mercoledì 28 ottobre 2020

La storia di I Put a Spell on You di Screamin' Jay Hawkins

I Put a Spell on You è il pezzo più celebre e iconico della lunga discografia di Screamin' Jay Hawkins, musicista singolare a cui qualunque etichetta andrebbe stretta. Il brano ha sicuramente contribuito a creare la sua immagine da stregone ispirata ai film horror dell'epoca, ma inizialmente venne concepito come qualcosa di completamente diverso.


La canzone venne registrata per la prima volta nel 1955 come una ballad blues molto più convenzionale di come la conosciamo oggi. Al tempo Hawkins incideva per la Grand Records che non pubblicò mai il brano; la prima apparizione su un disco della prime versione risale infatti al 2006 nella compilation The Whamee 1953-55. L'anno seguente il bluesman passò alla Columbia e tornò in studio per inciderne una nuova versione; in quell'occasione il produttore Arnold Maxin portò carne da mangiare e una buona quantità di alcolici e fece ubriacare tutti prima di iniziare la registrazione. La sessione di registrazione, di cui Hawkins dichiarò in varie occasioni di non avere nessun ricordo, diede come risultato la versione urlata con i versi animaleschi che tutti conosciamo.

Le radio si rifiutarono di trasmettere un pezzo così trasgressivo e l'etichetta ne diffuse allora una versione tagliata, senza il finale che è la parte in cui si concerta la maggior parte dei versi di Hawkins. Le radio mantennero il divieto di trasmettere anche la versione più corta, ma ciò nonostante il 45 giri vendette più di un milione di copie.

Il disc jokey radiofonico Alan Freed offrì a Hawkins 3000 dollari per uscire da una bara durante un concerto. Sulle prime il bluesman rifiutò non ritenendolo un gesto serio, ma poi cambiò idea e costruì su di sé l'immagine ispirata al cinema horror con cui è rimasto celebre, con serpenti di gomma, teschi, costumi leopardati e oggetti di scena ispirati al voodoo.

La sua immagine da stregone, definita da alcuni una sorta di black Vincent Price, contribuì sicuramente al successo commerciale di Screamin' Jay Hawkins e aiutò a conferirgli un aspetto immediatamente riconoscibile. Tuttavia il bluesman, le cui aspirazioni iniziali erano di diventare un cantante d'opera e che fece anche il pugile prima di intraprendere la carriera nel blues, non sembrò essere particolarmente felice della sua immagine; in un intervista del 1973 dichiarò infatti che se fosse stato per lui non avrebbe scelto l'aggettivo Screamin' nel suo nome, sostenendo ad esempio che anche James Brown facesse urli e grugniti ma non veniva chiamato Screamin' James Brown, e si rammaricò del fatto che il pubblico non riuscisse ad apprezzarlo senza trasformarlo in un bogeyman.

In ogni caso I Put a Spell on You rimane ad oggi un enorme successo e vanta innumerevoli cover tra cui quella di Nina Simone, quella dei Creedence Clearwater Revival, e quella dei Marilyn Manson (incisa quando ancora Marilyn Manson era in nome della band e non del suo frontman durante la carriera solista). E la storia bizzarra di questa canzone ha sicuramente contribuito a farne un pezzo anticonvenzionale, fuori dagli schemi, in parte spaventoso e iconico di uno stile e di un'epoca.



Fonti:
  • Contemporary Musicians: Profiles of the People in Music, Volume 8 di Julia Rubiner
  • Encyclopedia of the Blues di Edward Komara
  • Rock Obituaries: Knocking On Heaven's Door di Nick Talaveski
  • Legendary Screamin' Jay Hawkins Dies At 70 da Billboard di Chris Morris

mercoledì 14 ottobre 2020

Older di George Michael


Gli anni 90 non cominciarono in modo facile per George Michael; il secondo album solista dopo lo scioglimento degli Wham, Listen Without Prejudice Vol 1, aveva venduto circa un terzo del precedente e il cambio di immagine da idolo pop ad artista maturo non sembrava aver convinto. In breve tempo si rifece, la sua performance al Freddie Mercury Tribute era stata la migliore di tutta la manifestazione, al punto che ne fu tratto un EP e che al tempo si vociferava che proprio George Michael avrebbe potuto essere il nuovo frontman dei Queen. Certo, lo stile musicale era completamente diverso, ma George aveva dimostrato di avere una voce adattissima a interpretare i pezzi di Freddie (anche se in realtà si era cimentato solo con due ballad) e forse avrebbero potuto trovare un accordo a metà strada.

