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martedì 1 agosto 2017

Alice Cooper - Paranormal

Sei anni dopo l'ultimo album Welcome 2 My Nightmare (da non confondere con il quasi omofono Welcome To My Nightmare del 1975) torna Alice Cooper con un nuovo lavoro registrato in studio, il nuovo disco si intitola Paranormal ed è un doppio album che contiene dieci nuove tracce (che vedono la presenza di Larry Mullen jr degli U2 alla batteria) sul primo disco, più altre due registrate con la band originale (per la prima volta dal 1973) e sei registrazioni live di pezzi storici del rocker di Detroit sul secondo disco.

Iniziando l'ascolto stupisce la scelta di aprire l'album con una ballad, la title track; stupisce ancora di più constatare che il pezzo è debole e poco convincente nonostante la presenza di Roger Glover al basso. Con la seconda Dead Flies salgono i ritmi e troviamo il primo brano veloce dell'album, ma purtroppo delude anche questo con un ritmo che pare forzato e poco naturale. Passando alla terza traccia sembra di aver cambiato album, perché finalmente troviamo il primo pezzo nello stile di Alice Cooper che conosciamo, con un hard rock divertente ed energico intitolato Fireball. Proseguendo l'ascolto si conferma l'ipotesi che l'avvio deludente sia stato solo un incidente, perché troviamo la traccia migliore dell'intero disco intitolata Paranoic Personality caratterizzata da un riff potente e da un altrettanto potente controcanto sul ritornello che entra in testa come un martello pneumatico. Con Fallen in Love incontriamo anche il secondo ospite del disco: il chitarrista e cantante degli ZZ Top Billy Gibbons, e il riff di apertura è talmente distintivo dello stile di Gibbons che sembra di essere stati trasportati in un album del terzetto texano. Il pezzo ci regala un ascolto di Alice Cooper in un'insolita veste blues rock, il duetto vocale dei due amalgama perfettamente lo stile canoro di questi colossi del rock così diversi tra loro. L'esperimento del blues rock viene riproposto anche nel pezzo successivo, il rapido e incalzante Dynamite Road che vira in parte verso lo stoner rock.

Con Private Public Breakdown troviamo un midtempo divertente che rallenta leggermente il ritmo del disco che però riparte subito dopo con Holy Water e Rats, due pezzi veloci ed allegri che preludono alla seconda ballad che chiude il primo disco. Ma fortunatamente The Sound of A è un bel pezzo ispirato e dall'atmosfera psichedelica decisamente migliore di quello di apertura.

Inutile nascondere che c'è molta curiosità per i pezzi nuovi registrati dalla band originale, quella che risale al periodo in cui Alice Cooper era il nome del collettivo, composta da Neal Smith alla batteria, Michael Bruce alla chitarra e Dennis Dunaway al basso (il quinto membro Glen Buxton è morto nel 1997). Appena premuto il tasto Play dopo aver inserito il secondo disco l'attesa è ripagata alla grande. Con Genuine American Girl troviamo un rock and roll divertente dal testo molto scherzoso che fa rivivere i fasti della band delle origini, il secondo brano You and All of Your Friends continua sulla strada tracciata dal precedente dimostrando che a distanza di oltre quarant'anni i quattro musicisti hanno trovato subito l'intesa delle origini.

Chiudono il doppio album sei tracce storiche registra dal vivo il 6 maggio 2016 a Columbus, nell'Ohio. I pezzi scelti sono No More Mr. Nice Guy, Under My Wheels, Billion Dollar Babies,
Feed My Frankenstein, Only Women Bleed e School's Out.

Paranormal non è un capolavoro al pari di Raise Your Fist And Yell o Trash, ma è sicuramente un ottimo disco fatto di pezzi di alto valore (a parte i primi due). Stupisce comunque la voglia di sperimentare di Cooper che si lancia in territori fin'ora inesplorati come il blues rock, e riprende quelli abbandonati da oltre quattro decadi trovandosi di nuovo perfettamente a proprio agio. Paranormal non sarà una pietra miliare della carriera di Alice Cooper, ma è sicuramente una prova che questo mostro sacro dello shock rock ha ancora molte frecce al proprio arco.

lunedì 24 luglio 2017

Pino Scotto Bubbles Fest - Pavia, 23/7/2017

Il concerto di Pino Scotto al Bubbles Fest è ormai una "classica" dell'estate pavese. Giunta alla sua quarta edizione, la manifestazione organizzata dalla Bubbles Crew ospita nel fossato del Castello Visconteo quattro serate di musica, condita con birra e ottima cucina, con alcuni tra i migliori gruppi italiani degli ultimi decenni. E dall'anno dell'inaugurazione la serata conclusiva vede la performance del leggendario rocker napoletano ed ex frontman dei Vanadium.

Pino è salito sul palco introno alle 22:30 accompagnato dalla sua band formata da tre musicisti di altissimo livello, ciascuno dei quali meriterebbe un posto in un ipotetico dream team del rock italiano. Il gruppo è composto da Dario Bucca al basso, Steve Angarthal (che suona con Pino fin dai tempi dei Fire Trails) alla chitarra e Marco Di Salvia alla batteria, e nonostante siano solo in tre producono un impatto sonoro che altre band realizzano con quattro o cinque elementi. Il trio colpisce il pubblico non solo per l'esibizione musicale perfetta, ma anche per alcune chicche della loro performance, come Angarthal che suona la chitarra come i denti e Di Salvia che nei momenti più concitati fa roteare la sua lunga chioma mentre suona.

I pezzi eseguiti da Pino spaziano per tutta la sua carriera musicale, attingendo sia dalla discografia dei Vanadium, sia da quella dei Fire Trails, fino al arrivare alla sua carriera solista e alternando quindi il canto in inglese a quello in italiano. Gli anni passano ma la voce di Pino resta forte e tonante come confermano i numerosi scream in cui si lancia e che esegue con la potenza degli anni migliori. In totale il quartetto regala un'ora e mezza di grande hard rock ai confini col metal, per un concerto all'insegna del divertimento e dell'energia ininterrotta

Come in ogni concerto di Pino, i pezzi cantati sono alternati dai suoi coloriti commenti socio-politici che, vista la location del concerto, non risparmiano nemmeno le zanzare e l'umidità. La voce di Pino si interrompe solo per pochi minuti circa a metà del concerto quando il cantante cede la scena ad Angarthal che esegue un brano dal suo album solista.

Tra un pezzo e l'altro Pino ricorda anche il compianto Lemmy Klimster di cui narra anche qualche aneddoto legato al tour italiano dei Motorhead di metà degli anni 80 in cui i Vanadium fecero da gruppo di apertura.

Al termine del concerto, lasciando il fossato del castello resta il ricordo del concerto a chiusura dell'evento che la Bubbles Crew ha organizzato anche quest'anno, portando a Pavia un piccolo estratto della migliore musica che il nostro paese abbia prodotto. Grazie Pino, per la bella serata. Grazie Bubbles Crew, ci vediamo l'anno prossimo.

domenica 9 luglio 2017

Litfiba Rugby Sound Festival - Legnano, 8/7/2017

Nota: questo articolo è stato scritto dal nostro guest blogger Tino che ringraziamo per il prezioso contributo.

Credit: Elena Di Vincenzo
Li vidi la prima volta nel 2011, mi pare fosse il tour successivo alla reunion e non nascondo che allora ebbi qualche perplessità: "ma ci credono davvero?" "Il concerto sarà bello?" Mi sbagliavo, e alla grande, il concerto fu fantastico e mi convinsi che, a volte, le minestre scaldate possono andare bene davvero.

Lessi con entusiasmo la recensione del concerto di marzo dello stesso tour e appena giunta voce di un altro concerto in zona nessun dubbio, dovevo andarci.

Solo che il livello dello spettacolo andato in scena all’Isola del Castello di Legnano, in occasione del Rugby Sound Festival, era qualcosa di diverso, di molto diverso, letteralmente uno tsunami di energia ha inondato le oltre 7000 persone che hanno atteso, anche sotto un po’ di pioggia e fulmini, la band toscana.

Con Lo spettacolo, Grande Nazione e Dio del Tuono, i Litfiba iniziano questo strepitoso concerto la cui scaletta abbraccia tutta la loro carriera iniziata nel lontano 1981 e che ha all'attivo ben 14 album in studio.

Credit: Elena Di Vincenzo
Ghigo sul palco è impeccabile e Piero Pelù è un vero leone che domina la scena, il pubblico è davvero molto partecipe tant'è che dalla posizione in cui stavo, durante Fata Morgana la voce del pubblico copriva quasi quella del cantante. Tante anche le canzoni tratte da Eutòpia, ben 4, comprese Maria Coraggio, dedicata a Lea Garofalo vittima della ‘ndrangheta e In Nome di Dio, dedicata alla strage del Bataclan di Parigi del 2015.

