impatto.
E' difficile individuare pezzi migliori di altri in questo album, sicuramente le allegre Trip Around The Sun e All the Pretty Girls che aprono il disco meritano una menzione per l'atmosfera festaiola che creano e per i riff di chitarra puramente country da cui sono contraddistinti. Merita una menzione anche la trascinante Bar at the End on the World che è forse il pezzo più energico dell'intero album.
L'album presenta poi quattro ballad consecutive, tutte dalle sonorità fortemente country grazie al suono leggero delle chitarre, intitolate Rich and Miserable (l'unico pezzo oltre a Noise che Kenny avrebbe potuto risparmiare), Jesus & Elvis, Winnebago e Coach ad arricchire notevolmente l'offerta sonora di questo album.
L'album si chiude con la dodicesima traccia, non è listata in copertina, che è una versione bluegrass di I Want to Know What Love Is dei Foreigner. Sicuramente si tratta di un esperimento interessante, ma data la velocità sostenuta perde molta dell'atmosfera che caratterizzava l'originale.
Nonostante nel nostro paese sia praticamente sconosciuto, Kenny Chesney vanta nel suo curriculum collaborazioni con artisti del calibro di Willie Nelson, Uncle Kracker e Kid Rock ed è veramente un peccato che in Italia queste perle di musica americana passino inosservate in favore di musicisti ampiamente inferiori. Speriamo quindi che Cosmic Hallelujah dia modo anche agli ascoltatori nostrani di scoprire un talento immenso come questo che riempie le classifiche americane dal lontano 1994. Meglio tardi che mai.
martedì 25 ottobre 2016
Blackberry Smoke - Like an Arrow
Meno di due anni dopo Holding All the Roses, uscito a febbraio del 2015, tornano i Blackberry Smoke con il loro nuovo album in studio intitolato Like an Arrow, pubblicato nell'ottobre di quest'anno. L'album continua sulla strada tracciata dai dischi precedenti della band di Atlanta proponendo un southern rock robusto e melodico al contempo e ricco di suoni diversi.
Il disco parte molto forte con Waiting For the Thunder dalle sonorità sostenute anche se non troppo veloci; da notare che le strofe sono cantante a secco con gli strumenti che suonano solo tra le pause e su ponte e ritornello. Il secondo pezzo intitolato Let It Burn, pubblicato a settembre in anteprima, aggiunge un po' di rock and roll al southern rock e il risultato è decisamente divertente e godibile e anche tendente verso il rock della East Coast visto che in alcuni punti ricorda un po' Already Gone degli Eagles. Con la terza traccia intitolata The Good Life il ritmo rallenta decisamente e troviamo la prima ballad dai suoni piuttosto tradizionali, ma comunque di grande impatto. Il quarto pezzo intitolato What Comes Naturally è invece un midtempo sostenuto dal suono del pianoforte a creare un atmosfera molto southern con un tocco di jazz che arricchisce il pezzo. Segue un altro midtempo intitolato Running Through Time. Al sesto posto troviamo la title track, solo leggermente più veloce delle due precedenti ma dal suono molto più duro, distorto e tendente al grunge sia nella musica che nel canto.
Con Ought To Know i ritmi tornano decisamente a salire con un rock allegro e movimentato ricco di riff di chitarra e di energia. L'ottava traccia è intitolata Sunrise in Texas ed è la più lenta dell'intero disco, con sonorità molto melodiche e tranquille, come si addicono a un risveglio all'alba nei climi caldi del sud degli Stati Uniti. Il nono brano intitolato Ain't Gonna Wait è il più melodico dell'album grazie al suono del tamburello, agli arpeggi di chitarra e al controcanto sul ritornello. Con Workin' For a Workin' Man i ritmi salgono di nuovo e troviamo un brano forte e veloce che esprime grinta ed energia. L'undicesima traccia Believe You Me propone di nuovo un rock and roll con forti innesti di funk che riportano ad atmosfere divertenti e festose e che danno un tocco di musica nera in un album di southern rock. Il brano di chiusura Free on the Wing vede come ospite Greg Allman ed è il pezzo più tradizionale dell'intero disco: molto southern, piuttosto lento e rilassato.
In sintesi, non si può non constatare che i Blackberry Smoke con Like an Arrow assestano un altro grande colpo, pubblicando un album divertente e ricco di suoni diversi, tutti sempre conditi con abbondante southern rock delle origini. E per una band che ha quasi 15 anni di attività alle spalle, il fatto di non aver mai sbagliato un disco è sicuramente un merito che possono vantare in pochi.
Il disco parte molto forte con Waiting For the Thunder dalle sonorità sostenute anche se non troppo veloci; da notare che le strofe sono cantante a secco con gli strumenti che suonano solo tra le pause e su ponte e ritornello. Il secondo pezzo intitolato Let It Burn, pubblicato a settembre in anteprima, aggiunge un po' di rock and roll al southern rock e il risultato è decisamente divertente e godibile e anche tendente verso il rock della East Coast visto che in alcuni punti ricorda un po' Already Gone degli Eagles. Con la terza traccia intitolata The Good Life il ritmo rallenta decisamente e troviamo la prima ballad dai suoni piuttosto tradizionali, ma comunque di grande impatto. Il quarto pezzo intitolato What Comes Naturally è invece un midtempo sostenuto dal suono del pianoforte a creare un atmosfera molto southern con un tocco di jazz che arricchisce il pezzo. Segue un altro midtempo intitolato Running Through Time. Al sesto posto troviamo la title track, solo leggermente più veloce delle due precedenti ma dal suono molto più duro, distorto e tendente al grunge sia nella musica che nel canto.
Con Ought To Know i ritmi tornano decisamente a salire con un rock allegro e movimentato ricco di riff di chitarra e di energia. L'ottava traccia è intitolata Sunrise in Texas ed è la più lenta dell'intero disco, con sonorità molto melodiche e tranquille, come si addicono a un risveglio all'alba nei climi caldi del sud degli Stati Uniti. Il nono brano intitolato Ain't Gonna Wait è il più melodico dell'album grazie al suono del tamburello, agli arpeggi di chitarra e al controcanto sul ritornello. Con Workin' For a Workin' Man i ritmi salgono di nuovo e troviamo un brano forte e veloce che esprime grinta ed energia. L'undicesima traccia Believe You Me propone di nuovo un rock and roll con forti innesti di funk che riportano ad atmosfere divertenti e festose e che danno un tocco di musica nera in un album di southern rock. Il brano di chiusura Free on the Wing vede come ospite Greg Allman ed è il pezzo più tradizionale dell'intero disco: molto southern, piuttosto lento e rilassato.
In sintesi, non si può non constatare che i Blackberry Smoke con Like an Arrow assestano un altro grande colpo, pubblicando un album divertente e ricco di suoni diversi, tutti sempre conditi con abbondante southern rock delle origini. E per una band che ha quasi 15 anni di attività alle spalle, il fatto di non aver mai sbagliato un disco è sicuramente un merito che possono vantare in pochi.
giovedì 20 ottobre 2016
Blackfoot - Southern Native
Non capita spesso che una band nel corso della propria carriera cambi tutta la formazione arrivando così a trovarsi con soli musicisti che non appartenevano alla formazione originale, ancora più raro è che il cambio totale dei membri del gruppo avvenga contemporaneamente. Per quanto improbabile, è questo ciò che è successo alla storica band di southern rock dei Blackfoot che nel 2016 è tornata con quattro elementi nuovi e con Rickey Medlocke, storico leader e frontman che vanta anche una lunga militanza nel Lynyrd Skynyrd, in veste di produttore. Descritto in altre parole, Madlocke che è titolare del marchio ha assemblato una band del tutto nuova a cui ha attribuito il nome di Blackfoot, recuperando il nome storico del gruppo.
