venerdì 4 marzo 2022
Intervista ad Annalisa Parisi
125esima Strada: Ciao Annalisa e anzitutto grazie per il tempo che ci stai dedicando. Raccontaci qualcosa di te, come e quando è nata la tua passione per la musica jazz?
Annalisa Parisi: Grazie a te, per aver scritto di me e del disco con parole così lusinghiere. La mia passione per il jazz è nata per caso e non è stato un amore a prima vista. Quindici anni fa circa, mi iscrissi a lezione di canto moderno in una scuola. Dopo poco, per praticare davvero, presi parte all'unico corso di musica d'insieme, senza sapere che si sarebbe suonato jazz. Lì cominciai ad incuriosirmi ma è stato lungo il tempo in cui ho percepito questo genere, di cui fino a quel momento ero stata a digiuno, come difficile da ascoltare e lontano dal mio sentire. La passione e' arrivata grazie all'incontro con Daniela Panetta e Cinzia Roncelli, due maestre meravigliose.
125esima Strada: Le tue incisioni si ispirano ai quartetti della West Coast degli anni 50, se non sbaglio a interpretare. Per quale motivo ami questo stile di jazz più degli altri, se così si può dire?
Annalisa Parisi: Non so bene cosa risponderti. È solo questione di pancia, mi appartiene di più. Non amo la musica spigolosa.
125esima Strada: Parliamo dei tuoi album e partiamo da Strings, in cui interpreti dei classici della musica pop nel tuo stile cool jazz. I brani sono molto eterogenei, come li hai scelti?
Annalisa Parisi: Durante il lockdown dell'anno scorso, il bravissimo fonico Vins de Leo, ha avuto l'idea di invitare nel suo studio piccoli ensemble per registrare dei mini live che, senza alcun ritocco, sarebbero stati trasmessi su YouTube. Avevamo poco tempo a disposizione e poche occasioni per provare, per via della situazione. Così ho scelto di presentarmi con una formazione particolare ma con la quale, anni fa, avevamo già imbastito un progetto sui Beatles. Tra quei brani e altri che avevo in repertorio con Andrea Rotoli, abbiamo scelto quelli nei quali l'intesa tra noi era massima e che avrebbero potuto mantenere viva l'attenzione dell'ascoltatore.
125esima Strada: Invece in Blue Skies reinterpreti degli standard di Irving Berlin, sempre con un tocco di originalità. Cosa ti lega a Berlin che ti ha portato a questa scelta?
Annalisa Parisi: Nel mio percorso ho affrontato percorsi monografici dedicati allo studio del repertorio dei grandi compositori della storia del jazz. I brani di Berlin mi hanno sin da subito rapita; la musica e le parole mi fanno viaggiare con la fantasia e quando li interpreto mi ritrovo dentro alle situazioni che vengono raccontate. Un po' come quando Mary Poppins entra nel dipinto e diventa protagonista della scena. In Change partners, Always, I used to be color blind, When I lost you... vivo davvero la sensazione dell'attesa, la tristezza, lo stupore, la gioia e spero di riuscire a trasmetterlo.
125esima Strada: Molti dei brani di Berlin hanno le loro più celebri interpretazioni in quelle di Ella Fitzgerald. Com'è confrontarsi con una leggenda di tale portata? Ti ispiri a lei nel tuo canto?
Annalisa Parisi: Meglio non pensare al confronto, sono già abbastanza ansiosa :-) Lei è pazzesca e inarrivabile. Per un anno circa, durante gli spostamenti in macchina, ho ascoltato lei, solo lei.
125esima Strada: Oltre a Ella chi sono le cantanti del passato o del presente che ti hanno più influenzata?
Annalisa Parisi: In primis Carmen McRae con la sua voce così comunicativa e un timbro dalle infinite sfumature. Poi Shirley Horn, Nina Simone, Natalie Cole, Diana Krall. Molti gli uomini: Chet Baker, Nat King Cole, Tony Bennett, Mel Tormé, Kurt Elling.
125esima Strada: Oltre al jazz quali altri generi musicali e quali altri artisti ti piacciono?