Immancabile critica alla classe politica affrontata dalla violenza di Dimmi il Nome dall'album Terremoto del 1993; l’immortale Regina di Cuori prepara il pubblico al rush finale fatto dalla bellissima Lacio Drom e Gira nel Mio Cerchio, i Litfiba chiudono con Cangaceiro (dall’album Pirata del 1989) e la storica El Diablo, inutile precisare la gioia e il delirio del pubblico.

Un concerto fantastico di una band che, nel panorama rock nazionale, non è seconda a nessuno. Litfiba, avete fatto bene ad ascoltare il consiglio di Elio e le Storie Tese che nel 2003 incisero Litfiba Tornate Insieme, e ora ve lo chiedo io … tornate di nuovo a regalarci serate così, magari ancora al Rugby Sound!!!

giovedì 29 giugno 2017

Deep Purple The Long Goodbye Tour - Assago, 27/6/2017

Vivere i concerti dal parterre è ben altra cosa, rispetto a vederli dalle tribune. Ci si ritrova nella calca, nel vivo della scena, a pochi metri dal palco e immersi nel caldo infernale della folla che inneggia alle star sul palco, e quando questi sono delle leggende del rock la serata assume contorni magici.

Eravamo proprio lì, sotto al palco ad attendere i Deep Purple, il cui live ad Assago è stato aperto dagli ottimi Tyler Bryant & The Shakedowns che hanno regalato quasi un'ora di hard rock divertente ed energico al punto giusto per scaldare la folla prima che alle 21 salisse sul palco la band capitanata da Ian Gillian. E appena sono partite le note di Time for Bedlam, tratta dall'ultimo album Infinite, è sgorgata l'energia del rock della band che ha travolto la platea per un'ora e quaranta della migliore musica di ogni tempo.

In questo tour in gruppo attinge da brani appartenenti a tutta la loro carriera, eseguendo sia i pezzi storici sia quelli nuovi. Infatti oltre ai classici come Fireball, Space Truckin' o Strange Kind of Woman, il gruppo ha eseguito quattro pezzi da Infinite e due da Now What?! del 2013. Questa scelta comporta ovviamente che dalla scaletta vengano esclusi pezzi storici come Highway Star o Child in Time, ma poco importa perché la scelta dei brani resta comunque ottima.

L'esecuzione dei pezzi è stata impreziosita da lunghi assoli di chitarra di Steve Morse e di tastiera di Don Airey che servono in parte a consentire a Gillian di riprendere fiato; infatti nonostante la prova più che soddisfacente, il cantante è forse quello che risente più del peso degli anni perché se l'estensione vocale è immutata e gli acuti sono ancora quelli degli anni migliori, lo stesso non si può dire della potenza. Nel suo lungo assolo, Airey ha aggiunto qualche frammento di La Donna è Mobile e di Nessun Dorma, aggiungendo un pizzico di italianità a questa serata milanese.

Il concerto si è chiuso con gli immancabili Smoke On The Water, Hush (introdotta dal Peter Gunn Theme) e da Black Night al termine dei quali Glover ha ricambiato l'affetto del pubblico lanciando i propri plettri alla folla.

Lasciando il Forum resta il ricordo di una serata storica, una di quelle in cui la storia del rock si ferma a Milano. E resta anche la consapevolezza che se questo è davvero il tour di addio della band, i quattro di Hertford lasciano i palchi in splendida forma e ancora pienamente in grado di reggere la scena; perché se è vero che Gillian è in debito di energia, i musicisti suonano ancora come quando erano all'apice della carriera.

E se, come sembra, questa serata storia non potrà ripetersi, resta almeno la felicità di esserci stati.

martedì 20 giugno 2017

Jimmy Page e Robert Plant - Walking Into Clarksdale

A metà degli anni novanta, dopo più di dieci anni dallo scioglimento dei Led Zeppelin seguito alla morte del batterista John Bonham, Jimmy Page e Robert Plant unirono di nuovo le proprie carriere per la realizzazione di due album. Il primo di essi fu il live No Quarter, dal titolo di un pezzo dei Led Zeppelin dall'album Houses of the Holy, pubblicato nel 1994 in cui il duo reinterpretò alcuni classici dell band e alcuni brani nuovi coadiuvati da un'orchestra egiziana e da un gruppo di strumenti a corda marocchino. Il secondo album registrato dal duo durante la temporanea reunion è invece un intero disco di inediti registrati in studio intitolato Walking Into Clarksdale e pubblicato nei primi mesi del 1998.

Walking Into Clarksdale è forse l'unico album mai uscito che fa veramente rivivere i fasti dei Led Zeppelin dopo il loro scioglimento, sebbene le melodie siano notevolmente diverse da quelle del quartetto emerge comunque una continuità musicale e il desiderio di sperimentazione che ha sempre contraddistinto i dischi della band.

Già dal primo ascolto si coglie quanto il disco sia melodico sia nella musica, in cui ovviamente spicca la chitarra di Page, che nel canto di Plant. L'album si apre con due brani solari e gioiosi come Shining in the Light e When the World Was Young, la seconda in particolare mostra un bel cambio di tempo tra la strofa lenta e il ritornello più veloce. Subito dopo troviamo sonorità più maestose ed epiche con Upon a Golden Horse, le stesse sonorità epiche si trovano in Most High, il pezzo più noto del disco che uscì anche in singolo e di cui fu realizzato un video, che riprende la sonorità mediorientali e magrebine che avevano caratterizzato il live No Quarter.

Nel disco sono presenti anche due ballad dal suono piuttosto tradizionale, quali Blue Train e Heart in Your Hand. Oltre a queste tra i pezzi più melodici troviamo il bellissimo midtempo Please Read the Letter dal testo particolarmente interessante che narra della bramosia per la donna amata a cui è stato lasciato un messaggio sulla porta di casa, Plant in seguito ricantò lo stesso brano nell'album Raising Sand realizzato con Alison Krauss nel 2007 notevolmente rallentato trasformando così il midtempo in una ballad. Altro brano melodico è When I Was a Child, dal ritmo lento e sognante che tende verso il dream pop.

Nell'album non mancano pezzi di hard rock puro più simili alla tradizione musicale dei Led Zeppelin come House of Love, che richiama le origini blues della band, e Burning Up, dal suono più sostenuto grazie anche a lunghe parti strumentali di chitarra. Anche la title track si ricollega al passato della band, con sonorità complesse e ricche di cambi di tempo e di stile a formare un blues rock ispirato proprio alla città di Clarksdale nel delta del Mississippi.

L'ultima traccia dei disco è un divertente e veloce rock and roll intitolato Sons of Freedom ed è forse il pezzo più veloce e vivace dell'intero disco.

Oltre alle dodici tracce ufficiali che compaiono nell'album, durante le sessioni di Waking Into Clarksdale ne furono incise altre due. La prima di esse è The Window, pubblicata come b-side di Most High il cui suono è davvero stupefacente perché non assomiglia a nulla di ciò che i due hanno fatto in passato, si tratta infatti di un trip hop molto lento dalle atmosfere oniriche che richiama molte produzioni di fine anni 90, ma lontanissimo dalla tradizione musicale dei Led Zeppelin. Il pezzo è una piccola gemma, semi sconosciuta, che dimostra come i due si trovino bene anche in sentieri ben lontani dal rock. La seconda traccia non inclusa nell'album è Whiskey from the Glass che è presente nel CD come bonus track solo nell'edizione giapponese; il pezzo, ricco di distorsioni, è molto simile a Most High ed è forse per questo che non ha trovato posto nella composizione finale dell'album

In conclusionem Walking Into Clarksdale è un disco di altissimo valore ma purtroppo largamente sottovalutato; la ricchezza del suo suono dimostra come Page e Plant non abbiano perso nulla della loro creatività nemmeno venticinque anni dopo il disco d'esordio, come abbiano saputo ammodernare il proprio repertorio e adeguarsi anche al rock di fine anni 90 non rinunciando alle contaminazioni musicali che da sempre hanno contraddistinto le loro incisioni. Ma soprattutto è l'unico album al di fuori della discografia dei Led Zeppelin che ne faccia rivivere la storia e l'unico esempio di come sarebbero state le produzione della band se il loro batterista non fosse morto troppo presto.

venerdì 21 aprile 2017

Deep Purple - Infinite

La band di Ian Gillan ha scelto il titolo giusto per il loro ventesimo album in studio: Infinite. Infatti la carriera dei Deep Purple sembra proprio infinita e, come dimostra questo nuovo disco, alla soglia dei 70 anni il quintetto di Hertford ha ancora voglia di incidere e sperimentare e sforna un disco di dieci tracce tutte notevolmente diverse tra loro e alcune di esse anche molto diverse da ciò che la band ha fatto in passato.