Il nuovo album è stato pubblicato il 5 agosto di quest'anno e si intitola Southern Native, e come suggerisce la copertina lo scopo del nuovo gruppo è quello di rinverdire i fasti del passato proponendo un buon connubio di southern rock e di hard rock più moderno. L'album è composto di 10 tracce; tra i brani migliori troviamo i due energici e rapidi pezzi di apertura Need My Ride e Southern Native (di cui è stato anche realizzato un video). L'offerta sonora del disco è comunque molto ampia e nell'album sono presenti anche quattro ballad intitolate Everyman, Call of a Hero, Take Me Home e Ohio.
Tra i pezzi migliori dobbiamo annoverare anche la cover di Whiskey Train dei Procol Harum proposta in versione molto simile all'originale ma molto più carica di energia, trasformando così un rock psichedelico in un blues rock di grande impatto.
Chiude il disco una traccia incredibile che si discosta da tutto il resto del disco e dalla storia dei Blackfoot: il brano Diablo Loves Guitar è infatti un flamenco strumentale fatto di chitarra e percussioni che rimanda ad atmosfere calde e spagnoleggianti, ben lontane dal sud degli Stati Uniti.
Southern Native non è un capolavoro, né uno dei dischi migliori della carriera dei Blackfoot, ma è comunque un album godibile che può affiancare altre band di successo di questo genere come i Black Stone Cherry o i Blackberry Smoke. I fan di lunga data potrebbero non perdonare a Madlocke di aver concesso a un gruppo totalmente nuovo di utilizzare lo storico nome della band, ma a parte le polemiche bisogna ammettere che Madlocke è stato capace di produrre del sano rock anche senza doversi mettere al microfono.
Il nuovo album è stato pubblicato il 5 agosto di quest'anno e si intitola Southern Native, e come suggerisce la copertina lo scopo del nuovo gruppo è quello di rinverdire i fasti del passato proponendo un buon connubio di southern rock e di hard rock più moderno. L'album è composto di 10 tracce; tra i brani migliori troviamo i due energici e rapidi pezzi di apertura Need My Ride e Southern Native (di cui è stato anche realizzato un video). L'offerta sonora del disco è comunque molto ampia e nell'album sono presenti anche quattro ballad intitolate Everyman, Call of a Hero, Take Me Home e Ohio.
Tra i pezzi migliori dobbiamo annoverare anche la cover di Whiskey Train dei Procol Harum proposta in versione molto simile all'originale ma molto più carica di energia, trasformando così un rock psichedelico in un blues rock di grande impatto.
Chiude il disco una traccia incredibile che si discosta da tutto il resto del disco e dalla storia dei Blackfoot: il brano Diablo Loves Guitar è infatti un flamenco strumentale fatto di chitarra e percussioni che rimanda ad atmosfere calde e spagnoleggianti, ben lontane dal sud degli Stati Uniti.
Southern Native non è un capolavoro, né uno dei dischi migliori della carriera dei Blackfoot, ma è comunque un album godibile che può affiancare altre band di successo di questo genere come i Black Stone Cherry o i Blackberry Smoke. I fan di lunga data potrebbero non perdonare a Madlocke di aver concesso a un gruppo totalmente nuovo di utilizzare lo storico nome della band, ma a parte le polemiche bisogna ammettere che Madlocke è stato capace di produrre del sano rock anche senza doversi mettere al microfono.
giovedì 29 settembre 2016
Steel Panther - Milano, 28/9/2016
Nota: Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino, che ringraziamo per il prezioso contributo.
La musica non è come il cinema, nella musica ci sono i cicli si diceva in Be Cool, film del 2005 dove John Travolta interpretava un produttore musicale; mai come ora questa affermazione è vera, sopratutto se parliamo degli Steel Panther: una strepitosa band californiana che unisce, in pieno stile anni 80, musica orecchiabile ma potente e graffiante, capelloni, magliette strappate, testi espliciti a sfondo sessuale.
Il quartetto inizia la sua carriera all'inizio degli anni duemila, ma tra cover e apparizioni in spettacoli televisivi non fece molto altro e dovette aspettare il 2009 con il lancio di Feel the Steel che gli valse quasi la nomination per la categoria Best Comedy Album ai Grammy Awards del 2010.
Con una popolarità in crescita costante e l'uscita del secondo disco Balls Out, gli Steel Panther furono invitati ad aprire i concerti dei Def Leppard e dei Mötley Crüe e, solo una settimana dopo, dei Guns 'n Roses. Nei due anni successivi molte date dei due tour in UK, del tour in Europa e dei due tour in Australia (il primo dei quali sponsorizzato da Brazzers) furono dei completi sold-out e al Download Festival del 2012 si esibirono davanti a una folla di 100.000 persone.
L'ultimo album in studio della band, All You Can Eat, è del 2014 e il suo successo consente alle cotonate pantere di poter organizzare il primo tour negli Stati Uniti come headliner. Unica produzione live della band è Live From Lexxi's Mom Garage, un live acustico davanti a un pubblico di sole donne. Inclusa, appunto, la madre del bassista Lexxi Foxx.
Lo spettacolo sul palco laterale dell'Alcatraz inizia mandando on-air I Love It Loud dei Kiss, un inizio piuttosto insolito, prima dell'ingresso della band in pantaloni attillatissimi, magliette strappate e fasce in testa in puro stile anni 80 e iniziando lo spettacolo con Eyes of a Panther seguita da Just Like Tiger Woods. Il gruppo intervalla molti siparietti divertenti e autoironici durante il concerto, Satchel ad esempio ha chiesto quanti tra il pubblico sono venuti al concerto pensando di vedere i Poison.
Il concerto poi prosegue con Party Like Tomorrow is The End of The World, Asian Hooker, Turn Out the Lights prima di uno spettacolare assolo di chitarra dove Satchel ha suonato molti riff di pezzi famosissimi di altri gruppi (Iron Maiden, Guns 'n Roses, Metallica solo per citarne alcuni) mentre con un piede picchiava il pedale della cassa della batteria. Prosegue la carrellata di pezzi prima di arrivare alla parte acustica del concerto con She's on the Rag e arrivare al secondo spettacolino della band. Michael Starr invita una ragazza sul palco, Michelle, e sulle note dell'omonimo pezzo dei Beatles i quattro mattacchioni improvvisano un momento alla Uomini e Donne dove cercando di corteggiare (invano) la povera malcapitata.
17 Girls in a Row genera un po' quello che tutti si aspettano ovvero l'invasione di una ventina di ragazze sul palco che rimangono anche per il pezzo successivo, Gloryhole tratto dal loro ultimo album in studio.
I cavalli di battaglia Community Property e Death to All but Metal portano il concerto alla finta conclusione prima dei due pezzi finali Fat Girl e Party All Day (Fuck All Night).
16 pezzi per un paio d'ore di spettacolo, gli Steel Panther hanno dimostrato non solo di essere degli ottimi musicisti ma anche degli eccezionali intrattenitori.