Annalisa Parisi: Mi piace la musica rock e la musica leggera. Ho amato e amo i Queen, The Beatles, Pino Daniele, Enzo Jannacci, Niccolò Fabi...
125esima Strada: Cosa hai in programma per il tuo futuro dal punto di vista discografico?
Annalisa Parisi: Per ora non ho le idee chiare. Marzo sarà un mese denso di concerti e nel repertorio del quartetto inseriremo qualche brano nuovo. Chissà che non ci venga qualche idea...
venerdì 25 febbraio 2022
Rhapsody of Fire - Glory For Salvation
A tre anni da The Eighth Mountain tornano i Rhapsody of Fire per il secondo album con la rinnovata formazione che vede Giacomo Voli, fresco vincitore di All Together Now su Canale 5, alla voce e Alessandro Sala al basso; la band si arricchisce anche della new entry Paolo Marchesich alla batteria in sostituzione di Manu Lotter che era entrato nei Rhapsody nel 2016 in concomitanza con Voli. Il nuovo album, pubblicato alla fine del 2021, si intitola Glory For Salvation ed è composto di tredici tracce che ripropongono la formula vincente del gruppo il cui suono basa la propria forza sulle melodie composte da Roberto De Micheli e Alex Staropoli, dalla voce e dalla forza interpretativa di Voli e dai potenti cori che spesso lo accompagnano con seconde voci e controcanti. Il disco è il secondo capitolo della Nephilim Empire Saga che narra di creature nate dalla mescolanza tra uomini e angeli che hanno poteri speciali tra cui quello di riportare in vita i defunti, il protagonista della storia in questo capitolo dovrà superare una serie di sfide per tornare alla vita sulla Terra.
Rispetto all'album precedente il suono di Glory For Salvation è generalmente più patinato e di più facile impatto sull'ascoltatore come confermato dal fatto che il disco parte subito con un pezzo potente e accattivante, intitolato Son of Vengeance, rinunciando alle intro che hanno sempre caratterizzato gli album dei Rhapsody of Fire da Legendary Tales del 1997. Inoltre rispetto al passato i cori hanno un ruolo più importante, tanto che le formazioni corali che partecipano al disco sono due: uno definito epic choir e uno operistico, con Giacomo Voli a rinforzare le fila di entrambi.
Come tutti gli album della band anche la loro nuova opera è un concept album che deve essere ascoltato nella sua interezza, si notano in ogni caso momenti che spiccano rispetto al resto come Abyss Of Pain II, che segue Abyss Of Pain che faceva da intro in The Eighth Mountain, brano epico di quasi undici minuti in cui si trova una sorta di compendio della musica dei Rhapsody of Fire con cori potenti, sonorità epiche e divagazioni canore di Giacomo che si lancia in un growl e che canta parte del pezzo anche in italiano. Subito dopo si trova un'altra traccia di spicco con Infinitae Gloriae cantata da Giacomo in inglese, latino e italiano. Gli esperimenti locali non finiscono qui, Giacomo si cimenta infatti in un breve growl anche in Chains of Destiny (uno dei brani più incalzanti del disco che compare come bonus track in giapponese nell'edizione stampata in Giappone del CD) mostrando così in questo album un lato finora inedito delle sue capacità canore. Tra i brani migliori si trova anche la bellissima Terial the Hawk, aperta dall'intro Eternal Snow, che grazie ai flauti suonati da Manuel Staropoli e le uilleann pipes di Giovanni Davoli evoca atmosfere folk e nordiche che ricordano le incisioni più recenti dei Nightwish.
Il disco contiene un'unica ballad intitolata Magic Signs le cui atmosfere magniloquenti si estendono per tre brani perché, oltre alla versione principale, è cantata anche in italiano e in spagnolo con i titoli Un'Ode per l'Eroe e La Esencia de un Rey.