La formazione del gruppo resta la stessa degli ultimi album, da Bananas del 2003, e vede Ian Gillian alla voce e all'armonica, Tommy Bolin alla chitarra, Roger Glover al basso, Ian Paice alla batteria e Don Airey alla tastiera.

La prima cosa che si nota già da un primo ascolto è che in questo disco il suono dei Deep Purple tende fortemente verso il prog, con ricche melodie e lunghe parti strumentali in cui regnano il suono delle chitarre e quello dell'organo Hammond. Il disco parte con la sostenuta Time for Bedlam che prima di assestarsi su un prog rock piuttosto classico si apre con una voce robotica che troveremmo più consueta in un album dei Kraftwerk o dei Rockets e che per i Deep Purple rappresenta una bella innovazione. Con la seconda traccia intitolata Hip Boots troviamo già il primo energico cambio di rotta, con una pezzo vibrante dalle forti venature nere che tendono verso il funk. Nel disco troviamo anche due pezzi di chiara ispirazione rock and roll, quali One Night in Vegas, sostenuta principalmente dal suono dell'Hammond, e le più tradizionale Johnny's Band in cui sono le chitarre a reggere la base del pezzo.

Nel disco troviamo due pezzi più hard & heavy che sembrano catapultati ai giorni nostri direttamente dagli anni 70: On Top of the World contraddistinta dal suono più duro delle chitarre e Birds of Pray arricchita da una lunga parte strumentale al centro, tra la seconda strofa e il ponte che introduce alla terza. Spicca anche The Surprising che parte come una ballad per poi lasciare spazio a una lunga e complessa parte strumentale che fa da preludio a un nuovo cambio di tempo per tornare sui ritmi iniziali.

Chiude il disco una cover di Roadhouse Blues dei Doors con un riff iniziale che ricorda quello di La Grange degli ZZ Top e riproposta in chiave ancora più blues dell'originale, regalando così un nuovo omaggio alla musica nera che ha dato origine all'hard rock nei primi anni 70.

Nonostante non raggiungano più i successi di Child in Time o Smoke on The Water, i Deep Purple nel 2017 restano una delle band più interessanti del panorama rock mondiale, nella speranza che quello anticipato come ultimo tour non implichi che il gruppo intenda anche smettere di registrare album in studio e di regalare ai fan perle di assoluto valore come questa.

sabato 1 aprile 2017

Litfiba Eutòpia Tour - Assago, 31/3/2017

Credit: Gian Davide Alfano
Vedere dal vivo la propria band preferita è come una serata tra amici che non vedi da qualche tempo: non sai cosa aspettarti, ma sai che andrà alla grande. L'ho pensato appena ho visto le date dell' Eutòpia Tour e ho letto che ce n'era una al Forum di Assago, alle porte di Milano. Ho comprato il biglietto per un posto in Tribuna Gold ancor prima che uscisse l'album nuovo, perché Piero e Ghigo non hanno mai sbagliato un colpo e ovviamente non sarebbe successo nemmeno questa volta. L'album Eutòpia si è rivelato uno dei migliori della loro carriera e il concerto al Forum del 31 marzo è stato proprio lo attendevo: una grande festa del miglior rock sanguigno che il nostro paese (e non solo) abbia mai prodotto.

La folla gremiva gli spalti e il parterre, attendendo il gruppo di Piero e Ghigo con trepidazione. Quando poco dopo le 21 è partita Lo Spettacolo, che con il suo potente riff di chitarra iniziale sembra fatta proprio per aprire i concerti, un boato di gioia ha accolto la band. E da lì sono state due ore e mezza di energia pura che pervadeva ogni angolo del Forum. I Litfiba dimostrano che gli anni per loro non passano mai: Ghigo è sempre perfetto e presente alla chitarra e la voce di Piero è forte e tonante come ai tempi di Terremoto. La band sceglie sapientemente i pezzi per la setlist prendendoli da tutta la loro storia: da Lulù e Marlene tratto dall'album di esordio Desaparecido del 1985 fino all'ultimo Eutòpia, regalando così alla folla stili musicali diversissimi. Il gruppo passa infatti con estrema facilità dalla new wave, all'hard rock, alle atmosfere del deserto di Tex e Fata Morgana fino a momenti più tranquilli con le ballad Vivere il Mio Tempo, La Mia Valigia e Straniero, tratta proprio da da Eutòpia.

In questo arcobaleno di suoni non sono mancati momenti più esotici, con i ritmi gitani di Lacio Drom, in cui il pubblico ha dimostrato al massimo il proprio affetto per la band unendosi al saltellante ritornello ti porterò nei posti dove c'è del buon vino e festa festa fino al mattino, e il rock reggaeggiante di Spirito il cui coro uaea uae, uaea uae ha infiammato le migliaia di persone raccolte ad ascoltare la propria band preferita. I Litfiba dimostrano anche la loro creatività non dorme mai, nemmeno in un momento in cui possono godere del successo di un nuovo album appena pubblicato: dal vivo eseguono infatti anche un inedito mash-up tra Tex e Intossicato, due brani tra cui passano quasi trent'anni di storia.

Credit: Gian Davide Alfano
Ovviamente era alta l'attesa per le esecuzioni dal vivo dei pezzi nuovi e la band non ha deluso: i brani di Eutòpia eseguiti sono stati sette e dal vivo suonano ancora più forti che sul disco trasmettendo ancora una volta la maestria di una band che sforna solo capolavori. Durante tutto lo show ogni brano è stato impreziosito da stupende coreografie di luci e da proiezioni di immagini diverse e in movimento sullo sfondo del palco.

Verso la fine del concerto, dopo una versione quasi metal di Gira Nel Mio Cerchio, il gruppo ha dato un piccolo omaggio ai Doors con una cover di Break On Through (to the Other Side), appena prima di chiudere con El Diablo e la title track dell'ultimo album.

Tornando a casa senza voce per aver cantato a memoria tutti i pezzi eseguiti dai Litfiba resta il ricordo di aver assistito a una serata memorabile, a un concerto di una band leggendaria composta da geni della musica a tuttotondo che a oltre trent'anni dall'esordio mantiene la passione delle origini e le capacità di entusiasmare le folle che hanno solo i musicisti più esperti.

Grazie Piero, grazie Ghigo, grazie Litfiba. Siete grandi, siete eterni!

martedì 14 marzo 2017

Catorce de Septiembre, rock dalla Navarra

Come abbiamo già scritto molte volte sulle pagine di questo blog, la scena rock spagnola è incredibilmente ricca e riserva sorprese inaspettate anche tra le band meno note e dalla carriera breve. E' questo il caso del sestetto della Navarra noto come Catorce de Septiembre nato verso la fine degli anni 80. Nella formazione originale il gruppo era composto da Ecequiel Barricart alla voce, Eneko Abril alla chitarra e ai cori, Mikel Morote al basso, Andrés Pascual alla tastiera e Angel Telleria, detto "Telle" alla batteria.

Il primo album della band, ad oggi mai stampato su CD, si intitola Cuentas Pendientes ed uscì nel 1990. Il disco è composto da dodici brani di stampo pop rock decisamente allegro e incalzante, con il suono delle tastiere tipico di quel periodo, ma anche ricco di arpeggi di chitarra come nella tradizione dei grandi gruppi spagnoli. Nel disco troviamo dieci brani veloci più una ballad intitolata Tardes De Verano che si apre con un fischio da parte del cantante e un midtempo intitolato La Noche se Escapa. Tra i brani migliori troviamo anche le vibranti e sostenute Las Calles se Cierran, forse il pezzo più festaiolo dell'intero disco, e Historia De Hadas che con le sue sonorità più dure anticipa quello che sarà il suono distintivo dell'album seguente.

Il secondo e ultimo album della band uscì nel 1992 con il titolo Deseos Prohibidos e mostra da subito sonorità più vicine all'hard rock, risentendo sicuramente dell'influenza dei più noti Héroes del Silencio. La formazione dei Catorce de Septiembre vede un cambio per il secondo disco con l'ingresso di Daniel Ulecia al basso in sostituzione di Morote. Con la durezza del suono sale anche la qualità della musica che è nettamente superiore a quella del disco precedente. L'album parte alla grande con Gritos al Viento, ricca di riff di chitarra e sostenuta dal potente canto di Barricart, e procede su questa strada per tutti i dieci brani.

Questo secondo album propone un ottimo rock sanguigno e trascinante, il disco contiene otto tracce veloci più due ballad. La prima di queste si intitola Pasajeros Azules e presenta un suono simile a quello delle power ballad di fine anni 80, mentre la seconda Por Cuatro Billetes è arricchita da un poderoso coro sul ritornello. E' difficile individuare pezzi migliori in questo album perché davvero non c'è un attimo di noia, tutte le incisioni sono di altissimo livello. Se proprio dovessimo scegliere i pezzi migliori opteremmo, oltre alla già citata Gritos al Viento, per la cupa Oscuro Motel e la grintosa Las Leyes.