La musica non è come il cinema, nella musica ci sono i cicli si diceva in Be Cool, film del 2005 dove John Travolta interpretava un produttore musicale; mai come ora questa affermazione è vera, sopratutto se parliamo degli Steel Panther: una strepitosa band californiana che unisce, in pieno stile anni 80, musica orecchiabile ma potente e graffiante, capelloni, magliette strappate, testi espliciti a sfondo sessuale.
Il quartetto inizia la sua carriera all'inizio degli anni duemila, ma tra cover e apparizioni in spettacoli televisivi non fece molto altro e dovette aspettare il 2009 con il lancio di Feel the Steel che gli valse quasi la nomination per la categoria Best Comedy Album ai Grammy Awards del 2010.
Con una popolarità in crescita costante e l'uscita del secondo disco Balls Out, gli Steel Panther furono invitati ad aprire i concerti dei Def Leppard e dei Mötley Crüe e, solo una settimana dopo, dei Guns 'n Roses. Nei due anni successivi molte date dei due tour in UK, del tour in Europa e dei due tour in Australia (il primo dei quali sponsorizzato da Brazzers) furono dei completi sold-out e al Download Festival del 2012 si esibirono davanti a una folla di 100.000 persone.
L'ultimo album in studio della band, All You Can Eat, è del 2014 e il suo successo consente alle cotonate pantere di poter organizzare il primo tour negli Stati Uniti come headliner. Unica produzione live della band è Live From Lexxi's Mom Garage, un live acustico davanti a un pubblico di sole donne. Inclusa, appunto, la madre del bassista Lexxi Foxx.
Lo spettacolo sul palco laterale dell'Alcatraz inizia mandando on-air I Love It Loud dei Kiss, un inizio piuttosto insolito, prima dell'ingresso della band in pantaloni attillatissimi, magliette strappate e fasce in testa in puro stile anni 80 e iniziando lo spettacolo con Eyes of a Panther seguita da Just Like Tiger Woods. Il gruppo intervalla molti siparietti divertenti e autoironici durante il concerto, Satchel ad esempio ha chiesto quanti tra il pubblico sono venuti al concerto pensando di vedere i Poison.
Il concerto poi prosegue con Party Like Tomorrow is The End of The World, Asian Hooker, Turn Out the Lights prima di uno spettacolare assolo di chitarra dove Satchel ha suonato molti riff di pezzi famosissimi di altri gruppi (Iron Maiden, Guns 'n Roses, Metallica solo per citarne alcuni) mentre con un piede picchiava il pedale della cassa della batteria. Prosegue la carrellata di pezzi prima di arrivare alla parte acustica del concerto con She's on the Rag e arrivare al secondo spettacolino della band. Michael Starr invita una ragazza sul palco, Michelle, e sulle note dell'omonimo pezzo dei Beatles i quattro mattacchioni improvvisano un momento alla Uomini e Donne dove cercando di corteggiare (invano) la povera malcapitata.
17 Girls in a Row genera un po' quello che tutti si aspettano ovvero l'invasione di una ventina di ragazze sul palco che rimangono anche per il pezzo successivo, Gloryhole tratto dal loro ultimo album in studio.
I cavalli di battaglia Community Property e Death to All but Metal portano il concerto alla finta conclusione prima dei due pezzi finali Fat Girl e Party All Day (Fuck All Night).
16 pezzi per un paio d'ore di spettacolo, gli Steel Panther hanno dimostrato non solo di essere degli ottimi musicisti ma anche degli eccezionali intrattenitori.
lunedì 26 settembre 2016
Bruce Springsteen - Chapter and Verse
Sono passati oltre quattro anni dall'uscita dell'ultimo album di inediti intitolato Wrecking Ball e quasi tre dalla deludente raccolta di B-side e brani scartati intitolata High Hopes, e ora finalmente troviamo tra le uscite discografiche il nuovo album del Boss pubblicato in contemporanea con la sua autobiografia intitolata Born to Run.
Il disco si intitola Chapter and Verse ed è composto da 18 brani di cui 5 inediti e 13 già pubblicati su album o raccolte. I cinque inediti sono tratti dal passato remoto della carriera di Springsteen e spaziano dal 1966 al 1972. I primi due sono addirittura tratti dalle registrazioni dei Castiles (il primo gruppo di Springsteen) e risalgono rispettivamente al 66 e al 67. Il primo pezzo è intitolato Baby I ed è un rock and roll ruspante e grezzo in cui Springsteen, che mostra di non avere ancora la voce levigata che lo ha reso celebre, esprime tutta la sua gioia in modo molto spontaneo e un po' disordinato. Segue una cover di You Can't Judge a Book by the Cover di Bo Diddley (scritta da Willy Dixon) che i Castiles eseguono in modo piuttosto fedele all'originale ma aggiungendo un po' di allegria e, di nuovo, di rock and roll.
Il terzo pezzo si intitola He’s Guilty (The Judge Song) e risale al 1970, quando Bruce cantava in una band chiamata Steel Mill (da cui poi nacque la E-Street Band); il pezzo è ricco di riff di chitarra e molto energico e inizia a dare un assaggio di quella che sarà per decenni la musica distintiva del Boss, il suono è ancora un po' grezzo ma va raffinandosi con forza. Con la successiva The Ballad of Jesse James si cambia decisamente registro, come dice il titolo stesso si tratta di una ballad che vira fortemente verso il country, dal punto di vista canoro Springsteen inizia a far vedere le doti che nel giro di pochi anni saprà tirare fuori e il pezzo nel suo complesso è molto accattivante. L'ultimo inedito si intitola Henry Boy è composto solo di voce e chitarra e non suona del tutto nuovo perché la melodia è molto simile a quella che Bruce avrebbe poi usato per Rosalita.
Per il resto troviamo 13 brani che riassumono la carriera di Springsteen dal 1972 al 2012 con pezzi storici come 4th of July Asbury Park (Sandy), Born tu Run, Born in the U.S.A. e The Rising. E' ovvio che l'attenzione si debba concentrare sui cinque inediti, che sono gemme di grande valore. Magari qualitativamente sono più grezze di quanto ci si aspetterebbe da Springsteen, ma ci rivelano una versione del Boss fino ad oggi ignota, più ruspante, genuina e inesperta di quella che conosciamo bene.
Viene chiedersi quante altre perle di questo valore abbia Bruce nei propri archivi e il piacere di poterne ascoltare almeno cinque fa perdonare il fatto che forse ci aspettavamo un disco nuovo e che dopo quasi cinque anni sarebbe anche lecito chiederlo.
Il disco si intitola Chapter and Verse ed è composto da 18 brani di cui 5 inediti e 13 già pubblicati su album o raccolte. I cinque inediti sono tratti dal passato remoto della carriera di Springsteen e spaziano dal 1966 al 1972. I primi due sono addirittura tratti dalle registrazioni dei Castiles (il primo gruppo di Springsteen) e risalgono rispettivamente al 66 e al 67. Il primo pezzo è intitolato Baby I ed è un rock and roll ruspante e grezzo in cui Springsteen, che mostra di non avere ancora la voce levigata che lo ha reso celebre, esprime tutta la sua gioia in modo molto spontaneo e un po' disordinato. Segue una cover di You Can't Judge a Book by the Cover di Bo Diddley (scritta da Willy Dixon) che i Castiles eseguono in modo piuttosto fedele all'originale ma aggiungendo un po' di allegria e, di nuovo, di rock and roll.