L'ascolto di Glory for Salvation scorre via senza intoppi, perché l'album non contiene momenti deboli e si lascia apprezzare dall'inizio alla fine, al punto che arrivati al termine dell'ultima traccia si ha subito voglia di premere di nuovo play per cogliere nuovi aspetti di questa composizione. Questo nuovo album, il tredicesimo, mostra la band in grande forma e all'apice della sua creatività e che trova sempre nuova freschezza compositiva grazie anche ai nuovi elementi che portano il proprio contributo. Non resta che sperare che dopo due anni di pandemia la band riesca finalmente a portare presto dal vivo la loro ultima fatica in studio, perché il suono potente di questo nuovo album sarà sicuramente detonante anche sul palco.
mercoledì 16 febbraio 2022
La morte di Keith Flint
Flint aveva passato gli ultimi giorni della sua vita in apparente serenità. Sabato mattina, due giorni prima di essere trovato senza vita, aveva partecipato alla Chelmsford Central Parkrun, corsa amatoriale che si tiene ogni sabato al parco di Chelmsford, capitale della contea, su una distanza di cinque chilometri. Il cantante finì la competizione in ventidue minuti e ventuno secondi, stabilendo il proprio record personale. Dopo la corsa, pranzò con il suo personal trainer al Galvin Green Man di Chelmsford dove sembrava essere felice della sua forma fisica e dove scherzò anche con una famiglia seduta a mangiare vicino a loro, dopo che uno dei bambini fece cadere a terra una forchetta. Keith riservò qualche battuta anche al fotografo che lo aveva seguito nel locale a cui disse di voler essere ancora the firestarter, scherzando sul fatto di essere seduto vicino a un camino spento. Il giorno successivo, il cantante fu visto in un altro locale di Chelmsford, The Compasses, a bere senza dare particolari segni di stress o depressione.
Il giorno seguente, lunedì 4 marzo, la polizia trovò Flint morto impiccato nella sua villa nella periferia di Dunmow. Da subito gli inquirenti esclusero che si trattasse di omicidio, perché non c'erano segni di scasso, lotta o null'altro che facesse pensare a un atto criminale. La band confermò subito su Twitter il decesso del loro vocalist e il DJ Liam Howlett, con un drammatico post su Instagram, chiarì subito che il gruppo non aveva dubbi sul fatto che Keith si fosse tolto la vita. Del resto che Flint soffrisse di depressione non era una novità; nei primi anni duemila, dopo che la band non riuscì a replicare il successo di The Fat of the Land e dopo un tentativo fallimentare di disco solista, contrariamente ai buoni risultati ottenuti in solitaria dall'altro vocalist Maxim, Keith sviluppò una grave dipendenza da alcol e medicinali. Dipendenza da cui riuscì a liberarsi solo grazie al contributo della moglie, la DJ giapponese Mayumi Kai (nota con lo pseudonimo DJ Gedo Super Mega Bitch), sposata nel 2006.
Tuttavia il matrimonio tra i due era fallito alla fine del 2018 e nonostante sembrasse sereno e allegro all'esterno, Keith Flint stava attraversando un periodo difficile. Mayumi pochi mesi prima della morte del cantante aveva lasciato la casa nell'Essex, che Flint aveva comprato nel 1997 all'apice del suo successo. Nel febbraio del 2019 i due avevano messo in vendita la casa e Keith aveva contattato la moglie per provare a riconciliarsi con lei e a convincerla a rinunciare alla vendita della casa, ma la donna che si era trasferita di nuovo in Giappone fu inamovibile. Curiosamente l'omonimia causò problemi ad un altra DJ di nome Mayumi Kai che dovette chiarire sui social network di non essere la moglie di Keith Flint. Quelli coniugali non erano gli unici problemi che lo affliggevano, perché Keith al momento della morte aveva oltre sette milioni di sterline di debiti e la catena di pub di cui era proprietario era in negativo di cinquecentomila sterline. La delusione, la tristezza, e probabilmente la consapevolezza che non sarebbe mai tornato al successo di metà anni 90, portarono Keith a ricadere nelle proprie dipendenze; infatti l'autopsia stabilì che il cantante aveva in corpo alcol, cocaina e codeina al momento del decesso.
All'inchiesta tenutasi l'8 maggio 20019, il coroner comunicò le proprie conclusioni, secondo cui la causa della morte poteva essere il suicidio o un incidente domestico e che sarebbe stato impossibile arrivare a una conclusione definitiva. Purtroppo i fatti più recenti e il parere di Liam fanno propendere per la peggiore delle due ipotesi: Keith Flint è rimasto vittima della propria depressione e dei problemi che stava affrontando.