Oltre alla maggiore durezza dal punto di vista strumentale, ciò che colpisce di questo album è che il cantante dà prova di essere migliorato notevolmente mostrando maggiore potenza ed estensione, come si può sentire ad esempio dai ritornelli di El Resto De Mis Días e Bajo Los Puentes.

Per via delle brevità della loro carriera i Catorce de Septiembre sono una piccola gemma nel vasto panorama rock spagnolo, una gemma che merita comunque per la qualità della propria musica di essere ricordata al pari dei gruppi più blasonati.

mercoledì 15 febbraio 2017

Sir Lord Baltimore: i pionieri del metal americano

Quando si pensa ai progenitori del metal vengono di solito in mente i tre grandi gruppi dell'hard rock britannico degli anni 70 quali i Led Zeppelin, i Deep Purple e i Black Sabbath. Tuttavia anche molte band di oltreoceano hanno contribuito alla nascita del genere e tra queste le più famose sono sicuramente gli Stooges e gli MC5, ma oltre a questi c'è un gruppo di New York che troppo spesso viene ignorato nonostante abbia dato un contributi notevole alla nascita del metal: i Sir Lord Baltimore.

Come riportato dal volume Encyclopedia of Heavy Metal Music di William Phillips e Brian Cogan, il gruppo trasse il suo nome da quello di un personaggio minore del film Butch Cassidy and the Sundance Kid. La band nacque nel 1968 ed era in origine composta da un terzetto: John Garner cantante e batterista, Louis Dambra alla chitarra e Gary Justin al basso. Il loro primo album intitolato Kingdom Come uscì nel 1971 ed è composto da dieci pezzi caratterizzati da un hard rock grezzo e immediato di chiara ispirazione blues, ricco di riff e assoli di chitarra e di cori soprattutto nei ritornelli. Il suono è spesso duro e, oltre ad essere alla base dei pilastri che formeranno poi il metal, getta anche le fondamenta dello stoner rock. Nove dei dieci pezzi dell'album sono veloci e aggressivi, ad essi si aggiunge l'unica balla intitolata Lake Isle of Innersfree che si apre con un lungo arpeggio e che si distingue per i suoni morbidi e tendenti al prog. Nel disco spiccano anche la grintosa titletrack che apre l'album, il secondo brano I Got Woman dai suoni più neri e tendenti al funk e Hell Hound impreziosito dagli scream e dai falsetti del cantante. L'album è generalmente noto anche per essere uno dei primi (anche se non il primo in assoluto, come abbiamo spiegato in passato) per il quale è stato usato il termine heavy metal.

L'anno seguente la band inserì un quarto elemento nella propria formazione con l'aggiunta di Joey Dambra (fratello di Louis) come secondo chitarrista e nello stesso anno pubblicò il proprio secondo ed eponimo album. Il secondo disco è composto di sole sei tracce e da subito si capisce come la band voglia sterzare e muoversi verso suoni leggermente più lenti ma più curati e patinati: tutto suona più preciso e meno immediato rispetto all'album di esordio, dal cantato ai riff di chitarra a tutta la strumentazione. In genere le sonorità dei Sir Lord Baltimore si spostano più verso il blues seguendo le orme dei giganti dell'hard rock britannico. Tra i pezzi migliori troviamo Loe and Behold che mostra chiaramente come le doti vocali del cantante siano notevolmente migliorate sia in termini di potenza sia in termini di precisione. Notevole anche il pezzo di apertura intitolato Man From Manhattan e lungo oltre dieci minuti dai suoni sorprendentemente lenti e ancora tendenti al prog. Chiude l'album un pezzo indicato come live intitolato Where Are We Going che secondo quanto riportato da Wikipedia fu invece registrato in studio con il rumore della folla aggiunto a posteriori, sentendo il pezzo effettivamente si nota come il rumoreggiare del pubblico non abbia alcuna coordinazione con la musica che sembra un po' troppo perfetta per essere incisa dal vivo, sia a livello musicale sia canoro.

Pochi anni dopo la band iniziò a scrivere il materiale per il terzo album, ma visto lo scarso successo commerciale del precedente il progetto fu abbandonato. I Sir Lord Baltimore interruppero l'attività per più di trent'anni fino a quando John Garner e Louis Dambra decisero di riunire la band aggiungendo alla formazione Tony Franklin (ex bassista di innumerevoli band tra cui Whitesnake e Quiet Riot e che in Italia ha lavorato con Eros Ramazzotti e Vasco Rossi ) al basso. Il terzo album fu pubblicato nel 2006 con il titolo Sir Lord Baltimore III - Raw e in questo caso le sonorità del gruppo si spostarono decisamente sul metal. Il gruppo riprese parte del materiale scritto negli anni 70 e lo riattualizzò cambiandone soprattutto i testi che nella loro versione definitiva trattano temi cristiani e biblici e spesso riferiti all'Apocalisse. I riff di chitarra sono molto più duri rispetto in passato, le qualità canore di Garner sono ancora migliorate e in generale i suoni sono più ricchi e variegati. Il disco è composto da soli sei pezzi di ottima qualità, oltre ai due aggressivi brani di apertura spicca il midtempo Wild White Horses della durata di quasi sette minuti in cui i Sir Lord Baltimore dimostrano di essere in grado anche di rallentare i ritmi e suonare pezzi più rilassati con grande efficacia.

Dal 2006 i Sir Lord Baltimore non sono mai tornata in sala di incisione e la morte del 2015 di John Garner ha definitivamente chiuso la carriera della band, che nella loro lunga e travagliata carriera ha realizzato solo tre album. Tuttavia è un vero peccato che questo gruppo sia così sottovalutato e semisconosciuto, perché va comunque a pieno titolo considerato come una delle migliori band della storia dell'hard rock e del metal, senza cui il panorama musicale di oggi non sarebbe uguale.

mercoledì 8 febbraio 2017

La scelta della copertina di Slippery When Wet

Slippery When Wet è uno dei più celebri, e forse il migliore, album dei Bon Jovi; uscito nel 1986 contiene alcuni dei brani più noti della band come You Give Love a Bad Name, Livin' on a Prayer e Wanted Dead or Alive. La copertina del disco mostra uno sfondo nero bagnato, con la scritta Slippery When Wet tracciata nell'umidità con le dita. Nonostante l'immagine sia semplice, e comunque di grande impatto, la storia dietro la scelta di questa fu lunga e tortuosa e rischiò di compromettere il successo dell'album stesso.

Come raccontato nel 2015 dallo stesso Jon Bon Jovi a The Canadian Press, la prima immagine proposta dalla band fu una foto di loro quattro in una miniera di carbone, tutti con la barba lunga di un mese e mezzo, con indosso dei lunghi cappotti duster; in origine il titolo dell'album avrebbe dovuto essere Wanted Dead or Alive. Vista la foto, la casa discografica si rifiutò di usarla commentando "Over our dead bodies", ma al contempo realizzare una copertina era urgente perché You Give Love a Bad Name (singolo di lancio pubblicato prima dell'album intero) veniva già trasmessa dalle radio; la Mercury Records decise quindi di prendere l'iniziativa realizzando una copertina alternativa che mostrava il busto di una donna di cui non si vedeva il viso, con una maglietta gialla succinta che recava la scritta Slippery When Wet. La foto era stata scattata in precedenza in una discoteca, anche se Bon Jovi non specifica nel suo racconto se la donna era una cubista o una cliente del locale. All'immagine fu quindi sovrapposto un contorno rosa con il nome del gruppo. Questa volta fu la band a opporsi all'uso di questa immagine proprio per via del contorno rosa, poco adatto a un album rock. In un'intervista dell'epoca Bon Jovi diede una spiegazione leggermente diversa e più in linea con l'immagine del rocker ribelle che incarnava al tempo, cioè che la band scartò la copertina con la maglietta gialla perché questa incontrò il parere negativo del Parents Music Resource Center, l'ente che valuta sotto il profilo morale ed educativo i contenuti discografici, e il loro responso avrebbe bloccato la distribuzione del disco.

Per uscire dallo stallo Bon Jovi prese un sacco nero per la pattumiera, lo bagnò con acqua e poi con le dita scrisse nell'umidità Slippery When Wet e propose l'immagine come copertina dell'album, creando così l'immagine che oggi tutti conosciamo. La foto della ragazza con la maglietta gialla non fu comunque scartata: venne usata per la stampa giapponese dell'album e la stessa foto allargata venne usata anche per alcune edizioni del 45 giri di You Give Love a Bad Name.

Curiosamente altre edizioni di You Give Love a Bad Name propongono una foto della band con lo stesso contorno rosa della foto della maglietta gialla, mentre quella più nota mostra ancora il sacchetto della pattumiera con il titolo della canzone sotto al nome della band.