Ma alla fine l’accordo non si concretizzò, ammesso che ce ne fosse mai stato uno in discussione, e George Michael tornò alla carriera solista. Il terzo album si fece attendere perché in mezzo ci fu anche una disputa legale, con il cantante che lasciò la sua etichetta precedente, la Epic, a cui addossava parte delle colpe dell’insuccesso del disco precedente, per passare alla Virgin con cui nel 1996 (sei anni dopo Listen Without Prejudice) uscì Older. Il titolo già diceva molto: George Michael era tornato più maturo, e la nota sul booklet chiariva il resto dicendo Thank you for waiting.

Il primo singolo estratto fu Jesus to a Child una ballad lontanissima dallo stile pop di facile presa che aveva reso famoso George Michael. Jesus to a Child è infatti un pezzo jazz intriso di black music e di soul. Il secondo singolo, Fastlove, era l’unico pezzo veramente catchy del disco che in parte richiamava il passato di George Michael, mentre il resto dell’album riportava alle atmosfere jazz con pezzi come Spinning the Wheel e anche al new age con The Strangest Thing.

Sicuramente l’album non è di facile ascolto, infatti molti critici diedero recensioni negative (come il Los Angles Times o AllMusic); ma dopo il giusto numero di ascolti non si può non cogliere la grandezza di queste composizioni. Probabilmente chi ha scritto recensioni negative non ha approcciato il disco con le aspettative giuste: in Older non si trovano pezzi divertenti e festaioli, ma canzoni introspettive e raccolte. Qui non ci sono i balletti di Wake Me Up Before You Go-Go, ma le ambientazioni rétro di Spinning The Wheel e Star People che di certo non sono meno belle. Il disco stupisce anche per il numero di outtakes, che furono stampate in un EP a parte venduto un in una riedizione a doppio disco di Older intitolata Older & Upper, che confermano il fatto che dal punto di vista compositivo quelle di Older furono sessioni molto produttive.

L’unico vero problema di Older emerse anni dopo: non fu solo il disco del ritorno, ma anche l’ultimo grande album di George Michael che tornò sulle scene due anni dopo con la compilation Ladies & Gentlemen che conteneva due inediti e nel 2000 pubblicò If I Told You That con Whitney Houston, per il greatest hits di quest’ultima. Questi tre pezzi in parte sancivano un ritorno al pop, e furono anche l’inizio della parabola discendente. George Michael pubblicò da allora altri due album da studio, di cui uno di cover e uno di inediti, il secondo dei quali conteneva due singoli usciti due anni prima francamente inascoltabili. L’ultimo album di George Michael fu Symphonica del 2014, un live orchestrale registrato durante il tour Symphonica Tour che si era svolto tra il 2011 e il 2012.

Five Live e Older furono il momento più alto della carriera solista di George Michael e dimostrarono capacità compositive e di interpretazione tra le migliori al mondo: peccato che gran parte di questo talento andò sprecato tra problemi burocratici e scelte sbagliate. Non resta che godersi ancora questi dischi, che sono capolavori di pop, jazz e rock ancora a distanza di oltre due decenni.

giovedì 8 ottobre 2020

Metallica - S&M2


Per celebrare i vent'anni di S&M, il loro primo album orchestrale, i Metallica hanno ripetuto l’esperimento con un nuovo concerto che li vede ancora una volta affiancati dalla San Francisco Symphony, che aveva preso parte anche al primo S&M, e anche questa nuova prova live ha dato vita a un album dal vivo della band di James Hetfield intitolato, come è abbastanza scontato, S&M2.

Il concerto, tenutosi a settembre 2019, è stato pubblicato ad agosto del 2020 sia in Blu-Ray sia in doppio CD. La band coadiuvata dall'orchestra ha eseguito ventidue pezzi attingendo da tutta la propria carriera con almeno un brano da ogni LP. Gli album più rappresentati sono l’ultimo Hardwired...to Self-Destruct e il black album, da cui sono tratti tre pezzi ciascuno, e Ride the Lightning rappresentato da due. Da tutti gli altri è stato preso un pezzo solo.