Fonti:
- Keith Flint dining with his personal trainer just hours before he ‘killed himself’
- Keith Flint: not enough evidence for suicide verdict, coroner rules
- Tragic Prodigy star Keith Flint 'begged his estranged wife to come home before hanging himself
- Keith Flint’s £1.5m mansion is up for sale five months after Prodigy star’s death at 49
- The Prodigy's Keith Flint dies aged 49
- Keith Flint's beloved Essex home sold for £1.4million a year after his death
- Tragic Prodigy star Keith Flint begged wife to reconsider split before ‘suicide’, friends claim
- Inside Keith Flint’s unlikely £1.5m country pad on six-acres of rolling countryside – but with flashes of his Prodigy wild side
- Prodigy star Keith Flint, 49, owed £7.3million in debts and taxes and put his £1.5m Essex mansion up for sale just days before his death
giovedì 3 febbraio 2022
Intervista a Giacomo Voli
Ringraziamo Giacomo per la sua cortesia e disponibilità.
martedì 25 gennaio 2022
Chi è la vocalist di Man in the Rain di Mike Oldfield?
Nel 1998 il compositore britannico Mike Oldfield pubblicò il terzo volume della serie Tubular Bells che conteneva tra le altre tracce il brano Man in the Rain, basato in modo molto evidente su Moonlight Shadow di cui è quasi un'autocover. Purtroppo su chi sia la vocalist che dà la voce al brano permane da allora molta confusione, i nomi che vengono proposti sono due: Cara Dillon e Pepsi DeMacque, ma le due vengono spesso scambiate.
Come si può facilmente riscontrare dal booklet dell'album, la vocalist che ha inciso la traccia in studio è l'irlandese Cara Dillon il cui nome compare come Cara from Polar Star in quanto al tempo la cantante faceva parte del duo Polar Star insieme a Sam Lakeman. Tuttavia la cantante non fu disponibile per le esibizioni dal vivo e venne sostituita da Helen "Pepsi" DeMacque, al tempo nota per aver fatto parte del duo Pepsi & Shirlie e per essere stata una corista degli Wham. Pepsi interpretò Man in the Rain al concerto di presentazione dell'album al Horse Guards Parade di Londra il 4 settembre del 98, nella tournée Then & Now svoltasi tra giungo e luglio del 1999 e al concerto The Art in Heaven Concert che si è tenuto nella notte tra il 31 dicembre 1999 e l'1 gennaio 2000 a Berlino.
In questo periodo, compreso tra la fine del 1998 e il 2000, Oldfield fu invitato dalla televisione tedesca al Golden Europe Award del 1999, dove fu insignito del premio Lifetime Award International, a interpretare Man in the Rain con Pepsi DeMacque, ma l'esibizione fu in playback e Pepsi fece quindi lip-sync sul cantato di Cara Dillon registrato in studio. Essendo questo il video più celebre del brano, di cui non esiste un videoclip ufficiale, ed essendo la canzone esattamente uguale a come suona dal disco, molti sono stati negli anni portati a pensare che la voce registrata in studio sia quella di Pepsi DeMacque. In ogni caso basta ascoltare una delle esibizioni dal vivo di Pepsi, che nel sopracitato concerto di Londra cantò anche Moonlight Shadow, per verificare che le due vocalist hanno voci completamente diverse: acuta e cristallina quella di Cara, potente e profonda quella di Pepsi.
Ad aumentare la confusione su chi sia l'interprete di Man in the Rain, talvolta viene riportato un terzo nome: quello di Heather Burnett. Anche in questo caso però il booklet chiarisce quale fu il ruolo di Heather perché il suo nome compare come additional vocals, cioè fece da corista a Cara Dillon.
Nel periodo della collaborazione tra Pepsi DeMacque e Mike Oldfield, la cantante partecipò anche alla realizzazione dell'album The Millennium Bell prestando la voce a tre tracce.