Non sapremo mai se la foto con la maglietta gialla avrebbe compromesso l'immagine della band e il successo del disco. E' pur vero che altre band coeve dei Bon Jovi, come i Lizzy Borden o i Britny Fox, hanno usato immagini di ragazze in pose sexy nelle copertine dei loro dischi, ma i Bon Jovi hanno sempre mantenuto un'immagine più seria di questi altri gruppi e quindi i dubbi del loro cantante erano più che fondati. Non possiamo comunque non lodare la creatività di Jon che gli ha concesso di sbloccare la situazione con un sacchetto della pattumiera.

mercoledì 1 febbraio 2017

Marco Mendoza - Pavia, 31/1/2017

Mi sembrava incredibile che un musicista leggendario come Marco Mendoza potesse venire a suonare a Pavia, eppure il piccolo e storico Spaziomusica di via Faruffini ci ha regalato lo scorso 31 gennaio un concerto del mitico bassista che ha militato nei Whitesnake, nei Thin Lizzy, che ha suonato con Tim "Ripper" Owens, con Dolores O'Riordan e che da qualche anno è membro stabile dei Dead Daisies.

Mendoza ha fatto l'ingresso sul palco più informale che abbia mai visto, camminando in mezzo alla folla mentre beveva qualcosa di fresco, per poi salire sul palco facendosi spazio tra il pubblico accalcato, togliersi la sciarpa e la camicia di jeans che indossava sopra alla maglietta prima di imbracciare il basso.

Da quel momento sono state due ore di musica ininterrotta di sano hard rock allegro e sanguigno condito da forti venature funk e di sonorità nere. Mendoza, accompagnato da un chitarrista e un batterista italiani, ha eseguito principalmente pezzi dal suo album solita Live for Tomorrow del 2007 a cui ha aggiunto alcune cover di artisti con cui ha lavorato, come Hey Baby di Ted Nugent o Hole in My Pocket di Neal Schon, e alcuni omaggi al passato come I Feel Good di James Brown, Give Peace a Chance di John Lennon e God Bless the Child di Billie Holiday, unico brano lento e raccolto eseguito in mezzo al pubblico in una serata di energia a fiumi. E proprio grazie alla varietà del repertorio Marco dimostra anche di essere un musicista a 360 gradi, non legato solo all'hard rock ma in grado di spaziare e far apprezzare forme musicali molto diverse attingendo anche a piene mani dalla tradizione della musica nera.

Mendoza ha scelto di eseguire, come di consueto nei suoi live, un set molto ristretto di pezzi, circa una decina, arricchendo ciascuno di lunghi assoli di basso, parti suonate e divertentissime interazioni con il pubblico scendendo spesso a suonare in mezzo alla folla. Ogni brani dura così circa dieci minuti: scelta insolita, ma sicuramente vincente e che dà modo a Mendoza di esprimere anche il proprio lato umano. Marco infatti si rivela un musicista vicinissimo al suo pubblico, cosa non comune per un artista che ha venduto milioni di dischi, che non nega a nessuno una foto, un autografo o una battuta.

E quasi non sembra di ritrovarsi al concerto di un musicista storico, uno senza il quale il rock non sarebbe uguale, perché Mendoza è così umano che si comporta come se fosse solo un musicista di talento chiamato ad animare una festa tra amici, uno che chiede agli altri musicisti in sala come si chiamano i loro gruppi e se hanno una pagina Facebook e se i loro video si trovino su YouTube. E invece quell'uomo con la barba e le catene al collo è bassista leggendario, uno che ha scritto la storia del rock, e per una sera la storia del rock si è fermata a Pavia.

venerdì 20 gennaio 2017

Lock Up - Something Bitchin' This Way Comes

Prima di essere il chitarrista dei Rage Against The Machine e degli Audioslave, Tom Morello militava in una band chiamata Lock Up che ebbe una brevissima carriera alla fine degli anni 80. La band nacque nel 1987 e la formazione originale era composta da Mike Livingston alla chitarra, Kevin Wood al basso, Micheal Lee alla batteria e Brian Grillo alla voce. Lee lasciò la band poco dopo la fondazione e fu sostituito da D. H. Peligro il quale rimase nel gruppo per un periodo molto breve per poi essere a sua volta sostituito da Vince Ostertag. Nel 1988 Morello prese il posto di Livingston e Chris Beebe sostituì Wood al basso.

Con la formazione definitiva la band incise un solo album nel 1989 intitolato Something Bitchin' This Way Comes. La musica dei Lock Up si inserisce nel filone funk metal che a cavallo tra gli anno 80 e 90 includeva anche gruppi come i Fishbone e i Primus e che è composta da un hard rock vibrante e divertente condito con profonde venature di musica nera di ispirazione funk.

L'album dei Lock Up è composto da dodici brani il cui suono è contraddistinto dalla chitarra di Morello che si esprime in modo completamente diverso da quando farà in seguito nei Rage Against The Machine basandosi soprattutto su arpeggi e tapping; un altro aspetto distintivo dei Lock Up è la voce saltellante di Brian Grillo che risente sicuramente anche dell'esplosione dell'hip-hop che in quel periodo dominava le classifiche. Delle dodici tracce del disco, undici sono veloci e potenti e a queste si aggiunge il midtempo Kiss 17 Goodbye (scritto con 17 al posto di It anche sulla copertina del singolo) che rallenta leggermente il ritmo rispetto al resto del disco.

Tra i pezzi migliori e più energici troviamo sicuramente il brano di apertura Can't Stop the Bleeding arricchito dal controcanto sul ritornello dei tre strumentisti. Oltre a questo si distinguono Nothing New (di cui fu anche realizzato un video), Punch Drunk e Half Man, Half Beast in quanto sono i pezzi in cui si notano maggiormente gli esperimenti sonori di Morello alla chitarra.

Dopo l'uscita dell'unico album anche Ostertag lasciò il gruppo e fu sostituito da Jon Knox, ma il gruppo si sciolse poco dopo. Tuttavia l'unica prova in studio dei Lock Up è un disco di grande valore perché dimostra anzitutto l'incredibile versatilità di Tom Morello che nei decenni a venire avrebbe intrapreso strade musicali completamente diverse dal funk metal, ma anche che talvolta dei musicisti semisconosciuti possono creare album ottimi in grado di regalare un'ora di musica divertente e per nulla banale.

lunedì 5 dicembre 2016

Giacomo Voli - Milano, 3/12/2016

Non avevo mai visto Giacomo Voli dal vivo, non avevo mai assistito a un concerto in acustico, non ero mai stato al The Boss di Milano. E quindi non sapevo proprio cosa aspettarmi da questa serata di rock italiano unplugged.

Il locale nel cuore di Milano è molto raccolto e l'esibizione si è svolta nella sala sotterranea, al termine della cena al piano di sopra dove Giacomo girava tra i tavoli dimostrando molta vicinanza ai suoi fan e anche una bella dose di simpatia che rende il tutto più divertente. E quando si sono accese le luci rosse sul piccolo palco del The Boss, Giacomo ha creato un'atmosfera magica appena ha appoggiato le dita sulla tastiera per iniziare la propria esibizione con Gethsemane tratto da Jesus Christ Superstar per poi proseguire con oltre due ore di musica attingendo da un repertorio vastissimo che spazia dai Deep Purple, ai Queen, passando per Bob Dylan e i Pink Floyd e tra questi non sono mancati alcuni omaggi alla migliore musica italiana con brani della PFM, di Mia Martini e dei Litfiba. Il tutto rigorosamente unplugged. Giacomo si accompagna alla tastiera o alla chitarra e per gran parte dello spettacolo è affiancato alla chitarra e alle seconde voci da Riccardo Bacchi, chitarrista della GV Band. In due pezzi Giacomo ha duettato anche con le voci femminili di Chiara Tricarico dei Temperance in Lost Words of Forgiveness dei TeodasiA e di Francesca Mercury in Somebody to Love dei Queen. Oltre ai pezzi delle grandi leggende della musica Giacomo ha proposto anche quelli del suo EP Ancora nell'Ombra e alcuni inediti scritti da lui stesso e da Riccardo Bacchi.

Tutto il concerto si è svolto in un'atmosfera molto amichevole e casalinga, quasi come in una serata tra amici che si ritrovano a condividere un po' di buona musica, con Giacomo che coinvolge il pubblico sui brani più noti e corali, come Hush dei Deep Purple o la già citata Somebody to Love. Ma oltre a creare un ambiente intimo, Voli dà in ogni pezzo una prova della sua voce potente e dall'estensione incredibile capace di raggiungere vette altissime e anche tonalità basse con grande efficacia. Giacomo chiude il concerto con Life on Mars di David Bowie, eseguita anche a The Voice, prima che il pubblico gli chieda un inevitabile bis perché il concerto è stato troppo bello e nessuno ha voglia di andare a casa. La richiesta viene esaudita con due pezzi: il Nessun Dorma di Puccini e Child in Time dei Deep Purple nel quale Giacomo si esibisce in un vocalizzo incredibile nel quale si lancia in un fantastico sovracuto.