Il terzo pezzo si intitola He’s Guilty (The Judge Song) e risale al 1970, quando Bruce cantava in una band chiamata Steel Mill (da cui poi nacque la E-Street Band); il pezzo è ricco di riff di chitarra e molto energico e inizia a dare un assaggio di quella che sarà per decenni la musica distintiva del Boss, il suono è ancora un po' grezzo ma va raffinandosi con forza. Con la successiva The Ballad of Jesse James si cambia decisamente registro, come dice il titolo stesso si tratta di una ballad che vira fortemente verso il country, dal punto di vista canoro Springsteen inizia a far vedere le doti che nel giro di pochi anni saprà tirare fuori e il pezzo nel suo complesso è molto accattivante. L'ultimo inedito si intitola Henry Boy è composto solo di voce e chitarra e non suona del tutto nuovo perché la melodia è molto simile a quella che Bruce avrebbe poi usato per Rosalita.
Per il resto troviamo 13 brani che riassumono la carriera di Springsteen dal 1972 al 2012 con pezzi storici come 4th of July Asbury Park (Sandy), Born tu Run, Born in the U.S.A. e The Rising. E' ovvio che l'attenzione si debba concentrare sui cinque inediti, che sono gemme di grande valore. Magari qualitativamente sono più grezze di quanto ci si aspetterebbe da Springsteen, ma ci rivelano una versione del Boss fino ad oggi ignota, più ruspante, genuina e inesperta di quella che conosciamo bene.
Viene chiedersi quante altre perle di questo valore abbia Bruce nei propri archivi e il piacere di poterne ascoltare almeno cinque fa perdonare il fatto che forse ci aspettavamo un disco nuovo e che dopo quasi cinque anni sarebbe anche lecito chiederlo.
lunedì 12 settembre 2016
Hardcore Superstar Summerfield Music Festival - Cassano Magnago (VA), 11/9/2016
Nota: questo articolo è stato scritto dal guest blogger Tino che ringraziamo per il suo prezioso aiuto.
Quando associamo la Svezia alla musica di solito ci vengono in mente gli ABBA, gli Europe, e qualche centinaio di band black metal; dal paese scandinavo però arrivano anche gli Hardcore Superstar, band heavy metal formatasi a Göteborg alla fine degli anni 90 e tutt'ora in attività.
10 album e oltre 20 singoli per una band estremamente energica ma capace di mettere d'accordo i punk-rockettari, i metallari borchiati e gli amanti del glam con i loro pezzi forti ma estremamente orecchiabili; viene da chiedersi come mai non vengano inseriti nella programmazione di qualche radio prettamente rock (Virgin Radio, ad esempio) nel nostro paese. Il gruppo iniziò la sua carriera nel 1998 firmando con l'etichetta inglese Music for Nations per il lancio del loro primo disco ma è solamente nel 2000 che l'uscita di Bad Sneakers and a Piña Colada lanciò gli svedesi sotto i riflettori del panorama internazionale e l'anno successivo iniziò un tour che attraversò Europa, Giappone e Canada; nello stesso anno aprirono i concerti di Motorhead e Ac/Dc nel nostro paese. Dopo altri due dischi la band uscì con l'album eponimo che ricevette giudizi positivi da tutto il mondo e consacrò gli Hardcore Superstar in campo internazionale. L'unico cambio di formazione nella storia della band fu nel 2008 quando il chitarrista Thomas Silver lasciò volontariamente il gruppo e venne rimpiazzato da Vic Zino dei connazionali Crazy Lixx. I lavori più recenti della band sono del 2013 con C'mon Take on Me, non particolarmente apprezzato dalla critica ma a me i due singoli One More Minute e Above The Law sono piaciuti parecchio e il lavoro più recente della band, HCSS del 2015, è un gran disco quasi ai livelli di Bad Sneakers.
Nessun giro di parole, la band capitanata dal tarantolato Jocke Berg ha spaccato, tirando fuori tantissima energia a volumi da galera facendo tremare il tendone del Summerfield Music Festival, in quel di Cassano Magnago. Dopo un'ottima apertura da parte dei romagnoli Speed Stroke, gli Hardcore Superstar hanno iniziato il concerto con una scaletta che ha toccato ben sei album. Il martellante Hello/Goodbye è il pezzo di apertura seguito dal lento Touch the Sky. Si prosegue poi con i pezzi tratti da The Party Ain't Over 'Til We Say So come My Good Reputation e Wild Boys intervallati da Dreamin' In A Casket (che da il nome all'album che lo contiene) e Silence For The Peacefully.
Pubblico scatenato per Last Call for Alcohol prima dell'apice di We Don't Celebrate Sundays. Moonshine e Dear Old Fame conducono verso l'ultimo pezzo Above The Law.
Concerto non lunghissimo, un ora e venti circa per circa 14 pezzi. Non se se fosse dovuto a limitazioni di orario o alla voce del cantante arrivata al limite, ma i miei timpani non ce la facevano davvero più, gli 80 chilometri che mi separavano da casa li ho percorsi con le orecchie che fischiavano, oggi sembra andare meglio.
Quando associamo la Svezia alla musica di solito ci vengono in mente gli ABBA, gli Europe, e qualche centinaio di band black metal; dal paese scandinavo però arrivano anche gli Hardcore Superstar, band heavy metal formatasi a Göteborg alla fine degli anni 90 e tutt'ora in attività.
10 album e oltre 20 singoli per una band estremamente energica ma capace di mettere d'accordo i punk-rockettari, i metallari borchiati e gli amanti del glam con i loro pezzi forti ma estremamente orecchiabili; viene da chiedersi come mai non vengano inseriti nella programmazione di qualche radio prettamente rock (Virgin Radio, ad esempio) nel nostro paese. Il gruppo iniziò la sua carriera nel 1998 firmando con l'etichetta inglese Music for Nations per il lancio del loro primo disco ma è solamente nel 2000 che l'uscita di Bad Sneakers and a Piña Colada lanciò gli svedesi sotto i riflettori del panorama internazionale e l'anno successivo iniziò un tour che attraversò Europa, Giappone e Canada; nello stesso anno aprirono i concerti di Motorhead e Ac/Dc nel nostro paese. Dopo altri due dischi la band uscì con l'album eponimo che ricevette giudizi positivi da tutto il mondo e consacrò gli Hardcore Superstar in campo internazionale. L'unico cambio di formazione nella storia della band fu nel 2008 quando il chitarrista Thomas Silver lasciò volontariamente il gruppo e venne rimpiazzato da Vic Zino dei connazionali Crazy Lixx. I lavori più recenti della band sono del 2013 con C'mon Take on Me, non particolarmente apprezzato dalla critica ma a me i due singoli One More Minute e Above The Law sono piaciuti parecchio e il lavoro più recente della band, HCSS del 2015, è un gran disco quasi ai livelli di Bad Sneakers.
Nessun giro di parole, la band capitanata dal tarantolato Jocke Berg ha spaccato, tirando fuori tantissima energia a volumi da galera facendo tremare il tendone del Summerfield Music Festival, in quel di Cassano Magnago. Dopo un'ottima apertura da parte dei romagnoli Speed Stroke, gli Hardcore Superstar hanno iniziato il concerto con una scaletta che ha toccato ben sei album. Il martellante Hello/Goodbye è il pezzo di apertura seguito dal lento Touch the Sky. Si prosegue poi con i pezzi tratti da The Party Ain't Over 'Til We Say So come My Good Reputation e Wild Boys intervallati da Dreamin' In A Casket (che da il nome all'album che lo contiene) e Silence For The Peacefully.