La formula è la stessa, già collaudata due decenni fa con S&M con la reinterpretazione in chiave sinfonica del migliori brani della discografia dei Metallica. Il live si apre con l’immancabile The Ecstasy of Gold di Ennio Morricone, scritta per la colonna sonora del film Il Buono, il Brutto, il Cattivo che il quartetto di Los Angeles utilizza come brano di apertura in versione strumentale, mentre nella versione del film contiene un vocalizzo della soprano Edda Dell’Orso, dal 1983. Circa metà della setlist era già presente nel primo live del 1999 e a questi si aggiunge la selezione dei pezzi più recenti e anche due brani di musica classica: la Suite Scita di Sergey Prokofiev, interpretata dalla sola orchestra, e la Fonderia d’Acciaio dall'opera L’officina di Aleksandr Mosolov suonata dall'orchestra e dalla band, in un esempio di crossover al contrario rispetto al resto del disco: con un pezzo classico eseguito dall'orchestra con una band metal.

Ovviamente mischiare hard rock e musica sinfonica non è un esperimento nuovo, visto che gli stessi Metallica, ma anche i Kiss, gli Scorpions e i Deep Purple (prima di tutti gli altri) lo hanno fatto in passato; ciò nonostante un disco come questo si distingue comunque da gran parte della produzione contemporanea e proprio per questo lo si ascolta con piacere. Alla band questo doppio album serve anche a tenere viva la propria immagine in un momento così difficile, agli ascoltatori serve sicuramente a ricordare che la musica non ha confini.

martedì 6 ottobre 2020

La storia della copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division

Nota: questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il contributo.


Ci sono casi in cui loghi o immagini diventano delle vere e proprie icone, a volte famose quanto gli autori stessi. Pensiamo al disegno della lingua dei Rolling Stones oppure allo smile dei Nirvana, o ancora il Dark Side dei Pink Floyd: nel corso del tempo sono diventate icone onnipresenti, veri pezzi di cultura pop. Un altro esempio è sicuramente questo misterioso disegno apparso sulla copertina di Unknown Pleasure, il primo album dei Joy Division del 1979.


La sua storia è piuttosto curiosa e ha origine giusto mezzo secolo fa. Nel 1970 Harold Craft, per la sua tesi di dottorato all'osservatorio di Arecibo, stava cercando un modo di comparare gli impulsi elettromagnetici provenienti dallo spazio; la pulsar (una stella a neutroni) CP1919 era una delle candidate da osservare. Il problema è che per via delle varie interferenze Harold cercò un modo di visualizzare questi impulsi allargando quelli più stretti e restringendo quelli più grandi. L'immagine quindi non rappresenta un battito cardiaco oppure qualche complicata analisi matematica, sono solamente degli impulsi graficamente aggiustati di una stella a neutroni disegnati l'uno sotto l'altro da uno dei primi software per computer.

Immagine originale della tesi di dottorato pubblicata su twitter da Jen Christiansen di Scientific American

I colori originali erano bianco su nero e qualche mese dopo la rivista Scientific American, nel 1971, la pubblicò in una variante: bianco su ciano.

Variante bianco su ciano

La sua ricerca venne poi ripubblicata nuovamente nel 1977, nel Regno Unito sulla rivista The Cambridge Encyclopedia of Astronomy. La stessa rivista che venne trovata da Sumner o Morris (rispettivamente chitarrista e batterista), a seconda dei racconti, nella Manchester Central Library durante una pausa pranzo mentre era alla ricerca di ispirazione.

Immagine di The Cambridge Encyclopedia of Astronomy

In seguito a Peter Saville, grafico della Factory Records, venne affidato il compito di creare la copertina dell'album a partire da quell'immagine. Levando le scritte varie e invertendo i colori in bianco su nero, andando contro gli iniziali desiderata della band, la copertina era pronta, nessun'altra scritta, nemmeno il nome della band, solo quel misterioso disegno.

Nel mentre, Harold Craft non aveva minimamente idea del successo derivato dall'immagine che aveva generato anni prima, fu una persona che lavorava per Scientific America, Jen Christiansen, a riferirglielo. Craft si precipitò nel negozio di dischi più vicino per verificare di persona e ne uscì con l'album in questione e un poster della copertina.

Inoltre, il disco inizialmente doveva chiamarsi in un altro modo, Kinetic Outtake, venne realizzato in soli tre weekend per via dei lavori principali dei membri e in realtà non è nemmeno il primo disco della band perché Ian Curtis presentò tra il 1977 e il 1978 un disco alla RCA di Manchester che non venne pubblicato e Transmission era una canzone di questo disco inedito.