Prima di entrare al The Boss non sapevo cosa aspettarmi e forse è stato meglio così, perché le emozioni della buona musica non si possono prevedere. La musica è fatta di spontaneità e delle emozioni che i grandi interpreti sanno creare, e Giacomo Voli è sicuramente uno dei migliori nel panorama rock nostrano.

lunedì 21 novembre 2016

Europe The Final Countdown Tour - Milano, 20/11/2016

The Final Countdown è il primo album che ho comprato nella mia vita, avevo otto anni. Da allora è indiscutibilmente il disco più famoso e iconico che gli Europe abbiano mai realizzato, e probabilmente è anche l'unico che gran parte della folla stipata all'Alcatraz conosceva. La scelta del gruppo di intitolare The Final Countdown Tour la loro attuale tournée suggerisce proprio questo e se da un lato questo celeberrimo LP ha consentito al quintetto di Stoccolma di raggiungere la fama mondiale di cui gode, è anche vero che lo stesso disco mette troppo spesso in ombra gli altri capolavori degli Europe che, beninteso, nella loro lunga carriera hanno inanellato una bella serie di successi discografici e Out of This World, Prisoners in Paradise, Bag of Bones e il più recente War of Kings sono capolavori del rock dello stesso valore di The Final Countdown. Forse solo Secret Society del 2006 è stato leggermente inferiore alle aspettative, ma per il resto gli Europe non hanno mai sbagliato un disco.

In questo tour il gruppo ha operato una scelta atipica e coraggiosa: eseguire solo due album e per intero. Lo spettacolo è infatti nettamente diviso in due: nella prima metà la band esegue tutto War of Kings e nella seconda metà esegue proprio The Final Countdown suonando i pezzi nello stesso ordine in cui compaiono nel disco. Fa sorridere che, avendo subito contestazioni dal pubblico che non conosceva War of Kings nella date precedenti, il gruppo è costretto sia spiegare questa scelta prima ancora di iniziare a suonare. Ma a parte le contestazioni di chi non conosce molto la carriera degli Europe, fortunatamente e senza troppi giri di parole, è stato un concerto semplicemente perfetto, la band convince sotto tutti i punti di vista, con l'energia travolgente del loro hard rock che scorre a fiumi invadendo la folla sia sui brani lenti sia su quelli energici.

Joey Tempest affronta il caldo infernale dell'Alcatraz con una giacca di pelle borchiata chiaramente ispirata, se non risalente, agli anni 80. La prima ora del concerto è contraddistinto dalle sonorità hard & heavy ricche di venature blues come nella tradizione dei mostri sacri degni anni 70 come i Rainbow o Whitesnake a cui si ispira War of Kings. La seconda è invece caratterizzata dall'AOR più melodico, ricco di tastiere e delle emozioni di trent'anni fa. Joey coinvolge a più riprese il pubblico, facendogli cantare ponti e ritornelli, e si avvicina a toccare le mani dei fans più vicini al palco ritardando in un occasione la ripresa del canto dopo uno stacco musicale. Il cantante prova anche a dire qualche parola in italiano e gli riesce piuttosto bene con l'esperimento che viene accolto con calore e affetto dalla folla. Dal punto di vista dell'energia, della precisione dei musicisti e della voce di Tempest, gli ultimi trent'anni sembrano non essere passati. In particolare la potenza vocale di Joey non è minimamente intaccata dagli anni che passano.

Resta forse un solo rimpianto in quella magica serata dell'Alcatraz: quello di notare come la folla conosca solo i testi dei pezzi di The Final Countdown e faccia fatica a seguire quelli di War of Kings. Viene da chiedersi se conoscano gli altri dischi degli Europe e forse è meglio continuare a non saperlo. E' un po' sconsolante vedere che gran parte degli sforzi musicali del gruppo vengano ignorati dal grande pubblico, non ci resta che la speranza che il bellissimo concerto milanese abbia lasciato la curiosità al pubblico di andare a scoprire che la band di Joey Tempest ha composto molti dischi di grande valore oltre al celeberrimo The Final Countdown.

domenica 13 novembre 2016

Litfiba - Eutòpia

Sono trascorsi quasi cinque anni dal lontano 17 gennaio del 2012 quando uscì Grande Nazione, il primo album in studio successivo alla reunion tra Ghigo Renzulli e Piero Pelù seguito a un allontanamento artistico durato dieci anni. E finalmente dopo una lunga attesa arriva il nuovo album dei Litfiba intitolato Eutòpia che prima ancora che per la musica colpisce per la bellissima grafica caratterizzata da un'atmosfera steampunk che pervade tutte le foto di copertina e del libretto.

Il disco è composto da dieci pezzi (più due disponibili solo nella versione in vinile) di puro hard rock sfrenato e trascinante. Il pezzo di apertura intitolato Dio del Tuono dà l'avvio all'album in grande stile con sonorità che corrispondono al titolo grazie a un suono tonante contraddistinto da duri riff di chitarra e dalla potente voce di Piero che nel finale di lancia in un lungo e poderoso urlo a metà tra uno scream metal e un acuto lirico.

La band si avventura anche in alcune sperimentazioni musicali toccando campi inesplorati in passato (pur avendo nei suoi 35 anni di attività esplorato stili di rock diversissimi) e riprende anche esperimenti sonori già provati in passato. Due pezzi iniziano con un fischio di parte di Piero, esperimento già provato in Spirito e Il Mio Corpo Che Cambia. Il primo di questi è Maria Coraggio, dedicato alla memoria di Lea Garofalo e pubblicato su internet la settimana prima dell'uscita dell'album; il secondo è Straniero che è l'unica vera ballad del disco dal sapore decisamente western. Altro brano piuttosto lento, almeno sulle strofe, è Intossicato, il cui ritornello accelera notevolmente a creare un brano dalla doppia faccia e di grande effetto grazie al netto cambio di tempo.

Ritmi lenti si trovano anche nella title track che chiude l'edizione in CD, anche questa parte lenta come una ballad per poi assestarsi su ritmi midtempo.

Due brani iniziano con un cantato più basso e ruvido di quanto Piero abbia mai fatto in questi quasi quattro decenni di carriera. Il primo di essi è Santi di Periferia, travolgente rock che per il suo ritmo saltellante vira verso il funk. Il secondo è l'aspro In Nome di Dio, che condanna ogni tipo di fanatismo religioso. Nel disco troviamo anche l'ottima L'Impossibile, rilasciata su internet un mese prima del resto dell'album, un hard rock energico impreziosito da un bel coro sull'ultimo ponte.

Tra i brani degni di nota troviamo anche la grintosa Gorilla Go che parla degli arrivisti che avanzano a spallate usando la metafora del mondo calcistico, riprendendo così sia le tematiche di Nuovi Rampanti sia quelle di Diavolo Illuso. Ottimo brano è anche Oltre che unisce chitarre che ricordano le colonne sonore di Morricone a uno stile musicale e canoro che tende con forza verso il punk.

Come anticipato, nella versione in vinile sono presenti due tracce strumentali in più. La prima è intitolata La Danza di Minerva ed è stata scritta da Ghigo, anch'essa ha un retrogusto western grazie al suono leggero delle chitarre e propone la base per la melodia di quello che poi sarebbe diventato L'Impossibile. La seconda si intitola Tu Non C'eri ed è stata scritta da Piero come colonna sonora del film omonimo di Erri De Luca interpretato proprio da Piero.

In sintesi Eutòpia è un vero capolavoro di rock sanguigno a 360 gradi. Il disco convince sotto tutti i punti di vista, sia per la qualità sia per la varietà dei suoni proposti. Da anni i fan dei Litfiba dibattono su quale sia il miglior album della band fiorentina, tra i sostenitori della trilogia del potere e quelli della quadrilogia degli elementi, e da oggi questa insolita competizione ha un nuovo contendente, perché Eutòpia è davvero un album stellare che metterà tutti d'accordo.

martedì 4 ottobre 2016

Da dove nasce l'uso del gesto delle corna?

Il gesto delle corna è uno dei capisaldi della cultura rock e metal e viene fatto dalla folla a ogni concerto davanti alle proprie band preferite. Purtroppo le origini di questo gesto si perdono nella storia, la teoria più nota vuole che questa usanza fu avviata da Ronnie James Dio quando si trovò a essere il leader dei Black Sabbath ma in realtà era diffusa già da molto prima.

Il primo uso documentato di questo gesto con riferimento alla musica rock si trova sulla copertina inglese del 45 giri Yellow Submarine / Eleanor Rigby dei Beatles uscito nel 1966
(la versione americana riportava una foto diversa della band) in cui si vedono i fab four che tengono un sottomarino giallo in mezzo a loro mentre John Lennon fa il gesto delle corna con la mano sinistra con anche il pollice esteso. La stessa foto è riportata sul vinile sul lato di Yellow Submarine. Due anni dopo, nel 1968, i Beatles pubblicarono il film omonimo sulla cui locandina i quattro sono disegnati e nel disegno John Lennon esegue il gesto delle corna sulla testa di Paul McCartney.