Pubblico scatenato per Last Call for Alcohol prima dell'apice di We Don't Celebrate Sundays. Moonshine e Dear Old Fame conducono verso l'ultimo pezzo Above The Law.
Concerto non lunghissimo, un ora e venti circa per circa 14 pezzi. Non se se fosse dovuto a limitazioni di orario o alla voce del cantante arrivata al limite, ma i miei timpani non ce la facevano davvero più, gli 80 chilometri che mi separavano da casa li ho percorsi con le orecchie che fischiavano, oggi sembra andare meglio.
mercoledì 24 agosto 2016
Limp Bizkit - Sesto San Giovanni 22/8/2016
Nota: Questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il suo prezioso aiuto.
Testi rappati e chitarre distorte sono il marchio distintivo del nu-metal, un sottogenere alternativo del metal che ha spopolato nel decennio attorno al 2000. Dopo mostri sacri come Korn, Deftones e Rage Against The Machine, anche i Limp Bizkit si sono ritagliati il loro posto come esponenti di questo genere in un ventennio di carriera e con oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo.
La loro storia è fatta di alti e bassi. Inizia tutto nel 1995 a Jacksonville, in Florida, ma pubblicano il loro primo disco Three Dollar Bill, Yall$ solamente nel 1997. Il disco non ottiene il successo sperato ma i numerosi tour, l'appoggio dei Korn e del loro produttore, i video passati su MTV e i travestimenti di Wes Borland iniziano a dare alla band un po' di notorietà. Il 1999 è l'anno della svolta, Significant Other lancia la band ai primi posti della classifica e Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water conferma il successo l'anno successivo, grazie anche alla presenza di Take a Look Around tratta dalla colonna sonora di Mission: Impossible 2. Quest'ultimo disco segna un cambio di stile della band verso sonorità più rock.
Successivamente Wes Borland lascia il gruppo e la band si trova un po' musicalmente disorientata, i due lavori successivi Results May Vary e The Unquestionable Truth (Part 1) passano un po' inosservati; il rientro del chitarrista e l'ultimo lavoro in studio Gold Cobra sembrano aver risollevato lievemente il gruppo.
Ma veniamo alla parte divertente.
Il concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni inizia con la violenza di Rollin' tratta dal terzo disco, che conterrà la maggior parte dei pezzi suonati. Seguono a ruota Sad But True (cover dei Metallica) e l'ultimo singolo Gold Cobra, per poi continuare con My Generation fino a Faith (cover di George Michael che la band aveva inciso anche nel proprio primo album) per dare un tocco danzante a una serata intervallata anche da qualche mini siparietto della band.
Poker di successi per la chiusura della performance con Nookie, Smells Like Teen Spirit (altra cover, stavolta dei Nirvana, ma spero lo sappiano tutti), Break Stuff e Take a Look Around.
Fred Durst, oramai a 46 anni, e soci hanno fatto un bel concerto nonostante non facciano uscire nulla degno di nota da quasi 15 anni e il genere sia oramai sulla via del tramonto.
Speriamo però che Stampede of the Disco Elephants, disco in lavorazione la cui uscita è prevista per il 2017 ci riservi qualche bella sorpresa.
Testi rappati e chitarre distorte sono il marchio distintivo del nu-metal, un sottogenere alternativo del metal che ha spopolato nel decennio attorno al 2000. Dopo mostri sacri come Korn, Deftones e Rage Against The Machine, anche i Limp Bizkit si sono ritagliati il loro posto come esponenti di questo genere in un ventennio di carriera e con oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo.
La loro storia è fatta di alti e bassi. Inizia tutto nel 1995 a Jacksonville, in Florida, ma pubblicano il loro primo disco Three Dollar Bill, Yall$ solamente nel 1997. Il disco non ottiene il successo sperato ma i numerosi tour, l'appoggio dei Korn e del loro produttore, i video passati su MTV e i travestimenti di Wes Borland iniziano a dare alla band un po' di notorietà. Il 1999 è l'anno della svolta, Significant Other lancia la band ai primi posti della classifica e Chocolate Starfish and the Hot Dog Flavored Water conferma il successo l'anno successivo, grazie anche alla presenza di Take a Look Around tratta dalla colonna sonora di Mission: Impossible 2. Quest'ultimo disco segna un cambio di stile della band verso sonorità più rock.
Successivamente Wes Borland lascia il gruppo e la band si trova un po' musicalmente disorientata, i due lavori successivi Results May Vary e The Unquestionable Truth (Part 1) passano un po' inosservati; il rientro del chitarrista e l'ultimo lavoro in studio Gold Cobra sembrano aver risollevato lievemente il gruppo.
Ma veniamo alla parte divertente.
Il concerto al Carroponte di Sesto San Giovanni inizia con la violenza di Rollin' tratta dal terzo disco, che conterrà la maggior parte dei pezzi suonati. Seguono a ruota Sad But True (cover dei Metallica) e l'ultimo singolo Gold Cobra, per poi continuare con My Generation fino a Faith (cover di George Michael che la band aveva inciso anche nel proprio primo album) per dare un tocco danzante a una serata intervallata anche da qualche mini siparietto della band.
Poker di successi per la chiusura della performance con Nookie, Smells Like Teen Spirit (altra cover, stavolta dei Nirvana, ma spero lo sappiano tutti), Break Stuff e Take a Look Around.
Fred Durst, oramai a 46 anni, e soci hanno fatto un bel concerto nonostante non facciano uscire nulla degno di nota da quasi 15 anni e il genere sia oramai sulla via del tramonto.
Speriamo però che Stampede of the Disco Elephants, disco in lavorazione la cui uscita è prevista per il 2017 ci riservi qualche bella sorpresa.
martedì 9 agosto 2016
Tarja - The Shadow Self
A due mesi dall'uscita di The Brightest Void, che era stato definito the prequel, esce il nuovo album di inediti della soprano finlandese Tarja Turunen che dà così alle stampe il suo quarto lavoro in poco più di un anno.
L'album è intitolato The Shadow Self e si apre con il brano Innocence di cui era stato pubblicato il video a giugno; il pezzo di apertura chiarisce subito quale sarà la qualità complessiva dell'album perché è semplicemente grandioso, caratterizzato da una base sostenuta dal piano e dalla voce di Tarja che mostra già in avvio tutta la sua estensione. Il brano è già stupendo di suo ed è anche impreziosito da un inciso musicale di circa un minuto guidato ancora dal piano prima che Tarja attacchi a cantare il ritornello l'ultima volta. Con il secondo pezzo intitolato Demons in Me, purtroppo, abbiamo una brutta caduta di stile: il pregio dei Nightwish è di Tarja da solista è sempre stato quello di proporre del symphonic metal privo di growl che è solo una stupidaggine adatta ai gruppi che devono ricorrere a questa tecnica cacofonica per ovviare alla carenza di idee e capacità. Sul growl si espresse bene Rob Halford: I like to hear a singer sing. Quindi, tornando a Tarja, i produttori dovrebbero spiegarci i motivi della presenza della cantante canadese Alissa White-Gluz che con il suo growl rende brutto e fastidioso un brano che senza di lei sarebbe sicuramente stato migliore.