Un'immagine che davvero ha avuto un successo strepitoso anche al di fuori della fanbase della band. Magliette, accessori, tatuaggi e street art che ritraggono questo disegno dominano la scena dagli anni 80. Nel 2015 la BBC tramite un sondaggio la elegge la miglior maglietta di tutti i tempi, battendo mostri sacri come Pink Floyd, Rolling Stones e Nirvana.

Sì, ne ho una variante pure io

Nemmeno la Disney è rimasta immune da questa moda, ma questa mossa divise un po' le opinioni della band a riguardo.


L'epoca dei social fotografici: tumblr, pinterest e instagram poi sono tutt'ora pieni di reinterpretazioni e meme.


... e di chi forse non sa nemmeno cosa sia, ma piace e se ne fa bella mostra.

venerdì 2 ottobre 2020

Pearl Jam - Gigaton


I Pearl Jam sono gli unici sopravvissuti del Seattle sound degli anni 90; mentre altre band come gli Screaming Trees o gli Hammerbox hanno chiuso l’attività dopo pochi anni, il gruppo guidato da Eddie Vedder sforna ancora album a quasi trent’anni dall’esordio con Ten del 1991, anche se le loro uscite discografiche sono sempre più dilazionate nel tempo e da Lightning Bolt al nuovo Gigaton sono passati ben sette anni.

Il nuovo album è composto da dodici tracce in cui il grunge e la voce graffiante di Vedder fanno da condimento di base e che spaziano tra vari stili e sottogeneri del rock. Aprono il disco due pezzi dal suono classico quali Who Ever Said e Superblood Wolfmoon e già subito dopo troviamo la prima violenta sterzata con il suono post punk di Dance on the Clairvoyants. La sperimentazione sonora dei Pearl Jam in questo nuovo disco arricchisce il disco di sonorità molto diverse, con il melodico midtempo di Seven O’Clock e grazie anche alle ballad Buckle Up e Retrograde. Oltre a queste troviamo anche la ballad acustica Comes Then Goes, interpretata con solo voce e chitarre, e la straordinaria traccia di chiusura River Cross che scivola verso il gospel grazie ai cori sul ritornello.

Come è chiaro dall’immagine di copertina, che mostra un ghiacciaio che si scioglie, le tematiche del disco toccano varie volte i cambiamenti climatici con anche una critica al presidente americano Donald Trump, citato per nome in Quick Escape e attraverso il riferimento letterario di Bob Honey (personaggio di un romanzo satirico di Sean Penn) in Never Destination che è anche il brano dal sound più vicino al grunge puro di tutto il disco.

In conclusione, anche se Gigaton di certo non contiene singoli della potenza di Alive, Daughter o Just Breathe resta comunque un disco fortissimo in termini di qualità complessiva dei brani, perché tutte le dodici tracce sono di alto livello e confermano che proprio grazie alla loro capacità di essere dei rocker a 360 gradi, e non legati a una singola etichetta, i Pearl Jam sanno ancora realizzare ottima musica, in un decennio in cui purtroppo il grunge della West Coast è solo un lontano ricordo.

martedì 22 settembre 2020

Intervista ad Alessia Scolletti dei Temperance

Da tre anni Alessia Scolletti è la voce femminile dei Temperance, uno dei gruppi più importanti e interessanti del panorama metal del nostro paese. Dallo scorso anno, inoltre, Alessia è impegnata nel progetto musicale new age degli ERA, guidato dal francese Éric Levi. Per parlarci di questi due gruppi e anche un po' di sé stessa, Alessia ha accettato la nostra proposta di un'intervista che offriamo di seguito ai nostri lettori.

Ringraziamo Alessia per la sua cortesia e disponibilità.





125esima Strada: Ciao Alessia, e grazie del tempo che ci stai dedicando. Partiamo subito parlando del vostro nuovo lavoro Viridian, ci racconti come è nato questo disco?

Alessia Scolletti: Ciao, grazie a te per l'invito, è un piacere fare quattro chiacchiere con te.

Il nostro quinto album Viridian ha semplicemente raccolto il testimone passatogli dall'album precedente, Of Jupiter and Moons, e ha proseguito la staffetta: è l'immagine migliore per descrivere ciò che realmente è avvenuto nei quasi due anni che hanno separato i due lavori. La cura del dettaglio, la mescolanza di generi e influenze, la ricerca di un sound più naturale e il dare maggiore spazio a strumenti veri sono tutti elementi presenti in Of Jupiter and Moons che in Viridian sono stati ripresi e approfonditi, grazie anche all'aver avuto più tempo per lavorare insieme. Siamo molto fieri di questo album, l'unico rammarico è appunto non essere riusciti a promuoverlo come avrebbe meritato per via delle restrizioni del Coronavirus, fatto che ha penalizzato la maggior parte degli artisti e delle band che come noi si trovavano in tour nel periodo febbraio-marzo.