In origine, quindi, il gesto delle corna non era strettamente connesso all'ambito dell'hard rock e del metal. Il primo uso di questo gesto nell'ambito hard&heavy (o di quello che oggi definiremmo proto-metal) risale infatti a tre anni dopo e si trova sul retro della copertina dell'album Witchcraft Destroys Minds & Reaps Souls dei Coven pubblicato nel 1969. Nella foto sul retro si vedono tre dei membri del gruppo fare il gesto delle corna e nella foto interna della copertina del vinile si vede il gruppo fare il medesimo gesto intorno a una donna nuda stesa in mezzo al loro con un teschio sui genitali a suggerire che la stessa debba essere l'oggetto di un sacrificio umano.

Ma non furono i Coven a lanciarne l'uso massivo nella musica metal, perché all'inizio degli anni 70 il gesto delle corna fu usato come segno distintivo dei Parliament-Funkadelic (gruppo nato dalla fusione dei Parliament e dei Funkadelic che di fatto erano formati dagli stessi musicisti) capitanati da George Clinton e Bootsy Collins. Il gesto delle corna veniva eseguito nelle esibizioni live sia dalla band che dal pubblico all'interno dell'universo iconografico della band definito P-Funk mythology. La copertina dell'album Ahh... The Name Is Bootsy, Baby! dei Bootsy's Rubber Band (uno dei tanti progetti paralleli dell'universo P-Funk) del 1977 mostra Collins che fa il gesto delle corna al pubblico che lo attornia.

Il primo uso di questo gesto che lo ha reso popolare al grande pubblico dell'hard rock e del metal è riconducibile a Gene Simmons che sulla copertina di Love Gun del 1977 fa il gesto delle corna con la mano destra. Nella sua autobiografia pubblicata nel 2002 e intitolata Kiss And Make-Up Simmons racconta di aver iniziato a fare il gesto delle corna per caso: alle volte teneva il plettro con il pollice il medio e l'anulare e il pubblicò pensò che stesse facendo le corna e rispose imitandolo. In seguito Simmons continuò a fare questo gesto nelle foto o in altre apparizioni pubbliche tenendo esteso anche il pollice perché l'intenzione originale era di imitare il gesto di Spider Man quando lancia la tela dal proprio polso.


Alla diffusione del gesto delle corna contribuì notevolmente anche Ronnie James Dio, come anticipato all'inizio dell'articolo, quando nel 1979 diventò la voce dei Black Sabbath in sostituzione di Ozzy Osbourne. Dio (il cui soprannome deriva dall'assonanza del suo nome con quello del famoso mafioso Giovanni Dioguardi noto in America come Johnny Dio e non da riferimenti religiosi di alcun tipo) decise di utilizzare un gesto proprio per sostituire il segno della pace con indice e medio alzati usato frequentemente da Ozzy. Come spiegato in numerose occasioni (come le interviste rilasciate a Metal-Rules e a Rock Scene Magazine), Dio optò quindi per il gesto delle corna che vedeva fare da sua nonna (Dio era un americano di prima generazione i cui genitori e nonni erano italiani) per scacciare il malocchio; il cantante eseguiva il gesto già quando era il frontman dei Rainbow, a partire dal 1975, ma questo divenne popolare alle grandi masse solo dopo che Dio prese il posto di Ozzy nei Black Sabbath.

Quindi, in sintesi, potremmo dibattere a lungo se a renderlo popolare nel mondo hard&heavy sia stato Gene Simmons o Ronnie James Dio, ma è indubbio che il primo utilizzo di tale gesto nel mondo del rock risalga invece a John Lennon che, tra le tante innovazioni che ha portato, ha introdotto anche il gesto delle corna.

giovedì 22 settembre 2016

Cosa significa il nome Kiss?

Secondo una popolare leggenda metropolitana il nome della band Kiss significherebbe Knights In Satan's Service. Prima ancora di andare a vedere qual è la vera origine del nome scelto dalla band guidata da Paul Stanely e Gene Simmons sarebbe interessante che chi crede a questa teoria spiegasse dove vede dei rimandi satanici nell'attività dei Kiss, visto che la loro musica parla di norma di feste, divertimento e di amore.

Ma se il buon senso non basta, ci sono comunque smentite dettagliate e spiegazioni da parte dei fondatori del gruppo. Nella sua autobiografia Face the Music: A Life Exposed pubblicata nel 2014 Paul Stanley scrisse di aver sentito queste teorie per la prima volta nel 1977 e di aver deciso, dopo averle ignorate per un po', di volerle combattere affinché il nome della sua band non venga infangato da accuse infondate. We were not knight in Satan's service, devil worshipers on anything else chiarisce il cantante.

Nel libro Kiss And Make-Up uscito nel 2002 anche Gene Simmons smentisce queste voci aggiungendo che queste nacquero in seguito a una sua intervista alla rivista Circus in cui disse che talvolta si chiede che sapore abbia la carne umana, ma precisando che si trattava solo di una curiosità, non di qualcosa che avrebbe voluto sperimentare. Questa asserzione, unita alla sua usanza di fare il gesto delle corna portò alcuni a ritenere che Simmons fosse un adoratore del demonio.

Una terza smentita arriva anche dal chitarrista Ace Frehley che nella sua autobiografia No Regrets pubblicata nel 2011 chiarisce il concetto in modo più esplicito dei due colleghi: Complete and utter bullshit.

Sgombrato il campo dalle leggende, il vero significato del nome è spiegato nella biografia ufficiale dei gruppo intitolata Behind the Mask pubblicata nel 2003. Il nome Kiss è effettivamente un acronimo, ma significa Keep It Simple, Stupid.

Un'altra popolare leggenda riguardo i Kiss vuole che la doppia S nel logo sia disegnata in modo da ricordare il simbolo delle SS naziste. La bozza iniziale del logo fu disegnata da Ace e poi completata da Stanley. In realtà, come spiegato di nuovo da Frehley in No Regrets le due S volevano essere due fulmini senza altri significati, tuttavia Stanley (che si dice molto sensibile all'argomento in quanto di famiglia ebrea) spiega che anche suo padre fu ingannato dal disegno e pensò che ci fossero significati nazisti. La band fu comunque costretta a modificare il proprio logo in Austria, Svizzera, Polonia, Lituania, Ungheria e Israele sostituendo le due S con delle Z rovesciate e a distanza di quattro decenni dall'inizio della sua carriera la band usa ancora un logo diverso in questi stati. Basta confrontare, ad esempio, le copertine di Monster per rendersi conto di ciò.


Purtroppo accuse infondate di questo tipo, sia quelle legate al satanismo sia quelle legate al nazismo, possono infangare il nome di una band e arrecare danno a chi, come i Kiss, davvero non se lo merita. E in questo caso le leggende non aiutano a creare un'aura di mistero intorno alla musica, servono sono a screditare una delle più grandi band della storia.

domenica 7 agosto 2016

The Dead Daisies - Make Some Noise

Ci sono supergruppi che si limitano a incidere album in studio, e poi ci sono quelli che fanno anche tournée e suonano dal vivo. E' questo il caso degli australoamericani Dead Daisies che oltre ad avere il merito di suonare nelle arene e negli stadi hanno anche quello di essere incredibilmente prolifici, visto che il loro nuovo album Make Some Noise esce a poco più di un anno di distanza dal precedente Revolución.

Rispetto al lavoro precedente la formazione del gruppo ha visto qualche cambio con la fuoriuscita di Richard Fortus e Dizzy Reed e l'ingresso di Doug Aldrich alla chitarra. Gli altri membri del gruppo restano David Lowy alla chitarra ritmica, Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria e John Corabi (ex vocalist dei Mötley Crüe) alla voce.

Se la formazione cambia, non cambia invece lo stile musicale del gruppo. Come dice il titolo stesso dell'album, Make Some Noise offre del sano hard rock festaiolo e divertente con forti venature blues soprattutto nei riff di chitarra; del resto l'amore dei Dead Daisies per il blues non sorprende visto che Revolución conteneva una cover di Evil di Howlin' Wolf. La band infatti si ispira chiaramente ai mostri sacri del passato, come gli Aerosmith o i Van Halen degli inizi, che hanno fatto dal proprio marchio di fabbrica il connubio tra rock e blues. Ma la vera peculiarità della musica dei Dead Daisies sta nella forte e graffiante voce di Corabi che anche questa volta mette in campo tutta la sua esperienza e capacità ed è proprio Corabi, va riconosciuto, che ha concesso alla band di fare un vero salto di qualità quando tra il primo e il secondo album ha preso il posto del pur bravo ma inferiore Jon Stevens.