Ma fortunatamente la delusione dura poco e come terza traccia ritroviamo No Bitter End che era già contenuta in The Brightest Void ma che in questa versione dura quasi un minuto in più; il brano ha sancito una virata di Tarja verso il pop ma la qualità della sua musica resta notevole nonostante il brano sia decisamente di easy listening. Il quarto pezzo è intitolato Love to Hate ed è una maestosa e onirica ballad in cui Tarja di nuovo mette a frutto la sua voce cristallina regalando un altro brano di grande effetto. A seguire troviamo la cover di Supremacy dei Muse proposta in versione simile originale ma con la voce di Tarja che raggiunge ovviamente vette ben più acute di quella di Matthew Bellamy; il brano è talmente simile alla versione dei Muse che viene naturale sognare un bel duetto tra Tarja e Bellamy.
La sesta traccia intitolata The Living End è una lenta ballad leggera ed eterea di nuovo basata sulla musica del piano suonato proprio dalla cantante e dalla sua voce che qui suona angelica e leggiadra, il pezzo è arricchito da una bellissima seconda voce sul ritornello eseguita dal fratello di Tarja, Toni Turunen. Segue Diva che come suggerisce il titolo è un brano maestoso e dal sapore operistico in cui Tarja dà la migliore performance dell'intero disco per potenza ed estensione accompagnata da una imponente musica orchestrale. L'ottavo brano è Eagle Eye già presente su The Brightest Void e qui proposta in versione leggermente più breve, una ballad piuttosto tradizionale ma comunque di grande valore che vede ancora la presenza del fratello Toni Turunen.
Alla nona traccia troviamo Undertaker, brano veloce e aggressivo dal sapore anni 80 nelle cui strofe Tarja dimostra di saper cantare alla grande anche note insolitamente basse per poi risalire nel ritornello verso le tonalità che conosciamo. La decima traccia è intitolata Calling From the Wild ed è quella che più ricorda le produzioni passate di Tarja, il brano parte come una ballad per poi accelerare grazie alle poderose chitarre che lo riportano su panorami a cui la cantante ci ha abituato.
Chiude il disco un altra ballad melodica intitolata Too Many, anch'essa piuttosto tradizionale e anch'essa influenzata dagli anni 80, ma che conferma di nuovo quali sono le capacità canore della nostra soprano. La traccia contiene anche una ghost track del tutto trascurabile in cui Tarja dice This Is a Hit Song su una base dance che stona fortemente con il resto dell'album.
The Shadow Self è bellissimo anche a livello di packaging. Mentre il CD di The Brightest Void era interamente bianco, questo è interamente nero su entrambe le facciate e quella superiore riporta disegnati i solchi del vinile: ottimo lavoro anche dal punto di vista grafico.
A parte Demons in You l'album è un vero capolavoro che propone dieci ottimi brani dalle sonorità molto varie. Con questo album e con il suo prequel Tarja si sta forse avvicinando a sonorità meno dure di quanto ha fatto in precedenza virando leggermente verso il pop, ma questo non deve ingannare: la qualità delle sue produzioni non cala minimamente e al contrario con questi nuovi dischi Tarja sta dimostrando di saper ampliare il proprio repertorio in modo molto convincente e di non essere ancorata ad alcun modello. The Shadow Self è in sintesi un gran disco che aggiunge una pietra importante alla discografia della soprano e che dimostra ancora una volta, e non che ce ne fosse bisogno, che Tarja non ha eguali nel panorama rock e metal a livello mondiale.
L'album è intitolato The Shadow Self e si apre con il brano Innocence di cui era stato pubblicato il video a giugno; il pezzo di apertura chiarisce subito quale sarà la qualità complessiva dell'album perché è semplicemente grandioso, caratterizzato da una base sostenuta dal piano e dalla voce di Tarja che mostra già in avvio tutta la sua estensione. Il brano è già stupendo di suo ed è anche impreziosito da un inciso musicale di circa un minuto guidato ancora dal piano prima che Tarja attacchi a cantare il ritornello l'ultima volta. Con il secondo pezzo intitolato Demons in Me, purtroppo, abbiamo una brutta caduta di stile: il pregio dei Nightwish è di Tarja da solista è sempre stato quello di proporre del symphonic metal privo di growl che è solo una stupidaggine adatta ai gruppi che devono ricorrere a questa tecnica cacofonica per ovviare alla carenza di idee e capacità. Sul growl si espresse bene Rob Halford: I like to hear a singer sing. Quindi, tornando a Tarja, i produttori dovrebbero spiegarci i motivi della presenza della cantante canadese Alissa White-Gluz che con il suo growl rende brutto e fastidioso un brano che senza di lei sarebbe sicuramente stato migliore.
Ma fortunatamente la delusione dura poco e come terza traccia ritroviamo No Bitter End che era già contenuta in The Brightest Void ma che in questa versione dura quasi un minuto in più; il brano ha sancito una virata di Tarja verso il pop ma la qualità della sua musica resta notevole nonostante il brano sia decisamente di easy listening. Il quarto pezzo è intitolato Love to Hate ed è una maestosa e onirica ballad in cui Tarja di nuovo mette a frutto la sua voce cristallina regalando un altro brano di grande effetto. A seguire troviamo la cover di Supremacy dei Muse proposta in versione simile originale ma con la voce di Tarja che raggiunge ovviamente vette ben più acute di quella di Matthew Bellamy; il brano è talmente simile alla versione dei Muse che viene naturale sognare un bel duetto tra Tarja e Bellamy.
La sesta traccia intitolata The Living End è una lenta ballad leggera ed eterea di nuovo basata sulla musica del piano suonato proprio dalla cantante e dalla sua voce che qui suona angelica e leggiadra, il pezzo è arricchito da una bellissima seconda voce sul ritornello eseguita dal fratello di Tarja, Toni Turunen. Segue Diva che come suggerisce il titolo è un brano maestoso e dal sapore operistico in cui Tarja dà la migliore performance dell'intero disco per potenza ed estensione accompagnata da una imponente musica orchestrale. L'ottavo brano è Eagle Eye già presente su The Brightest Void e qui proposta in versione leggermente più breve, una ballad piuttosto tradizionale ma comunque di grande valore che vede ancora la presenza del fratello Toni Turunen.
Alla nona traccia troviamo Undertaker, brano veloce e aggressivo dal sapore anni 80 nelle cui strofe Tarja dimostra di saper cantare alla grande anche note insolitamente basse per poi risalire nel ritornello verso le tonalità che conosciamo. La decima traccia è intitolata Calling From the Wild ed è quella che più ricorda le produzioni passate di Tarja, il brano parte come una ballad per poi accelerare grazie alle poderose chitarre che lo riportano su panorami a cui la cantante ci ha abituato.
Chiude il disco un altra ballad melodica intitolata Too Many, anch'essa piuttosto tradizionale e anch'essa influenzata dagli anni 80, ma che conferma di nuovo quali sono le capacità canore della nostra soprano. La traccia contiene anche una ghost track del tutto trascurabile in cui Tarja dice This Is a Hit Song su una base dance che stona fortemente con il resto dell'album.
The Shadow Self è bellissimo anche a livello di packaging. Mentre il CD di The Brightest Void era interamente bianco, questo è interamente nero su entrambe le facciate e quella superiore riporta disegnati i solchi del vinile: ottimo lavoro anche dal punto di vista grafico.