125esima Strada: C'è qualche pezzo dell'album a cui sei più legata? Se sì, ci spieghi perché?

Alessia Scolleti: Non ho mai nascosto quanto Nanook, il nono brano di Viridian, mi abbia saputo conquistare fin dal primo istante, quando ancora non era nient'altro che una bozza: la sua cavalcata in terzine, il meraviglioso connubio creato dall'unione del suono dell'arpa con quello della cornamusa, il climax che si protrae per tutta la durata della canzone... Tutti elementi che mi hanno fatto letteralmente innamorare di questo brano. Il coro di voci bianche nel punto centrale della canzone ha poi dato quel tocco di magia in più che l'ha resa ancora più speciale: è difficile non emozionarsi!



125esima Strada: Ciò che a me è piaciuto molto del disco è l'esperimento del crossover, con il coro dei bambini, il coro gospel e la partecipazione di Laura Macrì. Ci racconti come è nata l'idea di queste contaminazioni sonore?

Alessia Scolletti: Siamo una band di cinque elementi, ognuno con gusti e background musicali differenti... Le contaminazioni sono inevitabili! Ed è bello come riusciamo a mettere un po’ della personalità di ognuno di noi all'interno dei brani. Ci piace continuamente rinnovarci e metterci alla prova, stupire e sperimentare: si può dire che è diventato ormai un nostro marchio di fabbrica!


125esima Strada: Mi è sembrato che il disco sia anche molto influenzato dall'AOR degli anni ottanta. È stata una vostra scelta precisa? Siete molto appassionati di questo genere?

Alessia Scolletti: Ok, mi sa che ci hai “beccati”: in particolar modo io e Marco siamo molto legati a questo genere, per cui ogni tanto torna a fare capolino tra un brano e l’altro! Sarai d’accordo con me poi che con tre cantanti si possono creare un sacco di melodie intrecciate in più che tanto si sposano con il melodic rock!

Il tutto comunque avviene in maniera spontanea e naturale, non si parte mai con l’idea di dare vita a tavolino ad un brano esclusivamente AOR, metal o altro: si portano in studio le idee, si ascoltano, si rimodellano, aggiustano e assemblano e pian piano il brano prende forma.


125esima Strada: Da qualche tempo sei entrata anche negli ERA, lo stupendo progetto New Age di Eric Lévi. Come sei entrata a far parte di questo gruppo e che posto occupa la New Age nella tua vita artistica?

Alessia Scolletti: Essere entrata a far parte del progetto ERA è una delle cose più incredibili che mi sia successa negli ultimi tempi, ed il come è avvenuto è decisamente ancora più incredibile: di fatto sono stata contattata da Éric Levi in persona in seguito all’aver visto alcuni miei video sia coi Temperance che in versione solista! Ha fin da subito espresso il suo totale apprezzamento per la figura mia e di Michele [Guaitoli, voce maschile dei Temperance e compagno di Alessia nella vita, N.d.R.] e ci ha proposto di iniziare una collaborazione con lui, la quale avrebbe poi portato ad esibirci sul palco con lui per la sua prima tournée ufficiale dopo ben 25 anni di attività! Inutile dire che solo l’idea ci fece salire l’entusiasmo alle stelle!

Il vero e proprio battesimo con il genere New Age però l’ho avuto con Enigma, progetto tedesco quasi contemporaneo a ERA, il quale ha condito tanti dei miei pomeriggi da studente!



125esima Strada: Passiamo a temi più personali. Durante il lockdown tu e Michele avete lanciato l'idea delle Quarantine Songs, cioè avete registrato delle cover di altri generi musicali, per mantenere i contatti con il vostro pubblico e tra le altre avete inciso un'inedita versione di Something Stupid. Questo mi porta a chiederti: oltre al metal quali generi musicali amate e ascoltate?

Alessia Scolletti: In quel momento sia io che Michele eravamo reduci da due tournée diverse entrambe interrotte: siamo rientrati in Italia con non poca fatica e ad aspettarci c’era una situazione tutt'altro che rassicurante... Lo sconforto era tanto, non lo nascondo. Le “Quarantine Songs” sono sì stato un mezzo per restare in contatto con amici e sostenitori, ma anche un modo per infondere a noi stessi un po’ di svago e positività in un periodo davvero difficile: avremmo voluto registrarne di più! Ma scegliere era difficile.