Il brano di apertura del disco, intitolato Long Way to Go, era stato pubblicato in video a giugno e dà subito una bella scarica di energia che si ritrova in tutti gli altri pezzi. Tra i brani migliori troviamo anche Song And a Prayer in cui lo stile degli Aerosmith si sente forte e Corabi sembra imitare Tyler anche nel cantato; spiccano anche le energiche Mainline e Freedom che si contendono il titolo del brano più veloce dell'intero disco, la festaiola e coinvolgente Last Time I Saw the Sun, la trascinante title track la cui strumentazione musicale ricorda We Will Rock You e l'allegra All The Same.

L'album contiene anche due preziose cover. La prima è Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, riproposta in versione molto simile all'originale ma resa più energica dal suono delle chitarre; la seconda è Join Together degli Who che viene trasformata in un inno travolgente mantenendone ovviamente il coro sul ritornello che anche in questa versione ne è il punto di forza.

Il nuovo album dei Dead Daisies conferma le aspettative regalando dodici tracce di puro rock sanguigno con forti influenze blues come nella tradizioni delle band che li hanno ispirati. Del resto se una delle caratteristiche distintive dei Dead Daisies è la loro solerte attività dal vivo la band ha raggiunto il proprio scopo incidendo dodici pezzi che si prestano tantissimo ad essere suonati davanti alla folla. Un altro merito indiscusso di questa band è di dare finalmente il giusto spazio alla voce di John Corabi, uno dei cantanti più sottovalutati della storia, che troppo spesso viene considerato solo sostituto temporaneo di Vince Neil. L'unica critica che può essere mossa a Make Some Noise è che i suoni proposti sono effettivamente un po' troppo simili tra loro e l'album non brilla per varietà; ma è anche vero che dai supergruppi non ci si aspetta innovazione o sperimentazione, ma piuttosto che regalino della musica divertente che sappia coniugare immediatezza e qualità. E questo disco sicuramente centra l'obiettivo.

domenica 24 luglio 2016

Pino Scotto Bubbles Fest - Pavia, 23/7/2016

Credit: Silvio Piccinini
Come sarà vedere Pino Scotto dal vivo? mi chiedevo in attesa di vedere per la prima volta il rocker napoletano in concerto. Del resto la sua carriera è stata così lunga e varia che non sapevo se avrei dovuto aspettarmi una maggioranza di pezzi dei Vanadium, dei Fire Trails o della sua carriera solista.

Prima di trovare una risposta a queste domande, appena entrato nel fossato del castello Visconteo di Pavia mi sono trovato immerso nella festa: quella del Bubbles Fest! Il Bubbles Fest non è solo un festival di quattro giorni di musica, ma è anzitutto una grande festa organizzata alla perfezione da un gruppo di volontari in cui si respira l'aria delle grigliate tra amici di mezza estate, in allegria, serenità e con tanta buona musica.

I gruppo di supporto hanno suonato fino a poco prima delle 23, quando Pino e la sua band sono saliti sul palco dando inizio a oltre un'ora di rock forsennato e carico di energia. La risposta ai miei dubbi è arrivata ben presto: Pino ha ricoperto tutta la sua carriera aprendo il concerto con alcuni pezzi dei Fire Trails, per poi passare ad alcuni tratti dal repertorio dei Vanadium e dedicando la seconda metà dello spettacolo alla sua carriera da solista, compresi i due inediti tratti dal suo ultimo album Live for a Dream. Il rock e l'energia della sua musica sono intervallati solo dai coloriti commenti socio-politici di Pino a cui il suo pubblico è ben abituato.

La band di Pino è stellare e la loro esecuzione è perfetta in ogni pezzo. Il batterista Marco Di Salvia resterà impresso nella mente degli spettatori tanto quanto Pino per la sua esecuzione energica e coinvolgente; non da meno sono il bassista Dario Bucca e il chitarrista Steve Angarthal a cui Pino cede il microfono a metà concerto per potersi concedere qualche minuto di pausa e per poter dar modo al chitarrista di eseguire un pezzo dal suo nuovo album solista intitolato Uranus And Gaia.

Credit: Silvio Piccinini
Ma oltre alla musica anche la voce di Pino conquista il pubblico, nonostante abbia passato i sessant'anni la potenza vocale non l'ha abbandonato così come l'estensione che gli consente degli scream che farebbero impallidire molti colleghi trentenni.

Al termine del concerto Pino si ferma sotto al palco a salutare i suoi fan a cui racconta di voler essere una persona vera prima ancora di essere un musicista, perché nonostante una carriera quasi quarantennale è ancora incredibilmente vicino al suo pubblico e molto più umano di tanti altri che hanno meno della metà della sua capacità e qualità.

Come recitava la scritta sullo sfondo del palco, durante la serata è stata più volte ricordato il leggendario Lemmy Kilmster recentemente scomparso. Perché il rock è anzitutto voglia di stare insieme e anche di ricordare chi ne ha scritto la storia ma ora non c'è più.

Grazie Pino e grazie Bubbles Fest per la bella serata. A presto!

martedì 12 luglio 2016

I presunti misteri di Stairway to Heaven

La carriera dei Led Zeppelin è costellata di grandi successi dagli inizi fino alle pubblicazioni dei soli Page e Plant successive allo scioglimento del gruppo. Tra i loro innumerevoli brani di successo Stairway to Heaven occupa sicuramente un posto privilegiato perché per via della sua armonia e del suo testo onirico è al centro di numerose leggende metropolitane riguardo a presunti significati misteriosi che il pezzo nasconderebbe. Tra l'altro a dispetto del suo successo Stairway to Heaven non è mai stata stampata in singolo per la vendita ma solo in 45 giri promozionale.

Secondo una popolare leggenda infatti il brano conterrebbe strani messaggi se riprodotto al contrario. In particolare il verso If there's a bustle in your hedgerow, don't be alarmed now it's just a spring clean for the May Queen. Yes, there are two paths you can go by, but in the long run there still time to change the road you're on nasconderebbe significati satanici e se riprodotto al contrario direbbe Oh here's my sweet Satan, the one little path won't make me sad, whose power is saint... he'll give growth giving you six-six-six... a little tool shed he'll make us suffer sadly. Su alcuni siti web si trovano testi leggermente diversi e qualcuno arriva a ipotizzare che l'intera canzone possa essere ascoltata al contrario perché tutta conterrebbe un testo satanico.

In realtà nessun teorico di queste strane teorie ha mai spiegato come avrebbero potuto i Led Zeppelin registrare i versi incriminati prevedendo quale suono avrebbero avuto se riprodotti al contrario né per quale motivo avrebbe dovuto farlo quand'anche fossero aderenti a religioni oscure. Si tratta solo infatti di un caso di pareidolia acustica grazie a cui è possibile attribuire significati sinistri a qualunque brano sentendolo al contrario. Ovviamente la band ha smentito in più occasioni di aver inserito intenzionalmente messaggi misteriosi all'interno del pezzo; nella biografia non ufficiale Hammer of the Gods del giornalista Stephen Davis (disponibile anche in italiano con il titolo Il Martello degli Dei) viene riportato il parere del tecnico del suono Eddie Kramer che definisce queste teorie totally and utterly ridiculous [totalmente e completamente ridicole]. E aggiunge:

Why would they want to spend so much studio time doing something so dumb? [Perché avrebbero voluto spendere così tanto tempo in studio per fare una cosa così stupida?]

Lo stesso Page in un'intervista rilasciata nel 1983 alla rivista Musician smentì queste leggende senza nascondere un po' di rabbia; disse infatti Page:

to me it's very sad, because 'Stairway to Heaven' was written with every best intention, and as far as reversing tapes and putting messages on the end, that's not my idea of making music. [per me è molto triste, perché 'Stairway to Heavern' è stata scritta con le migliori intenzioni, e riguardo all'invertire il nastro e mettere messaggi alla fine, non è la mia idea di fare musica].

Accantonate le ridicole accuse di satanismo, i veri misteri riguardo a Stairway to Heaven sono altri: la band è stata infatti accusata di aver plagiato il brano Spirit dei Taurus nell'arpeggio di chitarra iniziale. Spirit è stata pubblicata nel 1968, tre anni prima di Stairway To Heaven, ed effettivamente l'arpeggio sembra proprio simile. In realtà non sarebbe neanche inaspettato che i Led Zeppelin prendano spunto in modo disinvolto e non autorizzato da pezzi di altri, ma in questo caso il tribunale ha stabilito invece che la somiglianza tra i due brani non è sufficiente perché si tratti di plagio e la band di Page e Plant è stata quindi prosciolta.

L'unico vero mistero su Stairway to Heaven è stato quinti risolto in tribunale, mentre per l'accusa di satanismo non c'è e non c'è mai stato alcun mistero da dipanare.