A parte Demons in You l'album è un vero capolavoro che propone dieci ottimi brani dalle sonorità molto varie. Con questo album e con il suo prequel Tarja si sta forse avvicinando a sonorità meno dure di quanto ha fatto in precedenza virando leggermente verso il pop, ma questo non deve ingannare: la qualità delle sue produzioni non cala minimamente e al contrario con questi nuovi dischi Tarja sta dimostrando di saper ampliare il proprio repertorio in modo molto convincente e di non essere ancorata ad alcun modello. The Shadow Self è in sintesi un gran disco che aggiunge una pietra importante alla discografia della soprano e che dimostra ancora una volta, e non che ce ne fosse bisogno, che Tarja non ha eguali nel panorama rock e metal a livello mondiale.
domenica 7 agosto 2016
The Dead Daisies - Make Some Noise
Ci sono supergruppi che si limitano a incidere album in studio, e poi ci sono quelli che fanno anche tournée e suonano dal vivo. E' questo il caso degli australoamericani Dead Daisies che oltre ad avere il merito di suonare nelle arene e negli stadi hanno anche quello di essere incredibilmente prolifici, visto che il loro nuovo album Make Some Noise esce a poco più di un anno di distanza dal precedente Revolución.
Rispetto al lavoro precedente la formazione del gruppo ha visto qualche cambio con la fuoriuscita di Richard Fortus e Dizzy Reed e l'ingresso di Doug Aldrich alla chitarra. Gli altri membri del gruppo restano David Lowy alla chitarra ritmica, Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria e John Corabi (ex vocalist dei Mötley Crüe) alla voce.
Se la formazione cambia, non cambia invece lo stile musicale del gruppo. Come dice il titolo stesso dell'album, Make Some Noise offre del sano hard rock festaiolo e divertente con forti venature blues soprattutto nei riff di chitarra; del resto l'amore dei Dead Daisies per il blues non sorprende visto che Revolución conteneva una cover di Evil di Howlin' Wolf. La band infatti si ispira chiaramente ai mostri sacri del passato, come gli Aerosmith o i Van Halen degli inizi, che hanno fatto dal proprio marchio di fabbrica il connubio tra rock e blues. Ma la vera peculiarità della musica dei Dead Daisies sta nella forte e graffiante voce di Corabi che anche questa volta mette in campo tutta la sua esperienza e capacità ed è proprio Corabi, va riconosciuto, che ha concesso alla band di fare un vero salto di qualità quando tra il primo e il secondo album ha preso il posto del pur bravo ma inferiore Jon Stevens.
Il brano di apertura del disco, intitolato Long Way to Go, era stato pubblicato in video a giugno e dà subito una bella scarica di energia che si ritrova in tutti gli altri pezzi. Tra i brani migliori troviamo anche Song And a Prayer in cui lo stile degli Aerosmith si sente forte e Corabi sembra imitare Tyler anche nel cantato; spiccano anche le energiche Mainline e Freedom che si contendono il titolo del brano più veloce dell'intero disco, la festaiola e coinvolgente Last Time I Saw the Sun, la trascinante title track la cui strumentazione musicale ricorda We Will Rock You e l'allegra All The Same.
L'album contiene anche due preziose cover. La prima è Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, riproposta in versione molto simile all'originale ma resa più energica dal suono delle chitarre; la seconda è Join Together degli Who che viene trasformata in un inno travolgente mantenendone ovviamente il coro sul ritornello che anche in questa versione ne è il punto di forza.
Il nuovo album dei Dead Daisies conferma le aspettative regalando dodici tracce di puro rock sanguigno con forti influenze blues come nella tradizioni delle band che li hanno ispirati. Del resto se una delle caratteristiche distintive dei Dead Daisies è la loro solerte attività dal vivo la band ha raggiunto il proprio scopo incidendo dodici pezzi che si prestano tantissimo ad essere suonati davanti alla folla. Un altro merito indiscusso di questa band è di dare finalmente il giusto spazio alla voce di John Corabi, uno dei cantanti più sottovalutati della storia, che troppo spesso viene considerato solo sostituto temporaneo di Vince Neil. L'unica critica che può essere mossa a Make Some Noise è che i suoni proposti sono effettivamente un po' troppo simili tra loro e l'album non brilla per varietà; ma è anche vero che dai supergruppi non ci si aspetta innovazione o sperimentazione, ma piuttosto che regalino della musica divertente che sappia coniugare immediatezza e qualità. E questo disco sicuramente centra l'obiettivo.
Rispetto al lavoro precedente la formazione del gruppo ha visto qualche cambio con la fuoriuscita di Richard Fortus e Dizzy Reed e l'ingresso di Doug Aldrich alla chitarra. Gli altri membri del gruppo restano David Lowy alla chitarra ritmica, Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria e John Corabi (ex vocalist dei Mötley Crüe) alla voce.
Se la formazione cambia, non cambia invece lo stile musicale del gruppo. Come dice il titolo stesso dell'album, Make Some Noise offre del sano hard rock festaiolo e divertente con forti venature blues soprattutto nei riff di chitarra; del resto l'amore dei Dead Daisies per il blues non sorprende visto che Revolución conteneva una cover di Evil di Howlin' Wolf. La band infatti si ispira chiaramente ai mostri sacri del passato, come gli Aerosmith o i Van Halen degli inizi, che hanno fatto dal proprio marchio di fabbrica il connubio tra rock e blues. Ma la vera peculiarità della musica dei Dead Daisies sta nella forte e graffiante voce di Corabi che anche questa volta mette in campo tutta la sua esperienza e capacità ed è proprio Corabi, va riconosciuto, che ha concesso alla band di fare un vero salto di qualità quando tra il primo e il secondo album ha preso il posto del pur bravo ma inferiore Jon Stevens.
Il brano di apertura del disco, intitolato Long Way to Go, era stato pubblicato in video a giugno e dà subito una bella scarica di energia che si ritrova in tutti gli altri pezzi. Tra i brani migliori troviamo anche Song And a Prayer in cui lo stile degli Aerosmith si sente forte e Corabi sembra imitare Tyler anche nel cantato; spiccano anche le energiche Mainline e Freedom che si contendono il titolo del brano più veloce dell'intero disco, la festaiola e coinvolgente Last Time I Saw the Sun, la trascinante title track la cui strumentazione musicale ricorda We Will Rock You e l'allegra All The Same.
L'album contiene anche due preziose cover. La prima è Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, riproposta in versione molto simile all'originale ma resa più energica dal suono delle chitarre; la seconda è Join Together degli Who che viene trasformata in un inno travolgente mantenendone ovviamente il coro sul ritornello che anche in questa versione ne è il punto di forza.
Il nuovo album dei Dead Daisies conferma le aspettative regalando dodici tracce di puro rock sanguigno con forti influenze blues come nella tradizioni delle band che li hanno ispirati. Del resto se una delle caratteristiche distintive dei Dead Daisies è la loro solerte attività dal vivo la band ha raggiunto il proprio scopo incidendo dodici pezzi che si prestano tantissimo ad essere suonati davanti alla folla. Un altro merito indiscusso di questa band è di dare finalmente il giusto spazio alla voce di John Corabi, uno dei cantanti più sottovalutati della storia, che troppo spesso viene considerato solo sostituto temporaneo di Vince Neil. L'unica critica che può essere mossa a Make Some Noise è che i suoni proposti sono effettivamente un po' troppo simili tra loro e l'album non brilla per varietà; ma è anche vero che dai supergruppi non ci si aspetta innovazione o sperimentazione, ma piuttosto che regalino della musica divertente che sappia coniugare immediatezza e qualità. E questo disco sicuramente centra l'obiettivo.
domenica 24 luglio 2016
Pino Scotto Bubbles Fest - Pavia, 23/7/2016
Credit: Silvio Piccinini |
Prima di trovare una risposta a queste domande, appena entrato nel fossato del castello Visconteo di Pavia mi sono trovato immerso nella festa: quella del Bubbles Fest! Il Bubbles Fest non è solo un festival di quattro giorni di musica, ma è anzitutto una grande festa organizzata alla perfezione da un gruppo di volontari in cui si respira l'aria delle grigliate tra amici di mezza estate, in allegria, serenità e con tanta buona musica.