I generi che ci influenzano, come hai già intuito da te, non si limitano al metal e al rock: personalmente mi sono sempre sentita molto legata a tutto ciò che è nato dagli anni 80 (in particolar modo new wave/post-punk e dance) e, in modo del tutto insospettabile, seguo anche molti artisti dell’odierna scena pop internazionale (da Lady Gaga a Billie Eilish, passando per Bruno Mars, One Republic, Coldplay e molti altri). In qualcosa sicuramente avrò influenzato anche Michele, ma posso svelare ad esempio che tra i suoi gruppi preferiti “non-metal” ci sono i Muse!


125esima Strada: Chi sono i cantanti e le cantanti che ti hanno più influenzato durante la tua carriera?

Alessia Scolletti: Il rock, e in particolar modo hard-rock e AOR, hanno fortemente influito sul mio modo di cantare, per cui nomi come Steve Lee (Gotthard), David Coverdale (Whitesnake), Joey Tempest (Europe), Fergie Frederiksen (Toto), Steve Overland (FM) e altri di quel filone mi hanno sempre accompagnata nel mio percorso di crescita.

Sembrerà strano, ma non ci sono state voci femminili ad aver colpito nel profondo l’Alessia che stava muovendo i primi passi nel mondo della musica!


125esima Strada: E chi sono invece i tuoi preferiti della scena attuale?

Alessia Scolletti: Nel mondo musicale attuale si può assistere a un gran numero di sfumature di colori, timbri e stili, è una cosa bellissima per chi come me ama spaziare tra i generi!

Restando nel metal, voci come quella di Russell Allen, Daniel Gildenlöw (Pain of Salvation), Mikael Åkerfeldt (Opeth), Devin Townsend - solo per citarne alcuni - restano inarrivabili: dopo tanto tempo ho anche trovato delle voci femminili che hanno saputo colpirmi nel profondo, Floor Jansen e Kobra Paige (Kobra and The Lotus) su tutte.

Al di fuori del metal invece, voci di artisti come Jessie J , Sam Smith, Bruno Mars, Lady Gaga, Fever Ray, Chris Cornell (RIP), Mike Patton e tanti altri.

venerdì 4 settembre 2020

An American Prayer: l'ultimo album dei Doors

Sette anni dopo la morte di Jim Morrison, e dopo due album in cui alla voce di alternavano Robby Krieger e Ray Manzarek, i Doors pubblicarono il loro ultimo album intitolato An American Prayer in cui alla voce tornò proprio Morrison: il disco è stato infatti realizzato aggiungendo delle basi musicali alla voce di Jim che legge le proprie poesie. Come si può chiaramente immaginare in queste incisioni Jim Morrison non canta, ma parla, o meglio recita i propri testi; non troveremo quindi la voce grintosa e graffiante di Break On Through ma un disco unico nel suo genere, a tratti forzato ma comunque interessante.


Dal punto di vista canoro l’album è sicuramente singolare, ma da quello musicale questa composizione non ha nulla da invidiare agli album precedenti della band. Le basi musicali che i Krieger, Manzarek e Densmore hanno composto per questo atipico album costituiscono infatti una sorta di compendio degli stilemi classici dei Doors, passando dal rock psichedelico, al jazz ai suoni latini e al blues, con anche alcuni rimandi chiari a loro pezzi storici come Riders on the Storm e The End. Il risultato complessivo è una sorta di talking blues in cui le uniche parti effettivamente cantante sono uno snippet di Peace Frog e una versione live composita di Roadhouse Blues che unisce una registrazione a New York con una a Detroit del 1970.

An American Prayer non è sicuramente il disco migliore dei Doors, ma resta un album importante che mostra la straordinaria creatività della band che è riuscita a realizzare un disco di buon livello in condizioni molto particolari. Questo album è notevolmente diverso dai precedenti e richiede un’atmosfera d’ascolto altrettanto diversa: non sono pezzi fatti per essere ascoltati nelle folle di un concerto, ma piuttosto in un momento di raccoglimento e isolamento. Fatte queste premesse e approcciato con le giuste aspettative, An American Prayer si rivela un disco prezioso, per conoscere aspetti meno noti dello straripante Jim Morrison e per avere un’altra prova della ricchezza musicale di questa iconica band.