L'equivoco è stato quindi causato da una registrazione in playback, oggi molti ancora riportano il nome di Pepsi DeMacque come quello della voce solista di Man in the Rain, ma si tratta di un evidente errore: l'unica ad averla registrata in studio fu Cara Dillon.
martedì 18 gennaio 2022
James Taylor Quartet - Wait a Minute
Il James Taylor Quartet è una delle realtà di spicco dell'acid jazz degli anni 90; il gruppo esordì nel 1987 con Mission Impossible (album composto di cover di colonne sonore tra cui il celebre motivo omonimo di Lalo Schifrin) a cui seguì The Money Spyder nello stesso anno. Il terzo album del gruppo resta ad oggi la loro più celebre incisione ed uscì nel 1988 con il titolo Wait a Minute. Il disco è composto da dodici tracce, che salgono a tredici nell'edizione in CD, e che fanno esattamente ciò che ci si aspetta da una composizione del genere con un acid jazz ricco di innesti funk jazz guidato dall'organo Hammond suonato dal leader del quartetto James Taylor.
Tutte le tracce del disco suonano divertenti e di rapida presa, regalando così all'ascoltatore un disco di jazz di facile ascolto. Tra le dodici tracce ci sono otto composizioni inedite, tra cui la title track che è l'unica a contenere una linea vocale, e quattro cover quali una rivisitazione del tema di Starsky & Hutch, Jungle Strut di Gene Ammons (resa celebre anche da una cover dei Santana), il tema di Lulu di Johnny Harris e The Natural Thing di Jack McDuff. Nella versione in CD troviamo anche la cover di I Say a Little Prayer di Burt Bacharach interpretata negli anni da dive quali Dionne Warwick, Aretha Franklin e Diana King. Tra i brani più divertenti del disco troviamo, oltre alla già citata title track, anche gli echi caraibici di Indian Summer (da non confondere con l'omonima canzone dei Doors) e le suggestioni sudamericane di Baion-Ara.
Il James Taylor Quartet proseguì dopo Wait a Minute con il jazz strumentale per un solo disco, per poi cambiare radicalmente strada negli anni 90 passando a una mescolanza di soul e funk cantato e da allora l'attività della band non si è mai arrestata e oggi ha all'attivo più di trenta album, di cui alcuni firmati con lo pseudonimo di New Jersey Kings, l'ultimo dei quali intitolato Baker's Walk è uscito nel 2021. La discografia del combo guidato da James Taylor, originario di Rochester nel Kent, è costellata di successi e collaborazioni sia in studio sia dal vivo tra le quali Wait a Minute occupa un posto di rilievo e può essere un buon punto di partenza per scoprire questo straordinario gruppo e anche un facile primo ascolto per chi vuole entrare nel magico mondo della musica jazz.
lunedì 10 gennaio 2022
Rap: Una storia, due Americhe di Cesare Alemanni
Anzitutto l'autore spende gran parte del suo scritto nello spiegare il contesto sociale in cui le varie fasi del rap si sono sviluppate, passando quindi dai movimenti del black power alle rivolte di Los Angeles fino all'impoverimento di Detroit a causa dello spostamento della manodopera dell'industria automobilistica. Più avanti nel volume troviamo anche l'impatto che eventi più recenti, come l'11 settembre e le presidenze Obama e Trump abbiano avuto sulla musica hip hop.
In secondo luogo Alemanni non edulcora mai la propria narrazione mettendo in evidenza le contraddizioni e la superficialità di certe frange del rap che si ispirano a modelli comportamentali violenti, al contempo non si lascia andare a facili giudizi spiegando sempre quale sia il background di tali scelte. L'analisi dell'autore è molto lucida e distaccata anche nell'analizzare le azioni degli ultimi due presidenti, sottolineando l'incauto ottimismo di Obama, che invitava i genitori afroamericani a dare il buon esempio ai figli quando molti degli adolescenti afroamericani non avevano uno o entrambi i genitori, o l'inadeguatezza di Trump che Alemanni non esita a definire parafasciscta.
Trovare difetti a questo libro è veramente difficile perché funziona sotto praticamente tutti i punti di vista, dando un buon quadro di insieme su un tema sfaccettato e complesso come quello della musica rap e costituisce proprio per questo un ottimo prodotto come in italiano se ne vedono pochi.