I gruppo di supporto hanno suonato fino a poco prima delle 23, quando Pino e la sua band sono saliti sul palco dando inizio a oltre un'ora di rock forsennato e carico di energia. La risposta ai miei dubbi è arrivata ben presto: Pino ha ricoperto tutta la sua carriera aprendo il concerto con alcuni pezzi dei Fire Trails, per poi passare ad alcuni tratti dal repertorio dei Vanadium e dedicando la seconda metà dello spettacolo alla sua carriera da solista, compresi i due inediti tratti dal suo ultimo album Live for a Dream. Il rock e l'energia della sua musica sono intervallati solo dai coloriti commenti socio-politici di Pino a cui il suo pubblico è ben abituato.
La band di Pino è stellare e la loro esecuzione è perfetta in ogni pezzo. Il batterista Marco Di Salvia resterà impresso nella mente degli spettatori tanto quanto Pino per la sua esecuzione energica e coinvolgente; non da meno sono il bassista Dario Bucca e il chitarrista Steve Angarthal a cui Pino cede il microfono a metà concerto per potersi concedere qualche minuto di pausa e per poter dar modo al chitarrista di eseguire un pezzo dal suo nuovo album solista intitolato Uranus And Gaia.
Credit: Silvio Piccinini |
Al termine del concerto Pino si ferma sotto al palco a salutare i suoi fan a cui racconta di voler essere una persona vera prima ancora di essere un musicista, perché nonostante una carriera quasi quarantennale è ancora incredibilmente vicino al suo pubblico e molto più umano di tanti altri che hanno meno della metà della sua capacità e qualità.
Come recitava la scritta sullo sfondo del palco, durante la serata è stata più volte ricordato il leggendario Lemmy Kilmster recentemente scomparso. Perché il rock è anzitutto voglia di stare insieme e anche di ricordare chi ne ha scritto la storia ma ora non c'è più.
Grazie Pino e grazie Bubbles Fest per la bella serata. A presto!
giovedì 21 luglio 2016
Punkreas Bubbles Fest - Pavia, 20/7/2016
Nota: questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ha assistito al concerto dei Punkreas nel fossato del Casetto Visconteo di Pavia il 20 luglio 2016 e ci ha mandato il suo racconto. Ringraziamo Tino per il suo prezioso contributo.
Aca toro aca toro... era da tutto il pomeriggio che avevo in testa questo ritornello in attesa del concerto dei Punkreas alla prima serata del Bubbles Fest, quattro giorni di musica nel fossato del Castello Visconteo di Pavia.
Formatisi nel 1989 a Parabiago, in provincia di Milano, la band esordì l'anno successivo con United Rumors of Punkreas ma è il secondo disco, il mitico Paranoia e Potere, che proietta la band al primo posto, o poco sotto, tra i gruppi della scena punk in Italia.
Quasi trent'anni di carriera, pochissimi cambi di formazione, attività costante, melodie aggressive ma pulite, testi molto divertenti e "contro il sistema" ma dritti al punto senza giri di parole: questi i loro marchi di fabbrica. Unica nota negativa in questi anni di ottima carriera è forse stata la controversia con il chitarrista e co-fondatore Flaco, autore di molti testi della band milanese, che prima ha dichiarato di voler abbandonare il gruppo per poi rettificare la cosa pochi giorni dopo dicendo di essere stato allontanato per incompatibilità caratteriale.
Dopo tutti questi anni e vedendo band sia italiane sia internazionali commercializzarsi per adeguarsi ai tempi, i Punkreas hanno mantenuto imperterriti lo stesso stile senza cambiare una virgola. E il loro ultimo lavoro Il Lato Ruvido lo conferma: provare per credere.
Voglio Armarmi dall'album Pelle è stato il pezzo di apertura del concerto, ottima scelta per animare la folla, anche se buona parte del concerto è stata dedicata al disco appena uscito: ben cinque pezzi quali In Fuga (eseguita nell'album con la band Lo Stato Sociale), 8000588605, Il Lato Ruvido (pezzo che da il titolo all'album), e Modena – Milano (in origine incisa con i Modena City Ramblers). E questi cinque brani confermano che la band invecchia molto bene.
Sono però i pezzi di Paranoia e Potere quelli che la gente conosce meglio: La Canzone del Bosco prima e Aca Toro subito dopo hanno generato dieci minuti di puro delirio. A chiusura del concerto si torna agli esordi, o quasi, con Il Vicino dall'album Isterico e si chiude con Canapa, unico pezzo della serata tratto dall'album Falso.
Concerto spettacolare, e alla fine il ritornello è ancora in testa...
Aca toro aca toro... era da tutto il pomeriggio che avevo in testa questo ritornello in attesa del concerto dei Punkreas alla prima serata del Bubbles Fest, quattro giorni di musica nel fossato del Castello Visconteo di Pavia.
Formatisi nel 1989 a Parabiago, in provincia di Milano, la band esordì l'anno successivo con United Rumors of Punkreas ma è il secondo disco, il mitico Paranoia e Potere, che proietta la band al primo posto, o poco sotto, tra i gruppi della scena punk in Italia.
Quasi trent'anni di carriera, pochissimi cambi di formazione, attività costante, melodie aggressive ma pulite, testi molto divertenti e "contro il sistema" ma dritti al punto senza giri di parole: questi i loro marchi di fabbrica. Unica nota negativa in questi anni di ottima carriera è forse stata la controversia con il chitarrista e co-fondatore Flaco, autore di molti testi della band milanese, che prima ha dichiarato di voler abbandonare il gruppo per poi rettificare la cosa pochi giorni dopo dicendo di essere stato allontanato per incompatibilità caratteriale.
Dopo tutti questi anni e vedendo band sia italiane sia internazionali commercializzarsi per adeguarsi ai tempi, i Punkreas hanno mantenuto imperterriti lo stesso stile senza cambiare una virgola. E il loro ultimo lavoro Il Lato Ruvido lo conferma: provare per credere.
Voglio Armarmi dall'album Pelle è stato il pezzo di apertura del concerto, ottima scelta per animare la folla, anche se buona parte del concerto è stata dedicata al disco appena uscito: ben cinque pezzi quali In Fuga (eseguita nell'album con la band Lo Stato Sociale), 8000588605, Il Lato Ruvido (pezzo che da il titolo all'album), e Modena – Milano (in origine incisa con i Modena City Ramblers). E questi cinque brani confermano che la band invecchia molto bene.
Sono però i pezzi di Paranoia e Potere quelli che la gente conosce meglio: La Canzone del Bosco prima e Aca Toro subito dopo hanno generato dieci minuti di puro delirio. A chiusura del concerto si torna agli esordi, o quasi, con Il Vicino dall'album Isterico e si chiude con Canapa, unico pezzo della serata tratto dall'album Falso.
Concerto spettacolare, e alla fine il ritornello è ancora in testa...
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